Frontiere tra mondi e interpretazioni incompatibili:
riflessioni intorno a Dark Water
di Matteo Treleani
Una bimba attende la madre all'uscita
dall'asilo. La madre non arriva.
Si potrebbe riassumere così Dark Water, film che
è innanzitutto la storia di una madre che non riesca
ad accettare il suo ruolo e della sindrome di abbandono della
figlia. Forma ricorrente in molto cinema contemporaneo è
quella di raccontare storie normali e poi sfaldarle su
più piani, temporali, attuali e virtuali. Diversi strati
che fanno riferimento a diversi modelli interpretativi. La sensazione
d'instabilità provocata dal film è data dal tenere
costantemente attivi i passaggi da un piano all'altro. In Lector
in Fabula Umberto Eco applica la teoria dei mondi possibili
ai testi, sostenendo che le aspettative create nel lettore per
l'attualizzazione di uno o più mondi regolano l'interpretazione,
creando effetti di tensione o di sorpresa nel realizzare o non
realizzare i mondi che il lettore si aspetta (1). Dark Water
è una sorta di punto di accessibilità che tiene
aperte tutte le potenzialità, ponendo lo spettatore in
uno stato d'inquietudine dato dall'impossibilità di prevedere.
"Una bimba attende la madre all'uscita
dall'asilo. La madre non arriva", dunque. La bimba è
Ikuko e la madre Yoshimi. Nel film vedremo Ikuko aspettare fuori
dell'asilo; Yoshimi è in ritardo e a portarla a casa
sarà il padre. Ma la stessa cosa accadde a Yoshimi da
bambina. La madre la abbandonò e non venne a prenderla.
E, ancora, a Mitsuko, la bimba scomparsa il cui spirito vaga
per l'edificio. La madre di Mitsuko non viene a prenderla, lei
sotto la pioggia e con l'impermeabile giallo torna a casa da
sola, sale sul tetto, vede il serbatoio dell'acqua aperto e
ci precipita dentro. Ikuko vive invece su un punto di passaggio,
tra l'abbandono e il non abbandono: viene dimenticata all'asilo,
è accompagnata dal padre, ma continua a vivere con la
madre, Yoshimi. I genitori sono separati e Yoshimi non riesce
a gestire questa situazione. Alla fine abbandonerà Ikuko
(d'altronde la storia è sempre la stessa) e la bimba
verrà affidata al padre. Mitsuko e Ikuko d'altra parte
sono la stessa bambina. Mitsuko è la proiezione, l'incubo,
di Yoshimi, il suo mondo possibile nel caso in cui perdesse
la figlia. Non è un caso che Mitsuko sia un essere terrificante:
l'incubo peggiore per una madre è quello di perdere la
propria figlia. Ikuko è lo stato di transizione che tende
al perdersi, all'abbandono: gioca con Mitsuko, parla con lei,
usa la sua borsa rossa e Mitsuko, l'incubo virtuale di un possibile
abbandono, la chiama a sé. Yoshimi fa di tutto per impedirlo,
per non perdere la bambina e mantenere l'affidamento, per allontanarla
da Mitsuko. Perché, d'altronde, tutto quell'astio, fin
dall'inizio, nei confronti della borsa rossa? Atteggiamento
che provoca sconcerto persino nel portinaio. Perché Yoshimi
vuole impedire a Ikuko di andarsene, ma, cosa tremenda, non
ci riesce. E la borsa rossa è un punto di contatto con
l'altro mondo, con lo smarrimento della figlia.
Guardando al passato, invece, vediamo Yoshimi
da piccola, abbandonata a sua volta dalla madre. Yoshimi tenta
di impedire che la stessa cosa accada alla figlia, eppure deve
impedire a se stessa di abbandonarla. E non può farlo
perché il fatto, appunto, è già accaduto.
Dark Water mostra una sorta di presente perpetuo, di
compresenza dei piani. Perché Mitsuko e Ikuko sono la
stessa bambina, ma la madre resterà con Mitsuko, sacrificandosi.
