Nel-finito, infinito: palingenesi di un amore. 
                  La voce umana/Codice privato
                di Marco Toscano
                
 
                La voce umana di Cocteau è 
                  un'opera incompiuta. Incompiuta nella scelta consapevole di 
                  uno stato malleabile, elastico, liquido o, addirittura, gassoso. 
                  Non-finita, in quanto fatta principalmente di voce, di aria. 
                  E non di parole precise e definitive, ma smozzicate, abortite, 
                  inghiottite proprio quando stavano per rivelarsi e rivelare. 
                  Frasi monche, sentimenti accennati, tentativi intuibili nei 
                  quali riconoscersi, senza però essere espliciti, mai 
                  chiaramente denunciati. Un materiale programmaticamente "sporco" 
                  come lo può essere una conversazione telefonica, per 
                  di più veicolata da una linea disturbata, da un segnale 
                  altalenante come le sensazioni, le reazioni e i destini in gioco. 
                  A chi appartengono, d'altronde, quelle voci? Quali sono i loro 
                  nomi, le loro storie? Ma, ancor prima che nell'argomento trattato 
                  e nella contingenza assunta per svolgerlo, il testo si dimostra 
                  appena sbozzato, michelangiolescamente, proprio nella forma. 
                  "Rispettare il testo in cui gli errori di lingua, le ripetizioni, 
                  le espressioni letterarie, le banalità sono frutto di 
                  un dosaggio meditato" ci tiene a precisare lo stesso Cocteau 
                  in chiusura delle indicazioni di messa in scena. Persino graficamente, 
                  quelle interminabili fila di punti di sospensione prendono l'aspetto 
                  di molecole, particelle gassose nell'atto di saturare il contenitore 
                  che le accoglie, facendone propria la figura. Tanto che si direbbe 
                  che siano esse a costituire il vero testo scritto da Cocteau. 
                  Gli intervalli e i silenzi. I vuoti della coscienza, della memoria. 
                  Non a caso la donna accenna a più riprese proprio ad 
                  un vuoto, al buio nel quale ricadrà (forse definitivamente) 
                  appena terminata quella conversazione. Dal marmo l'autore ha 
                  scelto di estrarre solo una parvenza, un'ombra. La sua opera 
                  continuerà pertanto a suggerire direzioni, emozioni diverse, 
                  differenti modi di riempire quelle pause sussurrate, quei moti 
                  soppressi, quei sogni tragicamente dimenticati.
                In ciò consiste dunque la grandezza 
                  de La voce umana: nell'elevare il vuoto di parola, l'assenza 
                  di segnale ad apertura vitale, a possibilità ininterrotta 
                  di palingenesi nel rinnovamento proposto da ogni inedita interpretazione. 
                  Non c'è dunque da stupirsi di fronte al proliferare di 
                  riletture tanto lontane di uno stesso testo, quali appunto quelle 
                  rappresentate dai film di Roberto Rossellini (L'Amore, 
                  episodio La voce umana, 1947) e Francesco Maselli (Codice 
                  privato, 1988). Diversi nel rapporto con la fonte letteraria 
                  come nel significato ultimo della rielaborazione che se ne opera. 
                
				 
           
