Three Kings: Mosè nel deserto del reale
                di Marco Toscano
                La corsa del soldato si arresta bruscamente 
                  quando, ad una qualche distanza da lui (impossibile definirla 
                  con precisione) la figura di un uomo comincia a distinguersi 
                  dal pietroso paesaggio circostante. Sembra richiedere aiuto, 
                  ma il deserto è ingannatore e il dubbio è sempre 
                  lo stesso, l'attimo di indecisione fatale cantato da Fabrizio 
                  De Andrè. Non la soluzione: Troy ha paura, in modo affatto 
                  spettacolare quello muore. Troy Barlow non aveva mai sparato 
                  a un uomo e il suo atto dà modo all'amico Conrad di assistere 
                  ad uno spettacolo insolito, inatteso: "dannazione, non 
                  credevo di vedere morti in questa guerra", esclama. Troy 
                  e Conrad sono militari dell'esercito americano, impegnati in 
                  Iraq in occasione dell'operazione "Desert Storm", 
                  eppure sperimentano il conflitto, le sue conseguenze, il suo 
                  momento fondante solo ora. Quando la guerra è già 
                  finita. Così essi, di colpo, si trovano catapultati nel 
                  "deserto del reale".
                
 
                Il richiamo al testo di Slavoj Zizek non 
                  può essere casuale, per più di un motivo. "È 
                  ormai un luogo comune che stia prendendo piede un nuovo tipo 
                  di guerra: una guerra ad alta tecnologia, in cui le missioni 
                  vengono compiute tramite bombardamenti di precisione senza alcun 
                  intervento diretto delle forze di terra". Quando Zizek 
                  continua col parlare di "astrazione inscritta direttamente 
                  nella situazione reale" e di guerra "immateriale", 
                  spogliata della propria sostanza (come beviamo birra senz'alcool 
                  e caffè senza caffeina), è esattamente da contesti 
                  come quello descritto nel film che egli parte per la propria 
                  analisi. Un percorso insidioso, tortuoso e accidentato come 
                  quello compiuto su una jeep per attraversare il deserto. Ma 
                  necessario, se si vuole arrivare alla fine della sterminata 
                  distesa di nulla, se si vuole evitare di farsi seppellire vivi 
                  dalla sabbia spessa dell'ignoranza. Un cammino da affrontare 
                  con gli occhi bene aperti, anche se le violente tempeste di 
                  sabbia consiglierebbero di abbassarli, nasconderli, voltando 
                  lo sguardo. Ciò che l'autore prospetta alla fine del 
                  deserto delle nostre esistenze quotidiane (il nulla auspicato 
                  da chiunque abbia interesse a soffiare su quella sabbia, creando 
                  mulinelli di polvere perché si depositi sulle coscienze, 
                  annientandole) non è una terra promessa, una distesa 
                  verdeggiante e fertile di nuovi inizi come la California di 
                  Furore, ma un altro deserto. Non certo più ospitale 
                  di quello appena superato. Tutt'altro. Ma di sicuro più 
                  "visibile": non perché inondato di sole (giacché 
                  la troppa luce finisce per riflettere, accecando), bensì 
                  di una pioggia incessante che, bagnando la sabbia, le impedisca 
                  di levarsi a negare lo sguardo ora possibile, di occhi eroici 
                  e asciutti, sulle rovine del mondo. 
                È proprio un'esperienza del genere 
                  quella a cui sono destinati i soldati protagonisti di Three 
                  Kings: l'irruzione del Reale nella "realtà" 
                  della loro guerra virtuale, e lo sforzo per imparare a convivere 
                  con morti veri, sofferenze autentiche difficili da accettare. 
                  Un processo di maturazione, questo, non privo di contraddizioni: 
                  "Il Reale che ritorna ha la forma di un'(altra) apparenza 
                  proprio perché è Reale, cioè per via del 
                  suo carattere traumatico/eccessivo, siamo incapaci di integrarlo 
                  nella nostra realtà". Si tratta del momento lacaniano 
                  di "attraversare la fantasia", fase conclusiva in 
                  un processo psicanalitico che segna (all'opposto di costituirne 
                  il superamento in un'accettazione serena della realtà) 
                  il trionfo dell'immaginario, l'estremo rifugiarsi in esso. Ecco 
                  il meccanismo per cui Conrad, nel ricordare l'uccisione del 
                  "beduino" da parte di Troy, procederà ad una 
                  "spettacolarizzazione" dell'episodio (la testa dell'uomo 
                  che salta), proprio per ricondurre il ritorno agghiacciante 
                  del Reale nella dimensione dell'immaginazione, dell'impossibile. 
                  Solo così, al primo impatto, può assorbirne la 
                  tragicità senza porsi domande. 
				  
                
 
                La medesima operazione Conrad la esegue 
                  di fronte all'esplosione che dilania una mucca: "avete 
                  visto la testa com'è saltata? Come in un cartoon". 
