Nel-finito, infinito: palingenesi di un amore.
La voce umana/Codice privato
di Marco Toscano
La voce umana di Cocteau è
un'opera incompiuta. Incompiuta nella scelta consapevole di
uno stato malleabile, elastico, liquido o, addirittura, gassoso.
Non-finita, in quanto fatta principalmente di voce, di aria.
E non di parole precise e definitive, ma smozzicate, abortite,
inghiottite proprio quando stavano per rivelarsi e rivelare.
Frasi monche, sentimenti accennati, tentativi intuibili nei
quali riconoscersi, senza però essere espliciti, mai
chiaramente denunciati. Un materiale programmaticamente "sporco"
come lo può essere una conversazione telefonica, per
di più veicolata da una linea disturbata, da un segnale
altalenante come le sensazioni, le reazioni e i destini in gioco.
A chi appartengono, d'altronde, quelle voci? Quali sono i loro
nomi, le loro storie? Ma, ancor prima che nell'argomento trattato
e nella contingenza assunta per svolgerlo, il testo si dimostra
appena sbozzato, michelangiolescamente, proprio nella forma.
"Rispettare il testo in cui gli errori di lingua, le ripetizioni,
le espressioni letterarie, le banalità sono frutto di
un dosaggio meditato" ci tiene a precisare lo stesso Cocteau
in chiusura delle indicazioni di messa in scena. Persino graficamente,
quelle interminabili fila di punti di sospensione prendono l'aspetto
di molecole, particelle gassose nell'atto di saturare il contenitore
che le accoglie, facendone propria la figura. Tanto che si direbbe
che siano esse a costituire il vero testo scritto da Cocteau.
Gli intervalli e i silenzi. I vuoti della coscienza, della memoria.
Non a caso la donna accenna a più riprese proprio ad
un vuoto, al buio nel quale ricadrà (forse definitivamente)
appena terminata quella conversazione. Dal marmo l'autore ha
scelto di estrarre solo una parvenza, un'ombra. La sua opera
continuerà pertanto a suggerire direzioni, emozioni diverse,
differenti modi di riempire quelle pause sussurrate, quei moti
soppressi, quei sogni tragicamente dimenticati.
In ciò consiste dunque la grandezza
de La voce umana: nell'elevare il vuoto di parola, l'assenza
di segnale ad apertura vitale, a possibilità ininterrotta
di palingenesi nel rinnovamento proposto da ogni inedita interpretazione.
Non c'è dunque da stupirsi di fronte al proliferare di
riletture tanto lontane di uno stesso testo, quali appunto quelle
rappresentate dai film di Roberto Rossellini (L'Amore,
episodio La voce umana, 1947) e Francesco Maselli (Codice
privato, 1988). Diversi nel rapporto con la fonte letteraria
come nel significato ultimo della rielaborazione che se ne opera.
Il film di Rossellini è senz'altro
quello che, nell'evidenza della messa in scena, si conferma
maggiormente rispettoso del testo di Cocteau, dalla natura del
quale risulta comunque "autorizzato" (se non obbligato)
ad apportare delle modifiche rilevanti. Quella più evidente
risiede nella concezione di uno spazio che, in entrambe le opere,
si costruisce in modo multiplo: uno spazio "reale"
(quello della camera da letto della donna), uno "virtuale"
(quello della telefonata, anzi quello contenuto nell'apparecchio
telefonico), uno "immaginario" (quello della memoria
e del sogno), nonché uno "proiezionale" o "scopico"
(quello ipotizzato - della casa prima, del ristorante poi -
nel quale la donna vede muoversi l'uomo, al punto da provare
a descriverlo). Gli ultimi due non presentano sostanziali novità,
ma hanno il pregio di introdurre la dicotomia fondamentale su
cui si articola l'intera costruzione dello spazio nel testo:
chiusura/apertura, inaccessibilità/violabilità,
preservamento/modificabilità. La protagonista, infatti,
tenta pateticamente di proteggere quello dei propri ricordi
(con la richiesta fatta all'uomo di non alloggiare, una volta
a Marsiglia con la donna che l'ha sostituita, nel loro stesso
albergo), ma assiste al crollo dello spazio della propria proiezione
scopica, smascherando la menzogna dell'uomo che credeva a casa
e che invece è al ristorante e operando poi in prima
persona l'annientamento di quello onirico (il "taglia"
finale che, evidentemente, riprende il sogno riferito ad un
"tubo di scafandro" che pregava l'uomo di non recidere).
