Due Metropolis a confronto
                di Claudio Cinus
                
 
                Metropolis è uno dei titoli 
                  più evocativi della storia del cinema. Basta il nome 
                  per riportarne alla mente le imponenti scenografie, o viceversa 
                  basta una singola immagine del rinomato androide per ricollegarsi 
                  al titolo. Impresa ardua e sconsigliabile, fare un remake di 
                  un simile intoccabile. Il film d'animazione giapponese uscito 
                  nel 2001, che ha lo stesso titolo, non è un rifacimento 
                  in senso stretto. È la versione cinematografica di un 
                  manga del 1949 di Osamu Tezuka, che lo realizzò senza 
                  aver mai visto per intero il film di Lang, ma che ne rimase 
                  colpito solo attraverso pochi fotogrammi. È però 
                  inevitabile che, a cinquant'anni di distanza, il regista Rintaro 
                  e lo sceneggiatore Katsuhiro Otomo abbiano subito una maggiore 
                  influenza dal film tedesco, ormai entrato completamente nell'immaginario 
                  collettivo, e abbiano dovuto tener conto di tanti altri aspetti 
                  già sviscerati sia dal cinema di fantascienza, sia da 
                  altre opere d'animazione nipponiche. Capire da quale dei tre 
                  padri derivi ogni singolo aspetto del Metropolis giapponese 
                  è un argomento scivoloso, decisamente più adatto 
                  agli appassionati di fumetti e animazione del sol levante. Considerando 
                  invece solo il prodotto finito, può essere interessante 
                  un confronto diretto con l'originale per verificare cosa è 
                  rimasto, cosa è cambiato e soprattutto quanto hanno pesato 
                  i tanti anni di distanza tra i due film.
                Un primo aspetto da considerare è 
                  la differenza fisica e antropologica tra le due città 
                  Metropolis, luoghi immaginari che rispecchiano nuove realtà 
                  tutt'altro che impossibili. In entrambi i film, è mantenuto 
                  il distacco molto forte tra il mondo superiore, per la gente 
                  ricca e potente, e quello inferiore, destinato alla plebe e 
                  ai lavoratori, secondo una suddivisione molto cara al genere 
                  fantascientifico. Nel film di Lang le differenze sono forti 
                  ma non incolmabili: i figli degli operai riescono ad accedere, 
                  pur indesiderati e visti con diffidenza, anche ai giardini destinati 
                  ai rampolli dell'élite dirigenziale, e anche il finale 
                  dimostra che un contatto è possibile. La Torre di Babele, 
                  dove vive e lavora il dittatore Fredersen, è certamente 
                  imponente, ma non abbastanza alta da evitare di risultare anche 
                  un po' tozza, inesorabilmente ancorata alla città dalla 
                  quale ambirebbe staccarsi. Questa sorta di grattacielo, concepito 
                  negli anni '20 pensando al futuro, è però anche 
                  frutto delle suggestioni provate da Lang innanzi alle meraviglie 
                  di New York. L'edificio, infatti, sembra soffrire proprio di 
                  quella dicotomia tra l'ago e il globo di cui parlava Rem Koolhaas 
                  nel suo libro Delirious New York a proposito di Manhattan: 
                  "ago" in quanto l'edificio vuole essere visibile e 
                  emblematicamente ascendente, "globo" poiché 
                  al contempo il suo volume contiene dentro di sé un gran 
                  numero di oggetti, persone, simboli che in esso coesistono. 
                  Se a ciò si somma l'influenza dei disegni di architettura 
                  futurista di Sant'Elia, che immaginava città moderne, 
                  dinamiche, percorse ad altissime velocità, ecco che si 
                  ottiene una Metropolis in totale simbiosi con la tecnologia, 
                  seppur ancora schiava delle macchine che stanno nelle sue viscere.
				  