                  Egli assurge al tipico esempio di persona di scarsa cultura 
                  (viene più volte ribadito che non ha portato a termine 
                  gli studi) sottoposta a ipertrofia di immagini raccapriccianti, 
                  desensibilizzata da un'ossessiva fruizione mediatica e, quindi, 
                  mediata (film, tv, cartoon, videogames, ecc.). Se Conrad inizialmente 
                  può dunque barricarsi dietro un'indifferenza non tanto 
                  cinica, quanto incosciente (nel suo caso, secondo i meccanismi 
                  di rimozione descritti da Susan Sontag, probabilmente reazione 
                  alla paura di subire in prima persona ciò cui si è 
                  assistito), dopo un po' è possibile notare un disagio 
                  crescente nel suo rapportarsi alle specifiche situazioni. La 
                  Sontag, ritrattando quanto sostenuto in Sulla fotografia, 
                  afferma che l'effetto di una rappresentazione di atrocità 
                  non dipende dalla quantità di immagini di tal genere 
                  proposte dai media, ma in gran parte dallo stesso contesto mediatico 
                  in cui essa si trova inscritta. Se è vero che l'attenzione 
                  riservata al mezzo televisivo è per definizione "distratta" 
                  e fa del "flusso", dell'instabilità e della 
                  conseguente necessità a sostituire la sua caratteristica 
                  essenziale, non c'è da meravigliarsi nel sorprendersi 
                  annoiati di fronte all'ennesima riproposizione di un'immagine, 
                  per quanto disturbante possa essere "in sé". 
                  In occasione di un contatto ravvicinato, non più inscatolato 
                  nello schermo, quindi non più a distanza di sicurezza 
                  da noi, non possiamo dire quale sarà il significato della 
                  nostra esperienza (sempre che ce ne sia uno), la nostra reazione. 
                  Anche Conrad rimane perplesso, avvertendo la differenza. Così 
                  l'effet de l'irréel ipotizzato da Zizek (il meccanismo 
                  di trasposizione fantasmatica che permette di accogliere un 
                  Reale altrimenti insopportabile) si ritrova trafitto dalla percezione 
                  del dolore, proprio come Brecht squarciava l'effet du réel 
                  del testo, palesandone all'opposto la finzionalità.
                È però, ancora una volta, 
                  il quesito di Zizek a riproporsi: è corretto parlare 
                  di Reale che "buca" la realtà virtualizzata 
                  di una guerra non combattuta, o forse sarebbe più opportuno 
                  considerare il manifestarsi del dolore e della morte come l'apoteosi 
                  dell'immaginario? "Non è successo che la realtà 
                  sia entrata nella nostra immagine, ma che l'immagine sia entrata 
                  e abbia sconvolto la nostra realtà", afferma lo 
                  scrittore sloveno relativamente all'11/09. Non è forse 
                  quello che accade ai soldati del film? Subito dopo l'uccisione 
                  dell'uomo nel deserto, assistiamo alla presentazione dell'esercito 
                  americano: tra feste, alcool, balli forsennati e una condotta 
                  svagata, che di sicuro ha poco a che vedere con gli stereotipi 
                  dell'epica, il divertimento è totale, in un clima estremamente 
                  goliardico e sovraeccitato che potrebbe essere quello di un 
                  qualsiasi college. La guerra sembra lontanissima. La si combatte 
                  nei gavettoni, nell'arruffarsi giocoso con i commilitoni, e 
                  per tutta la prima parte del film essa continuerà ad 
                  essere solo evocata: in un rapporto sessuale (letteralmente) 
                  "distruttivo", nella competizione giornalistica, nelle 
                  discussioni sportive. Gli attrezzi per la guerra servono per 
                  foto-ricordo (elmetti, proiettili, armi), per il travestimento 
                  (occhiali a infrarossi), per il gioco (fucili reinventati per 
                  il tiro al piattello), ma mai per il loro vero scopo. Proprio 
                  l'ossessiva esibizione di quegli adorabili 
gadget, l'aggressività 
                  e la conflittualità evocate continuamente nelle pose 
                  e nelle lotte scherzose, le richieste di "poter sparare" 
                  (unite alle lamentele per non essere mai entrati davvero in 
                  azione), rimandano all'immaginario di quei soldati. Il quale, 
                  nutrito in patria dai disastri rappresentati al cinema o in 
                  tv ed eccitato dal ritrovarsi in un contesto di fruizione del 
                  tutto simile a quelli - privato però degli abituali contenuti 
                  (truculenti) - non nasconde la delusione per una "guerra 
                  senza la guerra", e reclama l'orrore. Così Conrad, 
                  annoiato per la mancanza delle atrocità televisive che 
                  movimentano la sua quotidiana apatia, smania per inquadrare 
                  nel proprio mirino quei nemici (ma quali nemici sta combattendo?) 
                  che nel cortile di casa sostituiva con bottiglie e barattoli. 
                  Il suo immaginario pre-vede le sequenze di distruzione viste 
                  al cinema ed egli non perde occasione per proporre l'uso delle 
                  armi ("bazooka, signore?") anche, soprattutto, quando 
                  la situazione non lo richiederebbe. È significativo forse 
                  che proprio lui, sempre pronto a ricorrere all'attrezzatura 
                  a sproposito, non riesca a trovare la maschera anti-gas in un 
                  momento di assoluta emergenza. È sicuramente indicativo 
                  che sia lui - il più pericolosamente ingenuo nel suo 
                  approccio svagato e "guerrafondaio" - l'unico dei 
                  quattro protagonisti a morire. Il Reale non ha tardato a dare 
                  corpo alle sue fantasie.