Per impedire a Ikuko di entrare in contatto con lo spirito maligno,
diventa la madre che Mitsuko aveva perso. Ma Mitsuko è
la presentificazione virtuale di un incubo. Accettando quel
mondo Yoshimi abbandona Ikuko a se stessa. Il peggiore degli
errori, Yoshimi lo fa nel finale, correndo sul tetto a cercare
Mitsuko. In quel momento lascia la figlia da sola in casa e
al ritorno troverà Mitsuko al suo posto. Yoshimi sbaglia
perché non sceglie. Non sceglie di essere madre, non
riesce ad accettare il suo ruolo. Il finale è così
insopportabile alla visione, perché Yoshimi non muore
e non vive, ma è costretta a vivere su un punto di frontiera.
Yoshimi va dunque incontro al suo incubo, a una nuova figlia,
Mitsuko, che è devoltificata, perché privata di
espressione e dunque della più basilare fra le affezioni.
I capelli neri nascondono il volto perché esso è
un'immagine-affezione, segno iconico che, secondo Deleuze (2),
rinvia a se stesso. È la figlia privata degli affetti,
o dell'amore materno. La bimba è dunque sfaldata su diversi
piani sovrapposti, strutture temporali e mondi possibili. Mitsuko
è Ikuko privata della sua identità, una figlia
senza madre né padre, abbandonata e dunque priva dei
termini relazionali che la definiscono. Il fatto di non riuscire
a scegliere, ad accettare per Ikuko il ruolo di figlia e per
se stessa quello di madre, porterà Yoshimi a vivere sulla
frontiera, a restare nell'ascensore e a dissolversi nell'acqua.
Dark Water dunque è una storia
circolare, dove una bambina lasciata dalla madre costruisce
il mondo ipotetico in cui avviene l'abbandono per darne una
giustificazione. In questo mondo ipotetico la madre, in cui
ovviamente s'immedesima la bambina stessa, si costruisce a sua
volta un mondo-incubo in cui perde la figlia. Paradossalmente
per impedire che questo mondo-incubo si avvicini alla figlia
stessa, combattuta dal timore di perdere la propria identità
occupando il suo ruolo di madre, è costretta a entrare
nell'incubo, abbandonandola. Visto in quest'ottica, totalmente
illogica - ma stranamente vicina all'oscuro labirinto della
mente -, l'abbandono è un sacrificio. E il sacrificio
è accettabile perché sanziona l'amore della madre.
L'ascensore
Come a sottolineare la specifica funzione del termine, quella
di connettere più piani, l'ascensore è un punto
di frontiera. Consente il contatto tra il sesto e il settimo
piano, tra l'abitazione di Ikuko e Yoshimi e quella di Mitsuko.
Non è un caso che nel finale l'ascensore s'identifichi
con l'acqua, il continuum per eccellenza. Il momento
in cui le porte si aprono e, invece di Yoshimi e Mitsuko, esce
soltanto una cascata d'acqua scura che travolge Ikuko in lacrime
è una citazione da Shining. E l'acqua è
onnipresente con allagamenti, umidità e pioggia. Tutto
dovuto al fatto che Mitsuko è annegata nel serbatoio
sul tetto dell'edificio. La macchia d'umidità sul soffitto
altro non è se non un mettere in connessione i due piani
diversi. Le gocce che attraversano il pavimento sono l'immagine
del collasso dei mondi in direzione di un continuum indeterminato,
verso tutte le direzioni possibili. L'ascensore, d'altra parte,
è il primo luogo in cui compare Mitsuko, sotto forma
di fantasma. Qui i piani entrano in contatto e può accadere
di tutto. Ancora prima di abitare la casa nuova, accompagnate
da un agente immobiliare, Yoshimi e Ikuko salgono sull'ascensore.
Ikuko stringe la mano alla mamma. Arrivati al sesto piano le
porte si aprono e Ikuko corre fuori. Ma Yoshimi sente ancora
la sua mano e non capisce chi gliela stia dando. Fin dall'inizio
era Mitsuko a toccarla così, come era sua la pozza d'acqua
sul pavimento. Proprio sul punto di frontiera, dunque, Ikuko
si sdoppia: contemporaneamente corre nel corridoio e resta nell'ascensore.