Proseguendo su tale ipotesi, il discorso
sui restanti si rivela ancora più complesso. A proposito
dello spazio reale della camera da letto, per cominciare, si
nota come quell'assoluta impermeabilità e chiusura delineata
all'interno del testo scritto sia smentita dalle pulsioni tanto
centrifughe quanto centripete che Rossellini immette nel film.
Se Cocteau predisponeva una stanza da bagno "illuminatissima",
la cui porta fosse semiaperta, ma mai varcata, la protagonista
de L'Amore accede ripetutamente all'ambiente suddetto.
La prima volta che ci appare si trova appunto in bagno, e non
in camera, emblematicamente riflessa in uno dei tanti specchi
di cui Rossellini riempie gli ambienti, quasi a suggerire che
ella è ridotta ormai solo all'ombra di sé stessa,
e che quello a cui stiamo per assistere è, prima di tutto,
un bilancio esistenziale. La donna, più tardi, esce addirittura
dalla camera per dirigersi verso la porta d'ingresso, in quella
che costituisce un'intera scena doppiamente estranea al testo
di Cocteau (in senso diegetico e più strettamente spaziale).
Ipotizza, dopo aver oltrepassato la linea invalicabile di confine
tra il primo e il secondo, un terzo ambiente del tutto inedito
e si spinge ad immaginare l'illusione di un ultimo incontro
tra i due amanti, minacciando una compresenza fisica - al posto
di quella simulacrale offerta dal telefono - irrealizzabile
perché inconciliabile con quel destino di prigionia mentale
e reclusione ambientale che costituisce il senso stesso dell'opera.
In questo preciso istante il tentativo
di fuga della protagonista (dalla stanza, come da una condizione
esistenziale) coincide con l'attesa di un'irruzione, di un evento
che scardini quella solitudine. Essa, tuttavia, non può
essere scalfita ed anzi gli altri elementi centripeti in gioco
(i rumori provenienti dalla strada e dagli appartamenti vicini)
non fanno che accentuarla, costituendo comunque una novità,
data la completa insonorizzazione garantita da Cocteau alla
camera della donna. Se dunque lo spazio fisico - nel testo letterario
ermeticamente sigillato - è ripetutamente violato, in
un senso e nell'altro (ed è da notare come non lo sia
solo "a uscire" ed "a entrare", ma anche
"a stare", data la presenza nella stanza del cane,
che dal testo ne viene tenuto fuori) la stessa scelta viene
compiuta per quanto riguarda quello immateriale della telefonata.
Ma esso, all'interno dell'atto unico, era vulnerabile, aggredito
da agenti esterni, pervaso da "rumore" comunicazionale
(vale a dire condizionato da un segnale intermittente e da continue
interferenze) e aperto ad interlocutori estranei (la signora,
la centralinista). Contraddirlo si traduce dunque, per il film,
nel garantirlo, nello sprangarlo, cosicché, nonostante
il permanere di sopportabili disturbi, scompare la violenza
perpetrata dall'indolenza della centralinista e dal cinismo
della signora di Cocteau.