                  
 
                  
                  Conrad, quando non si rivolge a loro in modo dispregiativo (ad 
                  esempio chiamandoli "vermi del deserto", espressione 
                  per la quale, lo ammoniscono i superiori in una lezione di terminologia 
                  militare che ricorda quella nella redazione di 
Full Metal 
                  Jacket, "beduino" e "cammelliere" sono 
                  perfettamente alternativi) chiama tutti gli arabi, indistintamente, 
                  "Abdul". Tale nome sembra svolgere una funzione differente 
                  rispetto a quella assolta dal "Charlie" con cui si 
                  indicavano i vietcong in 
Apocalypse Now. Se infatti lì 
                  si trattava di investire un nemico "immateriale" di 
                  un tratto identificativo, qui la classificazione sotto un nome-ombrello 
                  di qualcuno con cui si è direttamente a contatto diviene 
                  il modo probabilmente inconscio con cui privarlo della sua identità 
                  (e, quindi, dignità) e ridurlo al rango generico di "nemico", 
                  negandone la complessità di essere umano. Tale comportamento 
                  sembrerebbe contraddire quel fondamentale meccanismo che Zizek 
                  riprende da Schmitt e Lacan: la necessità di "fornire/costruire 
                  un'immagine riconoscibile del nemico", schematizzando "la 
                  figura logica del Nemico, dotandola di tratti sensibili concreti 
                  che ne fanno l'obiettivo appropriato di odio e di lotta". 
                  Il ruolo del nome "Charlie" consisteva evidentemente 
                  in questo: i soldati americani si trovavano a fronteggiare un 
                  nemico sfuggente e invisibile (come evoca la celebre sequenza 
                  del cecchino di 
Full Metal Jacket), quasi fantasmatico 
                  (il capolavoro di Coppola è esplicito nel sostenere come 
                  gli americani in Vietnam si trovassero a combattere prima di 
                  tutto loro stessi, le proprie ossessioni, il lato oscuro della 
                  propria coscienza). Conrad ha invece sotto gli occhi una presenza 
                  concreta, ciò di cui ha bisogno per focalizzare il proprio 
                  odio. E lo rifiuta, ricorrendo all'anonimizzante "Abdul", 
                  per sfuggire a quel senso di colpa che non poteva aggredire 
                  chi combatteva nient'altro che spostamenti di foglie e fruscii 
                  intuiti nella giungla vietnamita. Ma in fondo perché 
                  Conrad ha bisogno di ricorrere a questo stratagemma? La spiegazione 
                  risiede nello stesso assioma zizekiano, il quale recita la necessità 
                  per un soldato di un'immagine di nemico riconoscibile per poterlo 
                  contrastare efficientemente. Conrad non sta combattendo in realtà 
                  nessuno in particolare, non ha un obiettivo. Ecco perché 
                  può, anzi gli è indispensabile, negare l'identità 
                  dell'altro, annacquarla in un generico "Abdul".
 
                Esiste però una seconda interpretazione 
                  circa l'indiscriminata attribuzione di tale nome-stereotipo, 
                  che condurrebbe ad una radicale messa in discussione di quanto 
                  ipotizzato fino a questo punto. Forse l'"Abdul" di 
                  Conrad non contraddice affatto Zizek, né si differenzia 
                  poi tanto da "Charlie". Quando Lacan parla di capitonnage 
                  ("suturazione") si riferisce all'"operazione 
                  per mezzo di cui identifichiamo/costruiamo un unico soggetto 
                  che di fatto tira le fila oltre la moltitudine degli oppositori 
                  concreti". Un unico soggetto dunque, quello che Conrad, 
                  trovandosi ad affrontare tanti individui singoli, può 
                  raggiungere solo raggruppandoli sotto lo stesso nome, sotto 
                  un'identità monodimensionale che ne annulli le specificità, 
                  le differenze. I singoli arabi, peraltro, rimarrebbero comunque 
                  non conoscibili per lui: è questa la percezione iniziale 
                  di Conrad come di tutti i suoi compagni, quella destinata ad 
                  essere mutata irreversibilmente dal percorso di maturazione 
                  e autocoscienza che essi stanno per intraprendere.
                Conrad è personaggio-chiave del 
                  film, probabilmente quello più complesso. Prova ne è 
                  il suo ricorrere continuo come esemplificazione di una dinamica 
                  o di un atteggiamento sintomatico tra quelli proposti da teorici 
                  quali Zizek e Sontag. Essi d'altronde avrebbero modo di rintracciare 
                  nel film di O'Russell, quindi all'interno di quello che si connota 
                  pur sempre come un prodotto d'intrattenimento, diverse altre 
                  occasioni di verifica delle loro tesi. Una di quelle più 
                  chiaramente enunciate in Three Kings è la stessa 
                  inscritta in Apocalypse Now: nell'ordine impartito a 
                  Willard di dare la caccia a Kurtz già si manifesta la 
                  fondamentale endemicità che caratterizza le guerre combattute 
                  dagli Stati Uniti, spesso posti di fronte al proprio doppio 
                  mostruoso, a quell'escrescenza cancerogena prodotta dagli eccessi 
                  del proprio sistema. Il colonnello Kurtz, come sottolinea giustamente 
                  Zizek, non è solo un soldato dell'esercito americano: 
                  egli era una macchina da guerra, un esempio perfetto di disciplina 
                  ed efficienza bellica. L'ideologia militare portata alle estreme 
                  conseguenze, ovvero alla patologia. Non è un caso che 
                  Zizek si soffermi nella sua opera ad analizzare "politicamente" 
                  Apocalypse Now: egli dedica infatti ampio spazio alla 
                  trattazione dell'ipotesi secondo cui, lungi dal costituire l'opposizione 
                  sanguinaria al capitalismo americano, il fondamentalismo arabo 
                  sia esattamente il contrario, vale a dire l'eccesso di sistema, 
                  il parossismo capitalistico.