Sono i primi sintomi di uno sfaldamento. Nelle telecamere a
circuito chiuso che il portinaio costantemente osserva, inoltre,
si vede spesso nell'ascensore la nuca di una bambina, che non
è Ikuko, accanto a Yoshimi. Ma il portinaio non vede
la differenza tra Mitsuko e Ikuko, per lui, là dentro
c'è la stessa bambina. Nell'ascensore infine la
storia giunge al termine. Mitsuko e Ikuko s'invertono inspiegabilmente
i ruoli. Sul punto di frontiera basta un minimo perturbamento
per cadere da una parte o dall'altra, perché Ikuko diventi
Mitsuko. E Yoshimi è costretta ad abbracciarla, a urlare
a Ikuko di non avvicinarsi, di non varcare la porta. Restando
nell'ascensore Yoshimi accetta di vivere su un punto di frontiera,
frontiera tra diversi mondi e tra la vita e la morte.
Il mondo della morte
Non si può parlare di terrore senza chiamare in causa
la morte. La morte è il carattere fondamentale di qualsiasi
film horror: l'incursione nel quotidiano dell'al di là
è ciò che l'horror, di fatto, mette in scena (3).
Si parte sempre da una situazione ordinaria per poi rivoltarla
su se stessa attraverso la fusione col piano della morte o della
non-vita. La paura è d'altronde sempre paura di morire,
ma più di questo, è paura che il mondo altro
invada la nostra stabile quotidianità. Il genere costituisce
secondo Todorov (4) "un orizzonte d'attesa nel testo".
Si tratta di un sistema che regola l'interpretazione dello spettatore,
attualizzando alcuni mondi possibili. Fondamento della paura
nel film dell'orrore è proprio la consapevolezza che
si ha di fronte a un film dell'orrore. Situazioni assolutamente
normali assumono quindi aspetti inquietanti. Il problema non
è il se ma il quando e il come.
Dilatare i tempi aumenta dunque la tensione frustrando l'attesa
dello spettatore. Queste tecniche, insieme semplici ed efficaci,
sono ben presenti anche in Dark Water.
Nell'horror fantastico, sottogenere dell'horror,
i personaggi non sono inseguiti da "normali" assassini,
ma da fantasmi. Il fantasma è per sua natura la presentificazione
di un'assenza, è l'occupante senza posto che entra nel
nostro mondo, pur non facendone parte. La sua presenza non può
esser interpretata perché non appartiene alle leggi che
regolano il nostro sistema interpretativo e questo rende un
qualsiasi contatto con esso terrificante. Ma il fantasma, quando
entra sul piano della vita, lo fa perché inquieto, perché
non ha trovato la pace che gli consente di andarsene una volta
per tutte e qualcosa ancora lo lega al mondo terreno. Gli spiriti
nei film giapponesi vogliono che qualcuno li aiuti a risolvere
una questione irrisolta e le tremende maledizioni non sono che
una manifestazione di questa inquietudine. Nella propria prospettiva
dunque il fantasma non è cattivo, ma neanche buono, non
è una cosa né l'altra: il fantasma appunto non
è. La grandezza di Nakata Hideo è quella di
far credere tutto questo allo spettatore e dargli consapevolezza
che comunque c'è del bene sotto ogni cosa, per poi scuoterlo
con delle inaspettate crudeltà. Tanto che almeno metà
svolgimento di quel The Ring, che l'ha reso famoso, è
un tentativo totalmente fuori strada di annullare una maledizione,
che ci narra sì le vicende legate allo spirito di Sadako,
ma senza che nulla si risolva in termini narrativi. La scoperta
finale è che la maledizione resta in atto come una catena
e per interromperla qualcuno deve essere sacrificato (il nonno
nel caso del primo episodio). Che i propri resti siano portati
fuori dal pozzo evidentemente non interessa molto allo spirito
di Sadako, che uccide dietro una ferrea quanto immotivata e
poco fantasmagorica logica: quella della "catena di Sant'Antonio".
Chi vede il video deve mostrarlo a qualcun'altro entro una settimana,
pena la morte. La semplice logica dei test spam che invadono
le caselle di posta elettronica viene applicata a un mondo altro.