Ad un'organizzazione spaziale sottilmente
diversa, Rossellini abbina poi un senso del tempo inedito, almeno
in un punto. Se il racconto di Cocteau si basava su una precisa
continuità temporale (quasi in piano-sequenza), nel film
il brusco interrompersi della comunicazione e l'ossessiva preghiera
della donna affinché l'amante richiami sono legate da
una dissolvenza incrociata (che di per sé, nell'essere
particolare elemento di montaggio, indica il trascorrere di
un intervallo di tempo superiore ad un normale stacco). Non
è un caso forse che sia proprio questa clamorosa infrazione
"sintattica" al testo ad introdurre la speranza dell'arrivo
dell'uomo, con l'uscita dalla stanza (infrazione "grammaticale",
logica e diegetica), tracciando il punto più lontano
dalla volontà di Cocteau. Tali soluzioni, d'altronde,
non possono che rimandare a tutto il cinema di Rossellini, la
cui poetica è da sempre fondata sulla frammentazione
strutturale (espressa pienamente in un film come Paisà),
sull'attimo pregnante e decisivo (ad esempio Germania anno
zero) e pertanto sulla rottura di una linearità tanto
spaziale che temporale.
Le differenze tra il testo di Cocteau e
la rilettura del regista, però, non si esauriscono qui.
Un nuovo dato, sconvolgente nella sua audacia, risulta subito
evidente: se nell'atto unico ci venivano proposte solo le battute
della donna, il film rende conto anche dell'altra metà
della conversazione, facendoci udire - seppur a tratti, e molto
sommessamente - la voce dell'uomo. La telefonata-monologo immaginata
da Cocteau si traduce, evidentemente, in un dialogo. Ciò,
tuttavia, non impedisce di serbare un sospetto, un dubbio atroce:
quello per cui tutta la conversazione sia il frutto della condizione
di instabilità psichica in cui la donna sarebbe caduta
dopo essere stata abbandonata. Un'interpretazione legittima
nel caso del testo letterario, in cui non le viene mai concesso
un referente (e d'altronde, se Cocteau parla di una "camera
da delitto" è plausibile attendersi che l'assassino
si sia dileguato senza lasciare traccia), che nondimeno può
assorbire l'elemento introdotto dal film: la voce che sentiamo
potrebbe essere, come tutto il resto - rumori compresi -, un
prodotto della disperata follia della donna.
Nella trasposizione rosselliniana risulta
poi, per gran parte, sacrificata tutta la riflessione operata
dal testo riguardo all'oggetto telefono, inteso tanto nella
sua materialità quanto nella sua funzionalità.
A quest'ultimo proposito le considerazioni non sono univoche:
il telefono è vissuto come mezzo di comunione miracolosa
ed effimera (anche nella metafora onirica del "tubo di
scafandro"), e più spesso di separazione improvvisa
ed irrazionale, strumento diabolico nelle mani di una divinità
malefica e dispettosa: "Si ha l'illusione di essere uno
contro l'altro, e di colpo ti mettono in mezzo cantine, fogne,
un'intera città". Analisi mossa dalla consapevolezza
di quanto profondamente il telefono abbia modificato i rapporti
umani, le dinamiche sociali e affettive nel loro relazionarsi.
"In passato ci si vedeva. Un'occhiata poteva capovolgere
tutto. Ma con questo apparecchio, quel che è finito è
finito". La parte di tale discorso - il quale percorre
il testo scritto per tutta la sua lunghezza - che il film sceglie
di mettere in campo si riferisce esclusivamente alla dimensione
fisica dell'apparecchio telefonico, mentre ne omette l'apparato
simbolico. Esso viene concepito come qualcosa da accarezzare
e stringendo il quale addirittura addormentarsi, nonché
come un'arma da rivolgere contro sé stessi (già
rivolta naturalmente contro gli amanti battuti), in quel filo
da attorcigliare intorno al collo. Da reinventare come cappio
o come braccia dell'assente che, lasciandoci soli, ci stringe
in un ultimo gesto d'amore, in una stretta troppo forte.
Il regista non è il solo artefice
di un film. L'importanza dell'apporto garantito dalle altre
professionalità al lavoro da lui gestite e coordinate
risulta immediatamente evidente, ad esempio, nella prestazione
attoriale. Così quello che per alcuni (Stroheim, o Kubrick,
tanto per fare due nomi) è solo un corpo da plasmare
alla propria idea di messa in scena, diventa spesso vero e proprio
co-autore. In un film come L'Amore, imperniato pressoché
totalmente sulla prova attoriale (con il protagonista in scena
per tutta la durata dell'opera), questa considerazione risulta
superflua. Se poi colei a cui spetta incarico così gravoso
è Anna Magnani, diviene inevitabile soffermarsi su come
l'attrice abbia lavorato sul testo, in che modo l'abbia arricchito.