                L'idea che gli Stati Uniti abbiano effettivamente 
                  costruito il proprio nemico non è nuova. O'Russell (il 
                  cui film risale al 1999) la esponeva già con molta franchezza, 
                  disseminandone di prove l'intera narrazione. I soldati iracheni 
                  ascoltano musica americana, discutono di Michael Jackson e tra 
                  il bottino delle espropriazioni vi è un vero campionario 
                  dei beni tipici del "consumismo" occidentale: televisori, 
                  telefoni, jeans, computer, frullatori, stereo, orologi Rolex, 
                  borse Louis Vuitton, con cui tentano tra l'altro di corrompere 
                  i soldati americani (a testimonianza del fatto che siamo di 
                  fronte a "oggetti del desiderio" comuni). Essi si 
                  nutrono di America. Quando Conrad chiede ai due profughi se 
                  per loro l'America sia Satana essi rispondono di no, e che, 
                  essendo barbieri, vorrebbero un salone di bellezza. A conferma 
                  del fatto che l'epoca delle grandi opposizioni ideologiche ha 
                  esaurito la propria spinta ("a loro non importa se il pelo 
                  che tagliano è americano, sunnita o sciita") e che 
                  di certo quello che gli Stati Uniti combattono non è 
                  quello che Huntington definisce uno "scontro tra civiltà", 
                  dato che siamo ormai parte di una sola civiltà e gli 
                  scontri non possono quindi che essere inscritti all'interno 
                  di essa. Quando poi il carceriere arabo di Troy rinfaccia a 
                  quest'ultimo di essere stato addestrato in tutto e per tutto 
                  dagli americani (ha ricevuto armamenti, imparato la loro lingua 
                  e persino i loro metodi di interrogatorio-tortura) tale discorso 
                  da economico si fa più ampio, coinvolgendo la sfera politica 
                  e sociale. "Qual è la nazione malata?" chiede 
                  Troy. Domanda retorica, se alle "rivelazioni" del 
                  carceriere (tali solo per Troy, l'unico forse a ignorare che 
                  gli Usa rifornirono di armi l'Iraq nella guerra contro l'Iran) 
                  fanno da contraltare quelle di Conrad. Egli afferma di essere 
                  stato addestrato a uccidere arabi, salvo poi essere smentito 
                  da Capo subito pronto a ricordargli che gli Usa hanno anche 
                  alleati tra quei Paesi. Una constatazione che, nella propria 
                  ovvietà, è rivelatrice di ciò che Zizek 
                  non manca di rimarcare esplicitamente: con il crollo delle barricate 
                  ideologiche la dottrina Truman e tutti i suoi pretesti pseudo-umanitari 
                  non riescono più ad ammantare di eroico altruismo l'esigenza 
                  da parte degli Stati Uniti di tutelare i propri interessi economici, 
                  il proprio ruolo di potenza egemone. Il percorso etico compiuto 
                  dai soldati protagonisti consisterà proprio nell'assumere 
                  consapevolezza delle aberrazioni contenute in tale atteggiamento, 
                  scegliendo finalmente di sostenere il prossimo non solo contro 
                  la propria "necessità", ma contro il proprio 
                  interesse. Un rovesciamento di prospettive che però sembra 
                  destinato ad esaurirsi negli atti dei singoli individui e che 
                  non dà l'impressione di avere la forza di elevarsi a 
                  sistema. Da esso sembra infatti immune la politica americana, 
                  fondata sull'assioma che chi non ha nulla da offrire non ha 
                  neppure diritto a ricevere.
                Tale dinamica fondamentale è confermata 
                  da quello che risulta essere lo snodo centrale, l'elemento base 
                  del meccanismo narrativo del film: la contrattazione, lo scambio. 