L'innovazione che i film giapponesi portano al genere è
una fusione con i caratteri attuali della società e con
una filosofia che deriva dal mito e dagli spiriti orientali.
Se ascoltiamo il genere horror,The Ring
è dunque uno squillo del telefono, l'arrivo del terrore
atteso. Ma è anche, sotto un'altra prospettiva l'anello.
Anello che solo la morte può spezzare. Portati per mano
fin nel profondo del genere siamo costretti a uscirne per usare
un carattere del reale estremamente attuale. Se un qualsiasi
Nightmare vuole uccidere un gruppo di ragazzi per vendetta,
perchè la sua anima possa riposare in pace una volta
vendicatane la morte, Sadako uccide sostanzialmente a caso,
forse sì per vendetta, ma contro il mondo intero. Se
l'horror fonda i propri meccanismi sull'impostazione di criteri
interpretativi basati sull'appartenenza al genere, i fantasmi
di Hideo sono comprensibili solo attraverso due prospettive
diverse. È l'impossibilità di usarle entrambe
in contemporanea che ce li rende sfuggenti e insopportabili.
Mitsuko è Ikuko e Yoshimi, ma è al tempo stesso
un fantasma, è il mondo della morte che vuole sovrapporsi
a quello della vita.
Tre colpi dall'interno della cisterna
Yoshimi abbandona Ikuko. Corre sul tetto e sale la scala a pioli
della cisterna: vuole capire cos'è accaduto a Mitsuko.
Legge la data dell'ultima pulitura del serbatoio: 14 settembre.
Lo stesso giorno della scomparsa di Mitsuko. Le immagini della
bambina che sale sulla scaletta e cade nell'acqua scorrono nella
mente di Yoshimi. Capisce che Mitsuko è rimasta là
dentro. Dentro la cisterna potrebbe esserci qualcosa, forse
lo spirito di Mitsuko. Alcuni deboli colpetti si percepiscono
dall'interno. In questo frammento cresce l'aspettativa per qualcosa
d'inquietante, ma in fondo si sa che le intenzioni sono sempre
quelle di una bimba che ha perso la madre. Proprio allora Mitsuko
batte tre colpi sulla cisterna, come tentando di uscire, e il
metallo si modella sui suoi pugni. Sintomo di una potenza e
una cattiveria sconosciuta. Il terrore suscitato da questa inaspettata
brutalità ci precipita su un altro piano. Da qui in poi
la narrazione non fornisce alcuna informazione sul seguito.
Si è in balia degli eventi, la paura diventa paura dell'ignoto.
Sul punto di frontiera
Per capire qualcosa, dunque, si deve far riferimento a due sistemi
interpretativi non compatibili. Quando Yoshimi prende in braccio
Ikuko e scappa nell'ascensore, un'infinità di mondi possibili
sono attualizzati. E, infatti, accadrà qualcosa che non
dovrebbe poter accadere: Mitsuko prenderà il posto di
Ikuko e viceversa. A una visione superficiale questo scambio
sembrerebbe giustificato da qualche oscura capacità sovrannaturale
dello spirito. Ma sarebbe una spiegazione approssimativa che
non rende giustizia alla qualità dell'opera. Un criterio
di genere di verosimiglianza narrativa non è sufficiente.
Prova ne è la sensazione d'incomprensione che si prova
alla sostituzione delle bambine. Nell'ascensore con la presunta
figlia, Yoshimi vedrà la porta dell'appartamento aprirsi.