Rispetto alla donna di Cocteau, effettivamente, pare che la
Magnani, coerentemente con quelle che sono le sue "corde"
recitative, abbia infuso al suo personaggio una carica di aggressività
inedita, nella rabbiosa interpretazione data ad alcuni passaggi.
In tal modo ella ha reso più esplicita quella similitudine
donna-cane tracciata da Cocteau nel suo atto unico: la cagna
ospitata nell'appartamento della protagonista cerca il suo padrone
esattamente come la donna, e come l'animale anche quest'ultima
(nell'interpretazione della Magnani) ringhia a chi gli si avvicina,
scoprendo i denti, e tutto il suo inestinguibile dolore. Nonostante
l'attrice tenti di restituire l'alternanza delineata nel testo
tra un'incondizionata sottomissione e fugaci parvenze di dignità,
tuttavia sembra conferire maggiore vividezza a queste ultime.
Ad esempio non accompagnando (come avviene nel testo) la sofferenza
morale e sentimentale ad una fisica, determinata dal tentativo
di suicidio dei giorni addietro. Il "non ti voglio più
vedere" finale, poi, pur non potendo certo ascriversi ad
un imprevisto e rancoroso rifiuto, è sintomatico nel
rivelare una ben più disperata ricerca di un ruolo in
qualche modo "attivo" nella conclusione di una storia
d'amore, cosicché la donna di Rossellini non si preclude
del tutto una possibilità (una soltanto, in ogni caso)
di rialzare la testa. Quella di Cocteau, al contrario, terminava
il suo atto "in una camera piena di sangue", in una
camera da delitto, vittima di un vero e proprio ghigliottinamento
(suicidio?) ad opera della lama-ricevitore che rotola a terra.
La voce umana, l'atto unico di Cocteau.
Si tratterebbe di opera incompiuta, si diceva all'inizio. A
sollevare questa tesi e a fornirla come materia di riflessione
è Francesco Maselli con il suo Codice privato.
Senza però farne tesoro, senza darne concreta applicazione.
La natura della trasposizione di Maselli si rivela immediatamente,
nelle pieghe dei titoli di testa. Quando compare solo un "dedicato
a Jean Cocteau", senza che ci sia il minimo cenno a La
voce umana, comprendiamo come la sostanziale fedeltà
della versione rosselliniana sia destinata a lasciare il posto
a qualcosa di decisamente meno vincolato, meno riconoscibile.
O, all'opposto, meno libero. Il sospetto trova subitanea conferma
in un dato del tutto nuovo: l'uomo e la donna hanno un nome
(Emilio e Anna, forse in omaggio alla Magnani?), una professione,
un'identità e una storia precise. Basta questo a far
evaporare la nebbia che avvolgeva di fascino il testo di Cocteau,
favorendo l'indeterminatezza dei contorni e garantendone una
possibilità universale. Il film di Maselli procede per
accumulo di infrazioni e differenze. L'ambiente in cui si muove
la protagonista, già ampliato da Rossellini, risulta
qui enormemente dilatato, esteso ad un intero, gigantesco superattico
che ella percorre solitaria. La condizione di solitudine e prigionia
di Anna non è però sottolineata soltanto per iperbole,
ma anche per metafora, dato lo scatenarsi anti-naturalistico
- nel sonoro "eccessivo" dei tuoni e nei vetri delle
finestre che sembrano rimanere asciutti - degli elementi, con
vento impetuoso e pioggia scrosciante.