                
 
                Al confronto, lo Ziggurat, edificio preminente 
                  del film di Rintaro, la cui inaugurazione segna l'inizio del 
                  film, tocca davvero il cielo, è molto più alto 
                  e slanciato, ma, se possibile, è anche molto meno democratico. 
                  Non c'è spazio per giardini o svaghi, perché non 
                  c'è spazio per una classe dirigente. Tutto il potere 
                  effettivo è concentrato nelle mani del Duca Red, che 
                  adopera il suo edificio per staccarsi fisicamente da una popolazione 
                  che ritiene di poter manipolare a suo piacimento, sentendosene 
                  anche moralmente superiore (mentre Fredersen, che intuiamo essere 
                  stato in passato capace di amare, riuscirà a trovare 
                  in sé, pur riluttante, la forza per la famosa mediazione 
                  finale). Questa Metropolis è inevitabilmente debitrice 
                  della prima, ma è anche il prodotto della nostra epoca, 
                  in cui è in atto una corsa alla realizzazione di costruzioni 
                  più alte di quanto la logica non imporrebbe, anche solo 
                  per ottenere un record di breve durata. La differenza più 
                  rilevante è che, oltre alle implicazioni simboliche, 
                  lo Ziggurat è concepito innanzi tutto come potenziale 
                  arma di distruzione totale, capace di dominare sulla città 
                  e oltre, non più solo figurativamente. Si possono così 
                  riscontrare due modi diversi di gestire il potere, nelle due 
                  città: quello di Fredersen è un potere economico 
                  e sociale, quello del Duca Red politico e militare.
                Il lasso di tempo tra i due film si nota 
                  soprattutto nel "sottobosco" destinato al popolo. 
                  Negli anni '20, in Germania, si dovette affrontare il grave 
                  problema degli alloggi, per consentire alle classi più 
                  indigenti di vivere in condizioni decenti, specie coloro che 
                  abitavano proprio nei quartieri operai. Lang, per realizzare 
                  la parte bassa della sua città, non può che essersi 
                  ispirato a questi sobborghi, dove gli edifici sono realizzati 
                  con una purezza razionalista che ricorda più o meno lontanamente 
                  le nuove costruzioni di allora, diffusesi poi in larga parte 
                  del mondo, creando in posti anche molto distanti fra loro quartieri 
                  monotoni e spersonalizzati. Se si eccettua qualche costruzione 
                  che rimanda alle scenografie tipicamente espressioniste, il 
                  livello inferiore della Metropolis di Lang è fatto di 
                  numerosi, enormi edifici a forma di parallelepipedo, bucherellati 
                  lungo i quattro lati da finestre tutte uguali. Queste abitazioni 
                  dei lavoratori somigliano a prigioni, non è presente 
                  nessun tipo di servizio o luogo di ricreazione, poiché 
                  sono concepite solo in funzione della necessità di sistemare 
                  più gente possibile nel minor spazio possibile, in ambienti 
                  pensati solo per dormirci. Questo desiderio, in effetti, esaspera 
                  quello della Germania uscita sconfitta dalla Grande Guerra, 
                  ma la soluzione visiva del film, che porta questa esigenza alle 
                  estreme conseguenze, è molto inquietante e ben poco simile 
                  a un intervento di natura sociale.
                  
 
                  
                  Rintaro opta per una segmentazione ancora più accentuata, 
                  costruita su quattro diversi livelli. Oltre a quello superiore, 
                  dominato dallo Ziggurat e occupato dalle persone più 
                  facoltose, e quello interrato, dove vive invece il resto della 
                  popolazione, esistono altri due livelli sottostanti, dentro 
                  i quali lavorano solo le macchine. C'è già un 
                  terzo "ceto" quindi che occupa completamente ed esclusivamente 
                  i suoi spazi, e che, soprattutto, si pone come classe alternativa 
                  alla massa lavoratrice. Nel futuro di Lang c'era ancora spazio 
                  per la consapevolezza dell'importanza economica dei lavoratori, 
                  necessari per la sopravvivenza dell'intera comunità. 
                  Le macchine, che permettono il benessere, anche se per pochi, 
                  non possono lavorare da sole. La città interrata di Rintaro 
                  è uno 
slum molto più vitale e colorato 
                  rispetto ai casermoni tedeschi, ci sono bar e distrazioni e 
                  chi vi abita è politicamente cosciente della propria 
                  condizione. Tuttavia si tratta pur sempre di un luogo abitato 
                  da disoccupati, da disgraziati che la "buona società" 
                  ha spedito sottoterra, indegni sia di stare alla luce del sole, 
                  sia di effettuare quei lavori per i quali i robot sono più 
                  adatti. Da schiavi nella società industriale a disoccupati, 
                  nullafacenti, ghettizzati, in quella postindustriale: si può 
                  quasi costruire un percorso storico della classe lavoratrice 
                  nei settant'anni che distanziano i due film.
 