                Il film di Rossellini è senz'altro 
                  quello che, nell'evidenza della messa in scena, si conferma 
                  maggiormente rispettoso del testo di Cocteau, dalla natura del 
                  quale risulta comunque "autorizzato" (se non obbligato) 
                  ad apportare delle modifiche rilevanti. Quella più evidente 
                  risiede nella concezione di uno spazio che, in entrambe le opere, 
                  si costruisce in modo multiplo: uno spazio "reale" 
                  (quello della camera da letto della donna), uno "virtuale" 
                  (quello della telefonata, anzi quello contenuto nell'apparecchio 
                  telefonico), uno "immaginario" (quello della memoria 
                  e del sogno), nonché uno "proiezionale" o "scopico" 
                  (quello ipotizzato - della casa prima, del ristorante poi - 
                  nel quale la donna vede muoversi l'uomo, al punto da provare 
                  a descriverlo). Gli ultimi due non presentano sostanziali novità, 
                  ma hanno il pregio di introdurre la dicotomia fondamentale su 
                  cui si articola l'intera costruzione dello spazio nel testo: 
                  chiusura/apertura, inaccessibilità/violabilità, 
                  preservamento/modificabilità. La protagonista, infatti, 
                  tenta pateticamente di proteggere quello dei propri ricordi 
                  (con la richiesta fatta all'uomo di non alloggiare, una volta 
                  a Marsiglia con la donna che l'ha sostituita, nel loro stesso 
                  albergo), ma assiste al crollo dello spazio della propria proiezione 
                  scopica, smascherando la menzogna dell'uomo che credeva a casa 
                  e che invece è al ristorante e operando poi in prima 
                  persona l'annientamento di quello onirico (il "taglia" 
                  finale che, evidentemente, riprende il sogno riferito ad un 
                  "tubo di scafandro" che pregava l'uomo di non recidere).
                Proseguendo su tale ipotesi, il discorso 
                  sui restanti si rivela ancora più complesso. A proposito 
                  dello spazio reale della camera da letto, per cominciare, si 
                  nota come quell'assoluta impermeabilità e chiusura delineata 
                  all'interno del testo scritto sia smentita dalle pulsioni tanto 
                  centrifughe quanto centripete che Rossellini immette nel film. 
                  Se Cocteau predisponeva una stanza da bagno "illuminatissima", 
                  la cui porta fosse semiaperta, ma mai varcata, la protagonista 
                  de L'Amore accede ripetutamente all'ambiente suddetto. 
                  La prima volta che ci appare si trova appunto in bagno, e non 
                  in camera, emblematicamente riflessa in uno dei tanti specchi 
                  di cui Rossellini riempie gli ambienti, quasi a suggerire che 
                  ella è ridotta ormai solo all'ombra di sé stessa, 
                  e che quello a cui stiamo per assistere è, prima di tutto, 
                  un bilancio esistenziale. La donna, più tardi, esce addirittura 
                  dalla camera per dirigersi verso la porta d'ingresso, in quella 
                  che costituisce un'intera scena doppiamente estranea al testo 
                  di Cocteau (in senso diegetico e più strettamente spaziale). 
                  Ipotizza, dopo aver oltrepassato la linea invalicabile di confine 
                  tra il primo e il secondo, un terzo ambiente del tutto inedito 
                  e si spinge ad immaginare l'illusione di un ultimo incontro 
                  tra i due amanti, minacciando una compresenza fisica - al posto 
                  di quella simulacrale offerta dal telefono - irrealizzabile 
                  perché inconciliabile con quel destino di prigionia mentale 
                  e reclusione ambientale che costituisce il senso stesso dell'opera. 
                
				 
                
                In questo preciso istante il tentativo 
                  di fuga della protagonista (dalla stanza, come da una condizione 
                  esistenziale) coincide con l'attesa di un'irruzione, di un evento 
                  che scardini quella solitudine. Essa, tuttavia, non può 
                  essere scalfita ed anzi gli altri elementi centripeti in gioco 
                  (i rumori provenienti dalla strada e dagli appartamenti vicini) 
                  non fanno che accentuarla, costituendo comunque una novità, 
                  data la completa insonorizzazione garantita da Cocteau alla 
                  camera della donna. Se dunque lo spazio fisico - nel testo letterario 
                  ermeticamente sigillato - è ripetutamente violato, in 
                  un senso e nell'altro (ed è da notare come non lo sia 
                  solo "a uscire" ed "a entrare", ma anche 
                  "a stare", data la presenza nella stanza del cane, 
                  che dal testo ne viene tenuto fuori) la stessa scelta viene 
                  compiuta per quanto riguarda quello immateriale della telefonata. 
                  Ma esso, all'interno dell'atto unico, era vulnerabile, aggredito 
                  da agenti esterni, pervaso da "rumore" comunicazionale 
                  (vale a dire condizionato da un segnale intermittente e da continue 
                  interferenze) e aperto ad interlocutori estranei (la signora, 
                  la centralinista). Contraddirlo si traduce dunque, per il film, 
                  nel garantirlo, nello sprangarlo, cosicché, nonostante 
                  il permanere di sopportabili disturbi, scompare la violenza 
                  perpetrata dall'indolenza della centralinista e dal cinismo 
                  della signora di Cocteau.
                Ad un'organizzazione spaziale sottilmente 
                  diversa, Rossellini abbina poi un senso del tempo inedito, almeno 
                  in un punto. Se il racconto di Cocteau si basava su una precisa 
                  continuità temporale (quasi in piano-sequenza), nel film 
                  il brusco interrompersi della comunicazione e l'ossessiva preghiera 
                  della donna affinché l'amante richiami sono legate da 
                  una dissolvenza incrociata (che di per sé, nell'essere 
                  particolare elemento di montaggio, indica il trascorrere di 
                  un intervallo di tempo superiore ad un normale stacco). Non 
                  è un caso forse che sia proprio questa clamorosa infrazione 
                  "sintattica" al testo ad introdurre la speranza dell'arrivo 
                  dell'uomo, con l'uscita dalla stanza (infrazione "grammaticale", 
                  logica e diegetica), tracciando il punto più lontano 
                  dalla volontà di Cocteau. Tali soluzioni, d'altronde, 
                  non possono che rimandare a tutto il cinema di Rossellini, la 
                  cui poetica è da sempre fondata sulla frammentazione 
                  strutturale (espressa pienamente in un film come Paisà), 
                  sull'attimo pregnante e decisivo (ad esempio Germania anno 
                  zero) e pertanto sulla rottura di una linearità tanto 
                  spaziale che temporale.
				   