Freddo. Parola che ritorna di continuo
(nelle lettere, nel libro, nel parlare a sé stessa della
donna) per spiegare che l'ostilità dell'ambiente esterno
ricalca, riproduce quella che gela l'interno dell'appartamento
e il mondo affettivo dei personaggi. La scelta di mettere in
scena una vera e propria apocalisse naturale, che sia sostegno
visibile e trasposizione universale di quella personale della
protagonista, implica due considerazioni. Comincia, da un lato,
a delinearsi la tendenza all'esplicitazione e al ricorso greve
a tutto un armamentario di simboli che costituirà il
motivo principale del fallimento del film; Dall'altro, rappresenta
una decisa diversità dal modello rosselliniano, che usava
l'ambiente esterno "reale" (negato da Cocteau) a sottolineatura
della solitudine della donna non per similitudine, ma per contrasto
(le risate e i suoni soffocati di una musica che penetravano
le pareti della camera). Nel mezzo di una tempesta che sembra
in realtà solo sognata, l'abitazione di Anna sembra affrontare
un nuovo diluvio, solcando le acque come un'arca sulla quale,
non a caso, la donna-Noè ha portato in salvo una tartaruga
in procinto di affogare per le piogge. L'animale rimanda alla
scatola di tartaruga del testo dentro la quale la protagonista
chiede siano serbate le ceneri delle proprie lettere, cioè
i propri ricordi. La tartaruga sostituisce il cane di Cocteau
e di Rossellini nel rappresentare il tramite simbolico (quello
fisico lo può costituire solo il telefono) con la persona
amata e il suo ossessionante ricordo. Ma al contrario di quelle
donne che chiedevano di liberarsene (pregando l'uomo di riprendersi
l'animale), Anna porta dentro il proprio passato, decide di
barricarvisi, destinando la tartaruga ad una possibilità
di salvezza o condannandola (e condannandosi) ad una morte lenta,
più atroce, su un'arca persa da qualche parte dove non
c'è più cibo (Anna, all'inizio del film, ne prova
repulsione, fino ad accusare un malore, al solo vederlo), né
acqua, né pace.
La donna-cane, perciò, quella sottomessa
e rabbiosa, diventa donna-tartaruga, vale a dire una creatura
testarda, fragile e coriacea al tempo stesso, sanguinante eppure
determinata ad andare avanti nella propria ricerca della verità,
per quanto dolorosa essa possa rivelarsi. Una creatura che,
d'altronde, coincide con il proprio ambiente di vita, esattamente
come la protagonista si identifica con (nel) lo spazio che occupa.
E cosa rimane, fuori dall'arca? Tutti gli altri, i peccatori,
coloro che, nella mente di Anna, sono stati complici della congiura
che l'ha assassinata. Compresi gli amici, compresa la propria
stessa madre.
Dal punto di vista spaziale, al di là delle dimensioni
maggiorate dell'appartamento, vi sono altre importanti differenze.
La prima è rappresentata dal fatto che, con l'introduzione
del computer, gli spazi da quattro diventano cinque. Ciò
non aggiunge nulla in relazione al discorso fatto a proposito
della dicotomia attraverso la quale essi si snodano: anche lo
spazio "digitale" (e ancor più palesemente,
tanto che la cosa acquista valore narrativo) è territorio
protetto da violare e al quale accedere contro una volontà,
aggirando una disposizione ben precisa (il "codice privato"
del titolo). La seconda riguarda invece lo spazio "reale",
che coincide ormai con quello dell'intera casa (e non più
di una singola stanza). Se in Rossellini la pulsione centripeta
era oggetto di desiderio da parte della protagonista, qui diviene
fonte di terrore (quando bussano alla porta). L'ambiente continua
però a rimanere inaccessibile a chiunque all'infuori
della donna, nel rispetto dell'invincibilità della sua
prigionia. La differenza più rilevante interessa invece
lo spazio "telefonico". Se in Rossellini si accentuava
l'esclusività di tale dimensione (riservata, con l'eccezione
del breve dialogo con Giuseppe, ai due amanti), in un film dove,
come abbiamo visto con il caso del computer, la violazione assume
il predominio sulla difesa, gli interlocutori si moltiplicano,
si intrufolano. Mentre ormai la presenza anche solo "virtuale"
dell'amato svanisce. La voce desiderata si fa troppo silenziosa,
sostituita dagli scritti dell'uomo come il telefono lascia al
computer il ruolo di tramite ineffabile tra i due amanti. Ma
se il primo, parafrasando McLuhan, costituiva un canale "caldo",
il secondo è invece "freddo" e, adottandolo,
Maselli non fa che estremizzare consapevolmente tutto il discorso
riferito al telefono. Uno strumento, il computer, che, una volta
permesso l'accesso, garantisce assenza di "rumore"
e di voci estranee, dimostrandosi però in grado di stabilire
un contatto esclusivamente indiretto: sia da un punto di vista
spaziale, proprio come il telefono, sia da uno temporale, laddove
il telefono garantiva quanto meno la compresenza, intesa come
presenza comune.