                  Tutti i rapporti umani sono regolati da una bilancia invisibile 
                  che determina l'equivalenza delle "merci" messe sul 
                  piatto: i soldati americani promettono cibo e protezione ai 
                  nemici in cambio della loro resa, Adriana offre un passaggio 
                  al soldato appiedato in cambio di informazioni, i soldati iracheni 
                  concedono l'oro ai protagonisti in cambio del loro rimanere 
                  estranei alla vicenda della popolazione locale, i soldati americani 
                  contrattano per ben due volte coi ribelli (quando promettono 
                  di scortarli al confine in cambio dell'aiuto a recuperare Troy 
                  e quando acquistano le automobili), ma anche con il proprio 
                  stesso esercito (rinunciando all'oro in cambio della salvezza 
                  dei profughi). Tutto è permesso, tutto è regolamentato 
                  dall'elemento materiale e tutti sono agenti di negoziazione, 
                  segno ancora una volta della diffusione ad ogni livello della 
                  logica capitalistica. Se i soldati americani distribuiscono 
                  viveri dalla jeep è solo per portare a buon fine una 
                  nuova contrattazione, perché gli affamati permettano 
                  loro di fuggire, di allontanarsi da quella disperata richiesta: 
                  il soddisfarla in questo caso coincide col rifiutarla ancora 
                  una volta. Essi elargiscono il tanto decantato "aiuto umanitario" 
                  senza esercitare il minimo controllo sul destinatario di quei 
                  viveri (donne e bambini sono sistematicamente aggrediti e derubati). 
                  Immediatamente prima un soldato iracheno aveva centrato con 
                  un siluro un camion-cisterna ricolmo di latte destinato alla 
                  popolazione affamata: questo episodio richiama indirettamente 
                  un altro dei caratteri tipici attribuiti da Zizek ai moderni 
                  conflitti, nei quali l'aiuto umanitario non è più 
                  distinto dallo scontro bellico. Tale concetto è espresso 
                  più chiaramente all'inizio del film, quando assistiamo 
                  ad un'operazione di cattura di soldati iracheni. Come già 
                  descritto, per convincerli alla resa gli americani, tramite 
                  cartoncini illustrativi, offrono loro cibo. L'aiuto umanitario 
                  coincide con l'avere la meglio sui nemici e spesso, come in 
                  questo caso, con un ricatto che non è quello indirettamente 
                  messo in atto dal piano Marshall, ma ben più scoperto.
				  
				   
                I protagonisti, dovunque vadano, pretendono 
                  di appropriarsi indebitamente di qualsiasi cosa, perché 
                  (sbandierando carte e ordini superiori) lo fanno in nome dell'esercito 
                  degli Stati Uniti. Nel covo dei ribelli, per ottenere le automobili, 
                  Gates fa ricorso alla più smaccata propaganda made in 
                  Usa: riconduce la forza del popolo americano alla sua composizione 
                  multirazziale (riferimento che contrasta con il video sul pestaggio 
                  di L.A. visto dai soldati iracheni e col discorso del carceriere 
                  di Troy riguardo al tentativo da parte di Michael Jackson di 
                  adeguare la sua natura di nero ad una società, evidentemente 
                  non così "integrata" come la dipinge Gates, 
                  che lo spinge ad essere "bianco"); ripropone l'obiettivo 
                  "ufficiale" della dottrina Truman, intervenire al 
                  fianco delle minoranze per tutelare la libertà nel mondo; 
                  cita addirittura l'archetipico "I want you", con un 
                  George Bush in versione Zio Sam. Ma quella degli Usa paladini 
                  della libertà è una favola sempre più ardua 
                  da raccontare, e stavolta - dopo le dimostrazioni del successo 
                  della propaganda rappresentate dall'entusiasmo della popolazione 
                  locale e anche dalla sua delusione, segno comunque di una precedente 
                  illusione - i soldati americani si trovano a sbattere contro 
                  il fallimento della retorica nazionale. Una manipolazione delle 
                  coscienze non rivolta esclusivamente verso l'esterno, ma anche 
                  verso l'interno: l'esigenza di convincere le popolazioni straniere 
                  della bontà del proprio modello di democrazia si accompagna 
                  a quella di persuadere gli americani stessi e, in primo luogo, 
                  quelli tra loro cui spetta il compito di esportarlo materialmente, 
                  creando le condizioni per il suo attecchimento. I militari sono 
                  da sempre i soggetti maggiormente sottoposti alla propaganda 
                  statale, proprio per l'assoluta necessità che essi agiscano 
                  convinti di essere nel giusto, di compiere una missione quasi 
                  "santa", nella più totale assenza di domande, 
                  di dubbi etici. Ecco perché quando la giornalista aggregata 
                  all'esercito fornisce un assist ad un gruppo di soldati ("Dicono 
                  che avete esorcizzato i fantasmi del Vietnam con un chiaro imperativo 
                  morale") la loro risposta è immediata: "Abbiamo 
                  liberato il Kuwait", rispondono in coro. Nella scena immediatamente 
                  successiva, la festa della compagnia raggiunge il suo apice 
                  intonando a gran voce una canzone celebrativa e patriottica 
                  come "God bless the U.S.A.", mentre le contraddizioni 
                  (dopo pochi minuti di film) risaltano già con evidenza: 
                  Troy canta a squarciagola con in testa un copricapo arabo, sovrastato 
                  da gigantesche bandiere americane. Eppure anche all'interno 
                  dell'esercito i "discorsi alla nazione" sembrano non 
                  sortire più gli effetti sperati. Gates dichiara al proprio 
                  superiore: "Non so neanche che ci facevamo qui". L'altro 
                  replica: "E' stato un grande successo. Che volevi fare: 
                  occupare l'Iraq e rifare il Vietnam daccapo?", profetizzando 
                  ciò che si verificherà in parte con la seconda 
                  guerra del Golfo. Più tardi "Tonto", inserendosi 
                  nello sfogo della giornalista che si lamenta di essere stata 
                  manipolata dall'esercito, esclama: "anch'io!"