                
 
                Le differenze tra il testo di Cocteau e 
                  la rilettura del regista, però, non si esauriscono qui. 
                  Un nuovo dato, sconvolgente nella sua audacia, risulta subito 
                  evidente: se nell'atto unico ci venivano proposte solo le battute 
                  della donna, il film rende conto anche dell'altra metà 
                  della conversazione, facendoci udire - seppur a tratti, e molto 
                  sommessamente - la voce dell'uomo. La telefonata-monologo immaginata 
                  da Cocteau si traduce, evidentemente, in un dialogo. Ciò, 
                  tuttavia, non impedisce di serbare un sospetto, un dubbio atroce: 
                  quello per cui tutta la conversazione sia il frutto della condizione 
                  di instabilità psichica in cui la donna sarebbe caduta 
                  dopo essere stata abbandonata. Un'interpretazione legittima 
                  nel caso del testo letterario, in cui non le viene mai concesso 
                  un referente (e d'altronde, se Cocteau parla di una "camera 
                  da delitto" è plausibile attendersi che l'assassino 
                  si sia dileguato senza lasciare traccia), che nondimeno può 
                  assorbire l'elemento introdotto dal film: la voce che sentiamo 
                  potrebbe essere, come tutto il resto - rumori compresi -, un 
                  prodotto della disperata follia della donna.
                Nella trasposizione rosselliniana risulta 
                  poi, per gran parte, sacrificata tutta la riflessione operata 
                  dal testo riguardo all'oggetto telefono, inteso tanto nella 
                  sua materialità quanto nella sua funzionalità. 
                  A quest'ultimo proposito le considerazioni non sono univoche: 
                  il telefono è vissuto come mezzo di comunione miracolosa 
                  ed effimera (anche nella metafora onirica del "tubo di 
                  scafandro"), e più spesso di separazione improvvisa 
                  ed irrazionale, strumento diabolico nelle mani di una divinità 
                  malefica e dispettosa: "Si ha l'illusione di essere uno 
                  contro l'altro, e di colpo ti mettono in mezzo cantine, fogne, 
                  un'intera città". Analisi mossa dalla consapevolezza 
                  di quanto profondamente il telefono abbia modificato i rapporti 
                  umani, le dinamiche sociali e affettive nel loro relazionarsi. 
                  "In passato ci si vedeva. Un'occhiata poteva capovolgere 
                  tutto. Ma con questo apparecchio, quel che è finito è 
                  finito". La parte di tale discorso - il quale percorre 
                  il testo scritto per tutta la sua lunghezza - che il film sceglie 
                  di mettere in campo si riferisce esclusivamente alla dimensione 
                  fisica dell'apparecchio telefonico, mentre ne omette l'apparato 
                  simbolico. Esso viene concepito come qualcosa da accarezzare 
                  e stringendo il quale addirittura addormentarsi, nonché 
                  come un'arma da rivolgere contro sé stessi (già 
                  rivolta naturalmente contro gli amanti battuti), in quel filo 
                  da attorcigliare intorno al collo. Da reinventare come cappio 
                  o come braccia dell'assente che, lasciandoci soli, ci stringe 
                  in un ultimo gesto d'amore, in una stretta troppo forte.
                Il regista non è il solo artefice 
                  di un film. L'importanza dell'apporto garantito dalle altre 
                  professionalità al lavoro da lui gestite e coordinate 
                  risulta immediatamente evidente, ad esempio, nella prestazione 
                  attoriale. Così quello che per alcuni (Stroheim, o Kubrick, 
                  tanto per fare due nomi) è solo un corpo da plasmare 
                  alla propria idea di messa in scena, diventa spesso vero e proprio 
                  co-autore. In un film come L'Amore, imperniato pressoché 
                  totalmente sulla prova attoriale (con il protagonista in scena 
                  per tutta la durata dell'opera), questa considerazione risulta 
                  superflua. Se poi colei a cui spetta incarico così gravoso 
                  è Anna Magnani, diviene inevitabile soffermarsi su come 
                  l'attrice abbia lavorato sul testo, in che modo l'abbia arricchito. 
                  Rispetto alla donna di Cocteau, effettivamente, pare che la 
                  Magnani, coerentemente con quelle che sono le sue "corde" 
                  recitative, abbia infuso al suo personaggio una carica di aggressività 
                  inedita, nella rabbiosa interpretazione data ad alcuni passaggi. 
                  In tal modo ella ha reso più esplicita quella similitudine 
                  donna-cane tracciata da Cocteau nel suo atto unico: la cagna 
                  ospitata nell'appartamento della protagonista cerca il suo padrone 
                  esattamente come la donna, e come l'animale anche quest'ultima 
                  (nell'interpretazione della Magnani) ringhia a chi gli si avvicina, 
                  scoprendo i denti, e tutto il suo inestinguibile dolore. Nonostante 
                  l'attrice tenti di restituire l'alternanza delineata nel testo 
                  tra un'incondizionata sottomissione e fugaci parvenze di dignità, 
                  tuttavia sembra conferire maggiore vividezza a queste ultime. 
                  Ad esempio non accompagnando (come avviene nel testo) la sofferenza 
                  morale e sentimentale ad una fisica, determinata dal tentativo 
                  di suicidio dei giorni addietro. Il "non ti voglio più 
                  vedere" finale, poi, pur non potendo certo ascriversi ad 
                  un imprevisto e rancoroso rifiuto, è sintomatico nel 
                  rivelare una ben più disperata ricerca di un ruolo in 
                  qualche modo "attivo" nella conclusione di una storia 
                  d'amore, cosicché la donna di Rossellini non si preclude 
                  del tutto una possibilità (una soltanto, in ogni caso) 
                  di rialzare la testa. Quella di Cocteau, al contrario, terminava 
                  il suo atto "in una camera piena di sangue", in una 
                  camera da delitto, vittima di un vero e proprio ghigliottinamento 
                  (suicidio?) ad opera della lama-ricevitore che rotola a terra.
				   