Dal punto di vista del tempo della narrazione,
Maselli, al contrario di Rossellini, sceglie di attenersi a
quella continuità predisposta da Cocteau. Tale intenzionalità
si rivela nello sforzo di una messa in scena che assume il piano-sequenza
come propria cifra stilistica, anche se esso, a causa di evidenti
limiti tecnici, è spesso solo simulato: lo stacco, infatti,
arriva frequentemente nel momento in cui il movimento della
mdp ci porta dietro una delle tante colonne che scandiscono
lo spazio dell'abitazione, oppure a ridosso di una sfocatura
su di un dettaglio (come nel caso del cuscino). Tali escamotages,
spesso talmente smaccati da suggerire una sensazione di fastidio,
permettono al film di esibire una messa in scena (fintamente)
mobilissima, ricorrendo a quelli che appaiono come dei complicati
movimenti di macchina in continuità (carrelli orizzontali
combinati con dolly ascendenti o discendenti, per esempio) che
altro non sono se non la messa in serie di due movimenti distinti.
Tuttavia il senso del tempo di Cocteau è così
rispettato e Maselli si può permettere un interessante
lavoro sull'inquadratura del corpo attoriale, che risulta in
fin dei conti funzionale al senso dell'opera: Ornella Muti (che
interpreta Anna) viene costantemente seguita dalla mdp nel suo
ininterrotto vagare per la casa, il cui spazio si svolge anche
in altezza (organizzato su più piani) e verso l'esterno
(aprendosi a delle terrazze). Non è però infrequente
che la mdp, durante uno di questi spostamenti, abbandoni la
donna per esplorare lo spazio vuoto e ritrovarla poi nella continuità
del movimento.
La differenza fondamentale che separa il
film di Maselli dai suoi illustri precedenti risiede, però,
proprio nel personaggio di Anna. Donna profondamente diversa
da quelle "disegnate" da Cocteau e Rossellini, come
diversa è la situazione che si trova ad affrontare. Ella
non era preparata al diluvio, non aveva il minimo sentore del
disastro. Se le altre, pur in preda alla disperazione e al panico,
avevano avuto quanto meno il tempo di comprendere i motivi della
sconfitta, e di tracciarne il bilancio, lei è stata colta
dal destino alle spalle. La sua è la posizione più
difficile, per due motivi: perché non poteva prevederla
e perché, diversamente dai testi di Cocteau e Rossellini,
qui non ci troviamo già "a distanza" dal naufragio,
ma siamo nel mezzo della bufera, stiamo lottando per respirare.
In effetti, oltre a prepararsi gradualmente all'accettazione
dell'idea di una vita senza l'amato, coloro che l'hanno preceduta
vivono tale situazione quantomeno da qualche giorno (il fondo
è già stato toccato, col tentativo di suicidio,
ed esse dicono "non ci si suicida due volte"). Per
Anna, invece, è il primo giorno di una vita senz'aria.
Così si spiega quell'aggrapparsi ad ogni vaga speranza,
quel triste tentativo di riparare nell'illusione (di un presunto
malinteso, di una fantomatica gelosia) estraneo alle altre protagoniste,
che anzi rifuggono da ogni speranza, da quell'unguento che farebbe
solo più male, infettando la ferita e impedendole di
cicatrizzarsi il più in fretta possibile. Se le donne
precedenti sono già pienamente entrate nella fase dell'accettazione
passiva, lei intraprende solo ora il proprio percorso di autocoscienza,
transitando dalla simulazione (masturbazione) alla menzogna
(ridendo della futilità dei motivi della separazione),
dalla lucida consapevolezza (razionalizzando il proprio tentativo
di auto-ingannarsi) ad una rabbia rancorosa ("se ne accorgerà")
e persino vendicativa (la telefonata a Michele) che è
del tutto estranea alle donne di Cocteau e Rossellini.