                Ma se la propaganda tradizionale (quella 
                  più squisitamente politica) comincia a mostrare le proprie 
                  crepe nell'immaginario mondiale, per raggiungere il proprio 
                  obiettivo, non tarda ad appoggiarsi alle altre forme attraverso 
                  cui l'America pubblicizza sé stessa. "Li stordiamo 
                  con il nostro fascino hollywoodiano" dichiara Archie Gates 
                  mentre la jeep con a bordo i quattro soldati americani fa irruzione 
                  nel villaggio iracheno. L'arsenale degli Usa, a partire dal 
                  secondo dopoguerra, ha inglobato anche quei modelli estetici 
                  e culturali imposti a livello globale. È ancora una volta 
                  Zizek a definire Hollywood come vero e proprio "apparato 
                  ideologico dello stato", strumento imprescindibile per 
                  veicolare il corretto messaggio e un'immagine degli Stati Uniti 
                  che è essa stessa promessa di benessere e libertà. 
                  Le popolazioni in difficoltà ne risultano inevitabilmente 
                  ammaliate e smaniano per partecipare di quella realtà 
                  meravigliosa. Ma la liberazione consiste per loro in una rinnovata 
                  prigionia, la promessa un'annessione incruenta, l'occasione 
                  di inglobare altri individui all'interno dello stile di vita 
                  americano. Gli iracheni così, da sudditi di Saddam, diventano 
                  sudditi della dittatura economica e culturale americana. Il 
                  nemico stesso si preferisce corromperlo (al benessere del capitalismo) 
                  piuttosto che distruggerlo. La conferma dell'avvenuta neocolonizzazione 
                  arriva puntuale: dopo i soldati iracheni sommersi da beni di 
                  consumo e cultura pop occidentale (espressione dell'ambiguità 
                  ideologica di un potere identico al proprio nemico, da esso 
                  prodotto), anche la popolazione locale si è ormai convertita 
                  al gusto e ai costumi esportati/imposti dagli Usa. Ascoltiamo 
                  musica araba modellata su quella occidentale, una donna irachena 
                  indossa l'abito tipico, contaminandolo però con un paio 
                  di occhiali da sole e una borsa Louis Vuitton. "Benvenuto 
                  America" si grida da ogni parte. Il fenomeno coinvolge 
                  anche la dimensione rituale, e il ballo degli iracheni diventa 
                  grottesca imitazione dei movimenti caratteristici dei rapper. 
                  Conrad, che nel suo agire/reagire istintivo ed ingenuo assurge 
                  spesso a vero e proprio veicolo di senso, imita a sua volta 
                  il canto tipico delle donne irachene: tutto si mescola, si acquisisce 
                  come mero elemento di folklore, perde di identità e significato. 
                  O se ne attribuisce di nuovi, in una insperata palingenesi che 
                  per compiersi deve rinunciare alla comprensione (culturale) 
                  per trovare il suo unico fondamento in una condivisione (materiale 
                  e spirituale).
				   
                
 
                Nell'abbracciare in morte una religione 
                  di fatto sconosciuta, senza peraltro rifiutare quella precedentemente 
                  "sfruttata" (Conrad muore ancora attorniato dal cristiano 
                  "anello di fuoco" di cui si è appropriato), 
                  la salma del soldato americano diventa simbolo di un nuovo umanesimo 
                  fondato sul superamento delle differenze religiose, cioè 
                  delle barriere ideologiche: la distribuzione dell'oro fra i 
                  ribelli ricorda il momento dell'eucaristia, e Capo indossa una 
                  kefia, di certo indumento non convenzionale per un militare 
                  dell'esercito americano (e la sua scelta stavolta non può 
                  essere casuale o parodica come quella di Troy durante la festa 
                  al campo). Ulteriore conferma trova così l'assunto di 
                  Slavoj Zizek relativo alla fine dello "scontro fra civiltà": 
                  se per Marx l'elemento economico costituisce la "struttura" 
                  su cui si innestano le varie "sovrastrutture" (rapporti 
                  sociali, assetti politici, schemi religiosi e culturali), un 
                  unico contesto economico comporta necessariamente una commistione 
                  ad ogni livello, una sola confusa civiltà. In questa 
                  Babele che è tornata a ricordare il nome dell'uomo, riunificata 
                  e nondimeno caotica, non sorprende di riconoscere nel cammino 
                  dei ribelli verso l'Iran quello degli ebrei verso la Palestina. 