                
 
                La voce umana, l'atto unico di Cocteau. 
                  Si tratterebbe di opera incompiuta, si diceva all'inizio. A 
                  sollevare questa tesi e a fornirla come materia di riflessione 
                  è Francesco Maselli con il suo Codice privato. 
                  Senza però farne tesoro, senza darne concreta applicazione. 
                  La natura della trasposizione di Maselli si rivela immediatamente, 
                  nelle pieghe dei titoli di testa. Quando compare solo un "dedicato 
                  a Jean Cocteau", senza che ci sia il minimo cenno a La 
                  voce umana, comprendiamo come la sostanziale fedeltà 
                  della versione rosselliniana sia destinata a lasciare il posto 
                  a qualcosa di decisamente meno vincolato, meno riconoscibile. 
                  O, all'opposto, meno libero. Il sospetto trova subitanea conferma 
                  in un dato del tutto nuovo: l'uomo e la donna hanno un nome 
                  (Emilio e Anna, forse in omaggio alla Magnani?), una professione, 
                  un'identità e una storia precise. Basta questo a far 
                  evaporare la nebbia che avvolgeva di fascino il testo di Cocteau, 
                  favorendo l'indeterminatezza dei contorni e garantendone una 
                  possibilità universale. Il film di Maselli procede per 
                  accumulo di infrazioni e differenze. L'ambiente in cui si muove 
                  la protagonista, già ampliato da Rossellini, risulta 
                  qui enormemente dilatato, esteso ad un intero, gigantesco superattico 
                  che ella percorre solitaria. La condizione di solitudine e prigionia 
                  di Anna non è però sottolineata soltanto per iperbole, 
                  ma anche per metafora, dato lo scatenarsi anti-naturalistico 
                  - nel sonoro "eccessivo" dei tuoni e nei vetri delle 
                  finestre che sembrano rimanere asciutti - degli elementi, con 
                  vento impetuoso e pioggia scrosciante.
                Freddo. Parola che ritorna di continuo 
                  (nelle lettere, nel libro, nel parlare a sé stessa della 
                  donna) per spiegare che l'ostilità dell'ambiente esterno 
                  ricalca, riproduce quella che gela l'interno dell'appartamento 
                  e il mondo affettivo dei personaggi. La scelta di mettere in 
                  scena una vera e propria apocalisse naturale, che sia sostegno 
                  visibile e trasposizione universale di quella personale della 
                  protagonista, implica due considerazioni. Comincia, da un lato, 
                  a delinearsi la tendenza all'esplicitazione e al ricorso greve 
                  a tutto un armamentario di simboli che costituirà il 
                  motivo principale del fallimento del film; Dall'altro, rappresenta 
                  una decisa diversità dal modello rosselliniano, che usava 
                  l'ambiente esterno "reale" (negato da Cocteau) a sottolineatura 
                  della solitudine della donna non per similitudine, ma per contrasto 
                  (le risate e i suoni soffocati di una musica che penetravano 
                  le pareti della camera). Nel mezzo di una tempesta che sembra 
                  in realtà solo sognata, l'abitazione di Anna sembra affrontare 
                  un nuovo diluvio, solcando le acque come un'arca sulla quale, 
                  non a caso, la donna-Noè ha portato in salvo una tartaruga 
                  in procinto di affogare per le piogge. L'animale rimanda alla 
                  scatola di tartaruga del testo dentro la quale la protagonista 
                  chiede siano serbate le ceneri delle proprie lettere, cioè 
                  i propri ricordi. La tartaruga sostituisce il cane di Cocteau 
                  e di Rossellini nel rappresentare il tramite simbolico (quello 
                  fisico lo può costituire solo il telefono) con la persona 
                  amata e il suo ossessionante ricordo. Ma al contrario di quelle 
                  donne che chiedevano di liberarsene (pregando l'uomo di riprendersi 