Profondamente diversa poi è quella motivazione di cui
Anna in principio non dispone (quella che porta alla fine della
sua storia d'amore) rispetto a quelle in possesso delle altre
due protagoniste. Per Cocteau l'amore trova la sua nemesi sostanzialmente
in un deficit di bellezza da parte della donna, con conseguente
estinguersi dell'attrazione fisica nei suoi confronti: l'uomo
la sostituisce infatti con una ragazza apparsa su una rivista
di moda (quindi, presumibilmente, più attraente di colei
che chiamava "brutto musetto"). Rossellini prosegue
su questa strada, esplicitando però la differenza di
status economico tra i due amanti (sappiamo che lui ha il servitore,
mentre l'appartamento della donna denota un certo squallore).
Maselli, al contrario, esclude di fatto questi due fattori:
Anna è bellissima e, pur avendo origini popolane, vive
ormai stabilmente nell'abitazione dell'uomo (e scopriamo per
giunta che le è intestata una somma ragguardevole di
denaro). Il deficit da parte della donna non è più
sensuale o economico, ma prettamente culturale (essendo lui
un intellettuale di fama e avendo lei concluso appena le scuole
dell'obbligo). Eppure la radice della novità è
altrove. Stavolta non è affatto la differenza ad allontanare,
bensì l'appianamento, la scomparsa della differenza.
La decisione di Emilio deriva dalla consapevolezza - maturata
guardando un'intervista di Anna in televisione - di come ormai
la donna abbia raggiunto una propria indipendenza culturale,
quindi di come il suo lavoro, in un certo senso, sia terminato.

Anna, oltre a rappresentare una figura decisamente più
sensuale rispetto alle altre donne, trova la più profonda
natura della sua storia nell'essere accostata ad un quadro.
È grazie ad un suo ritratto, d'altronde, che l'uomo l'ha
conosciuta e se ne è invaghito. E lei, nei tre anni successivi,
non ha smesso neppure per un attimo di essere quel dipinto.
Emilio, da parte sua, ha continuato per tre anni a lavorare
su quel quadro, a plasmarlo e perfezionarlo, non rendendosi
conto tuttavia di aver infranto il limite imposto dalla natura
e dall'arte stessa, cosicché la sua opera (per quanto,
curiosamente, egli l'abbandoni attribuendole "vita propria")
è nata morta, senza la possibilità di migliorare,
di adattarsi a quello scorrere del tempo che impone il divenire
delle cose.
Tali considerazioni costituiscono l'idea
di fondo da cui scaturisce l'intera operazione compiuta dal
film nei confronti del testo cocteauiano, la ragione stessa
che ne giustifica la necessità. Maselli (come aveva fatto
Rossellini) può aver concepito un'opera che prendesse
spunto da La voce umana proprio in virtù dell'incompiutezza
della fonte, del suo essere non-finita e, pertanto, in-finita.
Il film diviene così riflessione sul remake, sulla possibilità
e l'esigenza di "rifare" e sul suo significato. Ecco
allora che una creazione artistica non esaurisce la sua funzione,
ma continua ad esercitarla ad ogni rinnovato atto di fruizione,
inseminando altri autori in epoche diverse che, ciascuno con
l'apporto della propria arte e sensibilità, scriverà
un'altra pagina della sua storia, un nuovo possibile finale.
È esattamente questo il motivo per cui Velasquez ha permesso
a Bacon di rifarlo: un'affermazione del genere, all'interno
di un tale film, assume dunque la funzione di una dichiarazione
d'intenti, come la scena della proiezione delle diapositive
(con un montaggio di opere d'arte e della loro rielaborazione)
assurge a vero e proprio "manifesto" di poetica.