                  I tre protagonisti (a questo punto difficile definirli ancora 
                  soldati americani) assumono le sembianze di un Mosè inatteso, 
                  nel guidare una nuova folla di homines sacri (vale a 
                  dire uomini privati dei fondamentali diritti politici quali, 
                  naturalmente, erano anche gli ebrei ridotti in schiavitù) 
                  attraverso il deserto, inseguiti dal proprio esercito proprio 
                  come Mosè lo era da quello egiziano. Così forse 
                  non è un caso che proprio Mosè venga citato erroneamente 
                  da Conrad all'inizio del film. La similitudine tra i protagonisti 
                  di due fughe verso una Terra Promessa, in effetti, si rivela 
                  più profonda di quel che potrebbe apparire ad una prima 
                  analisi. I ribelli iracheni pregano e parlano di un tempio per 
                  andare in paradiso: Zizek commenterebbe che proprio come gli 
                  ebrei essi tentano di elevarsi al rango di vittime sacrificali, 
                  coltivando la mera illusione di essere altro che homines 
                  sacri il cui sacrificio, per definizione, è del tutto 
                  inutile. 
                Per quanto riguarda i "Mosè" 
                  che si sono scelti, anch'essi in fondo rinunciano alla propria 
                  posizione e ai propri privilegi: la loro scelta etica si compie 
                  in due atti. Dapprima nel momento in cui, messi di fronte alla 
                  brutalità di un assassinio, diventano consapevoli (tutti 
                  tranne Troy, per ora) che il "principio di necessità" 
                  è cambiato: nasce da qui il bisogno di infrangere l'armistizio 
                  con le truppe irachene e l'indifferenza verso il destino della 
                  popolazione. Il cambiamento non è però ancora 
                  completo, dato che essi non intendono rinunciare all'oro, decisione 
                  estrema a cui si risolveranno solo quando sarà rimasta 
                  davvero l'ultima carta in loro possesso per salvare vite umane. 
                  Proprio Gates, uomo disilluso e cinico al quale spetta di enunciare 
                  il famigerato "principio di necessità", è 
                  il primo ad intraprendere istintivamente tale cammino di crescita 
                  morale. E sarà sempre per sua voce che esso troverà 
                  il suo pieno compimento, con l'offerta ai propri superiori dello 
                  scambio oro-prigionieri. Messo improvvisamente nelle condizioni 
                  di guardare in faccia il dolore degli altri, egli si fa portatore 
                  di quella risposta etica che la Sontag auspica: si interroga, 
                  prende coscienza, agisce (reagisce). Se la scrittrice americana 
                  individua tra le possibili cause del voltare lo sguardo o del 
                  cambiare canale, la paura, l'impotenza e la compassione (di 
                  fatto tre meccanismi di rimozione diversi attivati con il comune 
                  scopo di salvaguardare l'armonia quotidiana dall'aggressione 
                  di immagini del dolore altrui), risulta evidente come non ci 
                  sia paura in lui, né certo impotenza, o sterile commiserazione. 
                  Gates dunque non può restare indifferente.
                Ed è forse significativo che di 
                  fronte alla fine di una famiglia (con l'uccisione di una donna 
                  identificata come madre e moglie) la reazione arrivi da chi, 
                  come Gates, è divorziato e non da colui che dei quattro 
                  soldati dovrebbe avvertire ancora più degli altri l'insopportabilità 
                  di ciò che sta accadendo. Troy è padre e marito, 
                  è in guerra per guadagnare i soldi necessari alla sua 
                  famiglia e proprio nella sequenza d'apertura abbiamo notato 
                  appuntata sull'elmetto che ha in testa la foto di una neonata 
                  (probabilmente la figlioletta Crystal): tale elemento, peraltro, 
                  non può non rappresentare la citazione di un altro elmetto, 
                  quello su cui Joker di Full Metal Jacket aveva accostato 
                  un simbolo pacifista alla scritta "born to kill" (cortocircuito 
                  confermato dall'uccisione da parte di Troy di un nemico proprio 
                  in quella sequenza iniziale). Dunque Troy dovrebbe "sentire" 
                  più intensamente la situazione, proprio in virtù 
                  di una maggiore possibilità di immedesimazione. Eppure 
                  non solo ciò non avviene, ma al contrario egli è 
                  l'unico a non aver ancora modificato la propria "necessità" 
                  (tanto che rinuncerebbe volentieri ad intervenire per non mettere 
                  a repentaglio il proprio bottino).
                La dimensione familiare di Troy viene ancora 
                  evocata in una scena centrale del film, quella che propone l'interrogatorio-dialogo 
                  tra il soldato americano ed il suo carceriere iracheno. Presto 
                  il sogno di un'intima identità e di una conseguente "collaborazione 
                  nella differenza" lascia il posto alla constatazione di 
                  disparità tremende, insuperabili, irreversibili: "io 
                  non sono più padre, non ricordi?" ribatte l'arabo. 