                  l'animale), Anna porta dentro il proprio passato, decide di 
                  barricarvisi, destinando la tartaruga ad una possibilità 
                  di salvezza o condannandola (e condannandosi) ad una morte lenta, 
                  più atroce, su un'arca persa da qualche parte dove non 
                  c'è più cibo (Anna, all'inizio del film, ne prova 
                  repulsione, fino ad accusare un malore, al solo vederlo), né 
                  acqua, né pace.
                La donna-cane, perciò, quella sottomessa 
                  e rabbiosa, diventa donna-tartaruga, vale a dire una creatura 
                  testarda, fragile e coriacea al tempo stesso, sanguinante eppure 
                  determinata ad andare avanti nella propria ricerca della verità, 
                  per quanto dolorosa essa possa rivelarsi. Una creatura che, 
                  d'altronde, coincide con il proprio ambiente di vita, esattamente 
                  come la protagonista si identifica con (nel) lo spazio che occupa. 
                  E cosa rimane, fuori dall'arca? Tutti gli altri, i peccatori, 
                  coloro che, nella mente di Anna, sono stati complici della congiura 
                  che l'ha assassinata. Compresi gli amici, compresa la propria 
                  stessa madre.
                  
                  Dal punto di vista spaziale, al di là delle dimensioni 
                  maggiorate dell'appartamento, vi sono altre importanti differenze. 
                  La prima è rappresentata dal fatto che, con l'introduzione 
                  del computer, gli spazi da quattro diventano cinque. Ciò 
                  non aggiunge nulla in relazione al discorso fatto a proposito 
                  della dicotomia attraverso la quale essi si snodano: anche lo 
                  spazio "digitale" (e ancor più palesemente, 
                  tanto che la cosa acquista valore narrativo) è territorio 
                  protetto da violare e al quale accedere contro una volontà, 
                  aggirando una disposizione ben precisa (il "codice privato" 
                  del titolo). La seconda riguarda invece lo spazio "reale", 
                  che coincide ormai con quello dell'intera casa (e non più 
                  di una singola stanza). Se in Rossellini la pulsione centripeta 
                  era oggetto di desiderio da parte della protagonista, qui diviene 
                  fonte di terrore (quando bussano alla porta). L'ambiente continua 
                  però a rimanere inaccessibile a chiunque all'infuori 
                  della donna, nel rispetto dell'invincibilità della sua 
                  prigionia. La differenza più rilevante interessa invece 
                  lo spazio "telefonico". Se in Rossellini si accentuava 
                  l'esclusività di tale dimensione (riservata, con l'eccezione 
                  del breve dialogo con Giuseppe, ai due amanti), in un film dove, 
                  come abbiamo visto con il caso del computer, la violazione assume 
                  il predominio sulla difesa, gli interlocutori si moltiplicano, 
                  si intrufolano. Mentre ormai la presenza anche solo "virtuale" 
                  dell'amato svanisce. La voce desiderata si fa troppo silenziosa, 
                  sostituita dagli scritti dell'uomo come il telefono lascia al 
                  computer il ruolo di tramite ineffabile tra i due amanti. Ma 
                  se il primo, parafrasando McLuhan, costituiva un canale "caldo", 
                  il secondo è invece "freddo" e, adottandolo, 
                  Maselli non fa che estremizzare consapevolmente tutto il discorso 
                  riferito al telefono. Uno strumento, il computer, che, una volta 
                  permesso l'accesso, garantisce assenza di "rumore" 
                  e di voci estranee, dimostrandosi però in grado di stabilire 
                  un contatto esclusivamente indiretto: sia da un punto di vista 
                  spaziale, proprio come il telefono, sia da uno temporale, laddove 
                  il telefono garantiva quanto meno la compresenza, intesa come 
                  presenza comune.
				  