Se il pensiero di Maselli, su questo punto,
non potrebbe essere più esplicito, curiosamente però
non riesce ad innervare l'opera stessa: essa lo propone, certo,
ma non lo contiene, non lo introietta. Si accontenta di esprimerlo
attraverso la parola scritta o pronunciata, senza farne tuttavia
la propria spina dorsale, la propria cifra stilistica. Allora
il film finisce per cadere nello stesso malinteso di Emilio
e il regista, pur partendo dalla consapevolezza dell'errore
del Frenhofer di Rivette, ne ripete passo passo le tappe. Sceglie
infatti di appesantire la propria opera di un'esplicitazione
eccessiva, tanto verbale che concettuale, ricorrendo a piene
mani ad un simbolismo greve e troppo spesso facile: ad esempio
nel "freddo" continuamente evocato a parole e persino
"diegetizzato" a rappresentare la necrosi per assideramento
della sfera affettiva, oppure nell'inquadratura dedicata alla
copertina del Don Giovanni di Mozart proprio nel momento in
cui Emilio rivela il proposito di simulazione di stima nei confronti
del figlio, esaltando le proprie capacità "istrioniche",
oppure nella già citata scena con le diapositive. Con
un sottile masochismo è il film stesso a fornire le parole
(quelle conclusive di un'opera di Emilio) che possano definire
l'origine del proprio fallimento, suonando quasi come un epitaffio:
provare per le cose del tutto compiute noia e distacco. Così
l'autore condanna la propria creazione alla sterilità,
alla finitezza, all'oblio. Esattamente come alla castrazione
affettiva e ad una prigionia che comporta l'esclusione dal mondo
esterno (e dunque l'essere dimenticati) Emilio ha condannato
la sua donna-quadro. Come il Frenhofer di Rivette egli ha finito
per occultare la sua creazione: prima, mentre la dipingeva,
costringendola per tre anni nel suo atelier; poi, una volta
compreso il proprio fallimento, murandola viva (Anna, nonostante
progetti di riparare da un'amica e accenni a preparare i bagagli,
non abbandonerà più quell'appartamento).
Come il pittore di Balzac l'uomo è
arrivato alla decisione di distruggere la propria opera-storia
d'amore e, forse, di distruggersi. Egli non compare mai (neppure
con la sola presenza della voce), alcune sue lettere stabiliscono
un legame e un "dialogo" con persone defunte e probabilmente
non risulterebbe eccessivo interpretare l'intero film come la
visualizzazione della follia di Anna in seguito al suicidio
dell'amato. Una chiave di lettura, quella per cui assisteremmo
ad una realtà solo "immaginata" dalla donna,
rintracciabile già nei testi di Cocteau e Rossellini
e qui, come avvenuto per diversi altri elementi, portata all'estremo.
Già tutta una serie di piccoli particolari diegetici,
coerenti nel delineare un universo in cui la protagonista è
nondimeno l'unico personaggio, contribuivano a far sorgere più
di un dubbio in proposito: ad esempio nel caso in cui è
Anna a tracciare figure con un lapis mentre "dialoga"
con l'amato, compiendo un gesto che le donne di Cocteau e Rossellini
attribuivano a quest'ultimo. L'inquadratura finale, rivelando
come Anna abbia parlato per tutto il film in un telefono "muto"
e scollegato, possiede poi la forza dell'evidenza rivelatrice,
per una volta raggiunta correttamente attraverso l'immagine
a scapito della parola.
Anche l'ultimo velo posato da Cocteau cade. Il vento, spalancando
la finestra, ha invaso la stanza e ghiacciato tutte le particelle
gassose sprigionate dal testo letterario. Quelle serie interminate
di punti di sospensione ora ricadono pesantemente sul pavimento,
simili a minuscoli chicchi di grandine. Sul monitor di un computer,
sintomaticamente, essi subiscono l'ultima aggressione: Anna
congiunge quei punti, tradendo il codice privato di Cocteau.
Accede così ad una memoria intima, silenziosa e, proprio
come il film di Maselli nei confronti della sua fonte letteraria,
decide di svelarne i segreti.