                Il personaggio chiave di entrambe le opere 
                  è un robot dalle sembianze femminili. Lang ha optato 
                  per un androide con chiari attributi femminili, che assume l'aspetto 
                  della mite Maria senza avere alcuna consapevolezza delle proprie 
                  azioni. I lavoratori si lasciano guidare da lei, senza sospettare 
                  che è una macchina ad ordinare loro di distruggere altre 
                  macchine. La folla non ha alcuna coscienza di ciò che 
                  sta facendo, si lascia agevolmente plagiare senza comprendere 
                  che chi li aizza non è più una di loro, ma un 
                  robot controllato dalla mente malata del suo inventore. Il robot 
                  esegue solo degli ordini, ma la folla, quasi come se lei stessa 
                  fosse costituita da automi, le obbedisce fino a far sfociare 
                  l'iniziale manifestazione della propria forza nella tragedia 
                  e nella distruzione incontrollata. Molto diversa è Tima, 
                  l'androide di Rintaro, e non solo perché in questo caso 
                  si tratta di una ragazzina che guarda attivamente il mondo con 
                  occhi vergini, senza sapere chi è e dove si trova. Questo 
                  personaggio, che non sospetta le sue origini, è fin troppo 
                  umano. Nella ricerca del sé e della propria autocoscienza, 
                  fa i conti con il suo essere inumana in maniera altrettanto 
                  dolorosa dei replicanti di Blade Runner, nonché 
                  del bambino di A.I., se non altro per ragioni anagrafiche 
                  e per la cieca ostinazione nel volersi considerare una persona. 
                  Tima è una sintesi delle due Maria, un animo candido 
                  dentro un corpo inorganico, e compie un percorso inverso: se 
                  la robotrix simil-Maria assume le sembianze di una donna, giocando 
                  col tema del doppio fino ad esaltarne gli aspetti più 
                  carnali e lascivi, Tima nasce convinta di essere di carne e 
                  ossa, finché non accetta con rassegnazione il suo essere 
                  solo uno strumento creato da uomini ad uso di altri uomini. 
                  Ma è anche un dispositivo di controllo molto più 
                  moderno. Maria poteva influenzare le masse, in un periodo, gli 
                  anni '20, in cui la folla aveva ancora un forte potere anche 
                  militare, mentre Tima governa l'arma suprema, di cui è 
                  la chiave. La Prima Guerra Mondiale era stata una grande mattanza 
                  costata la vita ad un'intera generazione, l'ultimo conflitto 
                  in cui sacrificare come mosche i soldati, il cui numero da solo 
                  era una risorsa fondamentale. Ma quello era anche il periodo 
                  dei movimenti politici che avrebbero cambiato l'Europa, nei 
                  quali era centrale un coinvolgimento più o meno diffuso 
                  della popolazione. Oggi sappiamo che se si è minoranza 
                  ma si ha l'arma giusta, non c'è folla che tenga. Ecco 
                  che la piccola Tima, dotata di sistemi di comunicazione che 
                  neanche conosce, nata per essere issata su un trono dal quale 
                  sprigionare una forza che non sospetta di possedere, è 
                  una versione moderna e più tecnologica della sobillatrice 
                  di masse Maria, uno strumento di morte inconsapevole, più 
                  minaccioso e vicino ai nostri tempi segnati da armi di distruzione 
                  di massa, armi intelligenti e bombe atomiche che ogni nazione 
                  o stato cerca di accaparrarsi per attaccare o per difendersi.
				  