                  Elementi di estremo interesse nell'ambito di tale scena sono 
                  quelli legati al tema della tortura, che rimandano tanto alla 
                  riflessione di Zizek quanto a quella della Sontag. I carcerieri 
                  che infliggono dolore al prigioniero americano distolgono lo 
                  sguardo. Per paura, direbbero entrambi gli autori, perché 
                  è quello che potrebbe capitare anche a loro nel caso 
                  commettessero uno sbaglio, in un contesto dove la tortura è 
                  elevata a sistema. Più avanti risulterà infatti 
                  evidente come il regime di terrore imposto da Saddam non risparmi 
                  certo i suoi servitori, come dimostra la paura che s'impadronisce 
                  dei soldati non appena credono di intravedere l'arrivo del crudele 
                  dittatore. Tuttavia un punto del ragionamento dello scrittore 
                  sloveno sembra venire contraddetto: l'impossibilità di 
                  guardare le conseguenze della propria barbarie potrebbe forse 
                  rappresentare una specie di rimorso, di un qualche senso di 
                  colpa residuo che invece, secondo Zizek, potrebbe sopravvivere 
                  solo nel caso in cui la tortura restasse un'eccezione, una pratica 
                  straordinaria. Questa autonegazione dello sguardo contrasta, 
                  allo stesso modo, con l'idea odierna dei terroristi arabi, uomini 
                  giunti ad avere un elevato grado di familiarità con l'orrore 
                  e tanto capaci di guardarlo da filmarlo ossessivamente (come 
                  documenta il proliferare di immagini quasi da snuff-movie che 
                  ritraggono ostaggi ed esecuzioni). Per lo stesso motivo questo 
                  schermarsi gli occhi distingue in maniera profonda gli iracheni 
                  di Three Kings dai vietcong di Apocalypse Now: 
                  per Kurtz questi ultimi potevano avere la meglio sulla superiorità 
                  militare americana proprio perché in grado di guardare 
                  dritto in faccia l'orrore umano.
                "Three kings". I soldati al centro 
                  del film sono in effetti quattro, anche se per (quasi) tutta 
                  la durata della narrazione si ritrovano assieme solo in tre: 
                  prima è Troy ad essere catturato, poi Conrad a morire. 
                  Così il titolo della pellicola, la quale pure si riallaccia 
                  a quella tradizione letteraria tipicamente occidentale del "quarto 
                  nascosto" che prevede una sorta di "3+1" (basti 
                  pensare ai "tre" moschettieri cui si aggiunge D'Artagnan), 
                  può riferire di "tre re" che altri non sono, 
                  naturalmente, che i Re Magi. A differenza di questi i quattro 
                  soldati americani vengono dall'Occidente (e non dall'Oriente) 
                  e si dedicano a rubare piuttosto che portare con sé beni 
                  preziosi da donare. Alla fine del loro percorso, tuttavia, è 
                  chiara l'analogia intessuta dal titolo: essi, barattando il 
                  proprio oro, hanno fatto dono della libertà a uomini 
                  che, finalmente sottratti al giogo della dittatura, possono 
                  rinascere altrove. Per apprezzare appieno il carattere del tutto 
                  anti-retorico di tale conclusione, esso va confrontato con il 
                  senso che un epilogo diegeticamente simile assume in L'ultima 
                  alba (A. Fuqua, 2003): anche lì i militari americani 
                  (impegnati in Africa) scortano un gruppo di profughi fino al 
                  confine e alla salvezza. Ma in quello che è un vero e 
                  proprio film di propaganda è l'esercito degli Stati Uniti 
                  ad elargire la libertà ai popoli oppressi, configurandosi 
                  così davvero come "fine della storia", mirabile 
                  tappa conclusiva del suo sviluppo (secondo la concezione pseudo-hegeliana 
                  di Fukuyama). In Three Kings, invece, l'esercito americano 
                  fa tutto il contrario, opponendosi all'affrancamento degli iracheni 
                  (in virtù di un accordo concluso con colui che li affama 
                  e li schiaccia) e rendendolo alla fine possibile solo in quanto 
                  strumento per recuperare l'oro trafugato. Sono semplici uomini, 
                  e non l'America, a portare la salvezza: essi ormai non sono 
                  più soldati americani, né intimamente (hanno deciso 
                  di infrangere le direttive, la loro presa di coscienza li ha 
                  spinti ad allontanarsi dalle posizioni "ufficiali"), 
                  né formalmente (dato che sono considerati disertori, 
                  e li aspetta la corte marziale) e neppure esteriormente: Capo 
                  ha in testa una kefia, Troy non è più neanche 
                  vestito da soldato (indossa infatti una giacca), Conrad è 
                  completamente avvolto da bende nel suo cammino verso un paradiso 
                  islamico.
                  
                  Le didascalie che rendono noto il destino dei protagonisti superstiti 
                  al ritorno in patria ci informano, tra l'altro, che Archie Gates, 
                  una volta congedato, ha trovato lavoro a Hollywood come consulente 
                  militare. Il cinema impara dunque dalla realtà, sono 
                  ancora gli studios a richiedere il supporto del Pentagono. Siamo 
                  in anticipo rispetto all'attacco al WTC che, tra le altre conseguenze, 
                  ha portato alla costituzione (su mandato dello stesso Pentagono) 
                  di "un gruppo di sceneggiatori e registi di Hollywood specialisti 
                  di film catastrofici, con l'intento di immaginare possibili 
                  scenari di attacchi terroristici e i modi con cui controbatterli". 
                  Siamo ontologicamente lontani dallo "spettacolo" allestito 
                  quell'11 Settembre 2001, quando sarà definitivamente 
                  chiaro (come nota Zizek) come sia ormai la realtà ad 
                  ispirarsi al cinema, dando matericità alle sue fantasie 
                  di ombra e luce.
                Bibliografia essenziale:
                  Slavoj Zizek, Benvenuti nel deserto del reale, Meltemi, 
                  2002
                  Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori, 
                  Milano, 2003