L'ascensore non si muove, l'acqua ha mandato in cortocircuito
il pannello di controllo. È interessante come Yoshimi
non pensi neppure di correre giù per le scale. In questo
momento l'attesa dello spettatore è per un qualcosa di
terribile. Inaspettatamente vedremo apparire Ikuko, fradicia
e con gli occhi chiusi, che chiama la madre. Il massimo della
tensione viene raggiunto dall'adesione del nostro sapere con
quello di Yoshimi: questa guarda Ikuko e fa per voltarsi alla
sua sinistra. In quel momento capiamo insieme a lei che
nell'ascensore non c'è Ikuko ma Mitsuko, che la sostituzione
è avvenuta e che, questa volta, sarà impossibile
scappare. Il nostro sguardo in questa mirabile soggettiva si
adegua a quello diegetico con la conseguente adesione dei saperi
oltre che della visione. Impossibile per Yoshimi ma anche per
lo spettatore che guarda. Mitsuko rivelerà il suo vero
volto, quello di un corpo semi-putrefatto, e abbraccerà
Yoshimi. Di nuovo, siamo costretti a usare un altro riferimento
per comprendere ciò che avviene. Yoshimi dirà:
"sono io la tua nuova madre". Ma Yoshimi diventa la
madre di uno spirito? Lo spirito è morto, Ikuko è
viva, Yoshimi dove vivrà? Nella vita o nella morte? E
questo abbraccio è l'abbandono di Ikuko o il sacrificio
per dare pace a Mitsuko? Siamo sul punto di frontiera dove niente
è comprensibile e tutti i piani si fondono l'uno sull'altro.
La vita e la morte, Mitsuko, Ikuko e Yoshimi.
(In)Conclusione
Da una situazione sfaldata in tutte le direzioni possibili deriva
un nuovo taglio locale o punto di vista interpretativo. La logica
caotica si stabilizza fondando nuove regole e nuovi criteri
per comprenderla. Ogni spazio liscio genera una nuova striatura.
Tornata in quella casa, dieci anni dopo, quando i ricordi di
ciò che era avvenuto sono ormai sbiaditi nella memoria,
Ikuko ritrova il suo vecchio appartamento, perfettamente conservato
pur trovandosi in un edificio ormai diroccato. Ikuko entra in
contatto col suo mondo possibile nel caso in cui non fosse stata
abbandonata. Parla con la madre e sente alle sue spalle la presenza
disturbante di Mitsuko, o di se stessa, diversa come sarebbe
stata vivendo là per tutto quel tempo. Il nuovo taglio
è un nuovo punto di vista sulla situazione. L'abbandono
aveva generato un incubo, ma grazie ad esso Ikuko crea una nuova
prospettiva valoriale sulla vicenda. La madre l'ha sì
abbandonata, ma l'ha fatto per proteggerla. E sono queste
le parole, che sullo schermo nero che darà spazio ai
titoli di coda, chiudono il film. D'altra parte, se Hideo Nakata
sfalda le gerarchie che il genere horror stabilisce tra la realtà
e la finzione orrorifica, è proprio grazie ai suoi film
che si è prodotto un nuovo genere. Perché pellicole
come L'Esorcista o Rosemary's Baby, quando uscirono,
fecero tremare gli spettatori, mentre adesso non riescono altrettanto
bene in quell'opera terrorizzante? Perchè, allo stesso
modo, il meccanismo horror creava diversi sguardi incompatibili
su una vicenda, ma la sua standardizzazione nel tempo ha generato
uno sguardo unico che permette di comprendere ogni cosa. Lo
j-horror sta dunque concependo un nuovo riferimento per
l'interpretazione delle sue opere, un nuovo taglio interpretativo
capace di accrescere le conoscenze dello spettatore così
da permettergli d'interpretare i prossimi modelli dello stesso
genere. I piani tendono ad appiattirsi su una sola risultante,
così come i sistemi interpretativi tendono a crearne
una stabile. La credenza si fissa su un abito. Sarà solo
un nuovo sfaldamento delle gerarchie a cui il sistema ha dato
origine che riporterà lo spettatore su un punto di frontiera
instabile, pronto a creare un altro genere.
Note:
(1) Eco, U. "Strutture di mondi" in Lector in Fabula,
Milano, Bompiani, 1979 pp.122-173
(2) Deleuze, G. L'image-mouvement, Paris, Les Editions
de Minuit, 1983 (tr. it. L'immagine-movimento, Milano,
Ubu Libri, 2002)
(3) Aimeri & Frasca, Manuale dei generi cinematografici,
Torino, Utet, 2002
(4) Todorov, T. L'origine dei generi trad. it. in Fabbri
& Marrone, Semiotica in nuce vol.II, Roma, Meltemi,
2001, pp. 99-110