                
 
                I finali aprono spiragli molto diversi 
                  sui due mondi futuribili che escono dalle ceneri delle due Metropolis. 
                  La sceneggiatura che Thea Von Harbou ha scritto per il marito 
                  Fritz Lang viene generalmente considerata il punto debole del 
                  film. Nella sequenza finale i ribelli si riconciliano col dittatore 
                  Fredersen grazie alla mediazione di suo figlio, Freder. Si arriva 
                  ad una stretta di mano tra il dittatore e il capo dei rivoltosi, 
                  che appare abbastanza ingiustificata, in quanto, fino ad un 
                  momento prima, i contrasti sociali sembravano insanabili e pareva 
                  piuttosto difficile immaginare come due realtà così 
                  distanti potessero riavvicinarsi. Certamente quella famosa stretta 
                  di mano, che riflette anche la liaison sentimentale tra il ricco 
                  Freder e la povera Maria, mette malamente fine ad una vicenda 
                  di frizioni tra classi, di violenze contro le macchine, di paure 
                  non sopite, ed ha un valore di speranza, seppure mal posta, 
                  verso un futuro che riflette il sentimento della popolazione 
                  tedesca che stava ricominciando a marciare dopo una guerra persa. 
                  Nella Metropolis dell'anime giapponese, la vicenda si 
                  chiude, al contrario, con due mani che tentano di rimanere strette, 
                  ma si lasciano. Tima, in bilico su un baratro, sfugge a Kenichi, 
                  il ragazzino che l'aveva trovata, accudita, protetta dal figlio 
                  adottivo del Duca Red che, ben diverso dal suo "omologo" 
                  Freder, è un cinico e abile assassino convinto che la 
                  distruzione di quel robot sia un bene per il venerato padre. 
                  La ragazzina fatta di circuiti e congegni meccanici, che cerca 
                  fino all'ultimo istante di comprendere la sua identità, 
                  crolla dai resti dello Ziggurat distrutto, verso il vuoto, verso 
                  quella che forse non si potrebbe neppure definire morte. Il 
                  rapporto con le macchine non si ricompone. Tima, senza più 
                  controllo né sensibilità, ha distrutto lo Ziggurat, 
                  la cui esplosione, accompagnata dal brano musicale "I can't 
                  stop loving you" possiede un effetto straniante, nell'accoppiare 
                  una dolce melodia a un evento catastrofico (che riporta alla 
                  mente un finale ancora più devastante e distruttivo, 
                  ugualmente sarcastico e pessimista, quello de Il Dottor Stranamore 
                  di Kubrick). Laddove nel film di Lang la spinta distruttiva 
                  dell'uomo e delle macchine si placava verso un futuro di presunta 
                  prosperità, qui rimangono solo macerie e una Metropolis 
                  ben lungi dall'essere modello di una società ventura. 
                  Le tensioni accumulate contro le macchine risultano accentuate, 
                  poiché la catastrofe è da imputarsi proprio ad 
                  una macchina, seppure istigata dalla bramosia di potere di un 
                  uomo. Ciò che resta è una città da ricostruire, 
                  una diffidenza ancor più giustificata verso i robot, 
                  un pessimismo accresciuto nei riguardi di una modernità 
                  che, pochi giorni dopo una sfavillante presentazione, crolla 
                  a pezzi sotto gli occhi di tutti.
				  
                
 
                È evidente che Metropolis 
                  rimarrà sempre il film di Fritz Lang. Troppo forte l'impatto 
                  all'epoca, troppo pesanti le influenze che ha seminato, troppo 
                  duraturo il suo successo, troppo moderne e rivoluzionarie per 
                  l'epoca le riprese, a fronte di un anime giapponese riuscito 
                  e ben fatto, altamente spettacolare, forse solo con qualche 
                  problema nell'unione di elementi bidimensionali e tridimensionali, 
                  ma comunque "figliastro" del primo, e certo non altrettanto 
                  "pietra miliare". Resta da aggiungere che il film 
                  di Rintaro è però anche figlio del nostro tempo, 
                  dei nostri problemi e delle nostre paure. Se il film tedesco 
                  ci parlava della sua epoca e del futuro che temeva e auspicava, 
                  quest'ultimo film rispecchia appieno il ventunesimo secolo, 
                  è più attuale, pone nuovi dilemmi riguardo il 
                  rapporto tra le tecnologie - oggi divenute più concrete 
                  reali - e il lavoro, le armi, l'autorità. E mostra scenari 
                  di gestione del potere, e degli strumenti di controllo sulla 
                  popolazione, che forse sono già in atto, o forse sono 
                  già avvenuti, come la colonna sonora dal gusto retrò 
                  farebbe intuire. Non può certo eguagliare l'originale, 
                  in termini storici e culturali, ma è capace di risollevarne 
                  in maniera aggiornata tutti gli interrogativi.