 
                Dal punto di vista del tempo della narrazione, 
                  Maselli, al contrario di Rossellini, sceglie di attenersi a 
                  quella continuità predisposta da Cocteau. Tale intenzionalità 
                  si rivela nello sforzo di una messa in scena che assume il piano-sequenza 
                  come propria cifra stilistica, anche se esso, a causa di evidenti 
                  limiti tecnici, è spesso solo simulato: lo stacco, infatti, 
                  arriva frequentemente nel momento in cui il movimento della 
                  mdp ci porta dietro una delle tante colonne che scandiscono 
                  lo spazio dell'abitazione, oppure a ridosso di una sfocatura 
                  su di un dettaglio (come nel caso del cuscino). Tali escamotages, 
                  spesso talmente smaccati da suggerire una sensazione di fastidio, 
                  permettono al film di esibire una messa in scena (fintamente) 
                  mobilissima, ricorrendo a quelli che appaiono come dei complicati 
                  movimenti di macchina in continuità (carrelli orizzontali 
                  combinati con dolly ascendenti o discendenti, per esempio) che 
                  altro non sono se non la messa in serie di due movimenti distinti. 
                  Tuttavia il senso del tempo di Cocteau è così 
                  rispettato e Maselli si può permettere un interessante 
                  lavoro sull'inquadratura del corpo attoriale, che risulta in 
                  fin dei conti funzionale al senso dell'opera: Ornella Muti (che 
                  interpreta Anna) viene costantemente seguita dalla mdp nel suo 
                  ininterrotto vagare per la casa, il cui spazio si svolge anche 
                  in altezza (organizzato su più piani) e verso l'esterno 
                  (aprendosi a delle terrazze). Non è però infrequente 
                  che la mdp, durante uno di questi spostamenti, abbandoni la 
                  donna per esplorare lo spazio vuoto e ritrovarla poi nella continuità 
                  del movimento. 
                La differenza fondamentale che separa il 
                  film di Maselli dai suoi illustri precedenti risiede, però, 
                  proprio nel personaggio di Anna. Donna profondamente diversa 
                  da quelle "disegnate" da Cocteau e Rossellini, come 
                  diversa è la situazione che si trova ad affrontare. Ella 
                  non era preparata al diluvio, non aveva il minimo sentore del 
                  disastro. Se le altre, pur in preda alla disperazione e al panico, 
                  avevano avuto quanto meno il tempo di comprendere i motivi della 
                  sconfitta, e di tracciarne il bilancio, lei è stata colta 
                  dal destino alle spalle. La sua è la posizione più 
                  difficile, per due motivi: perché non poteva prevederla 
                  e perché, diversamente dai testi di Cocteau e Rossellini, 
                  qui non ci troviamo già "a distanza" dal naufragio, 
                  ma siamo nel mezzo della bufera, stiamo lottando per respirare. 
                  In effetti, oltre a prepararsi gradualmente all'accettazione 
                  dell'idea di una vita senza l'amato, coloro che l'hanno preceduta 
                  vivono tale situazione quantomeno da qualche giorno (il fondo 
                  è già stato toccato, col tentativo di suicidio, 
                  ed esse dicono "non ci si suicida due volte"). Per 
                  Anna, invece, è il primo giorno di una vita senz'aria. 
                  Così si spiega quell'aggrapparsi ad ogni vaga speranza, 
                  quel triste tentativo di riparare nell'illusione (di un presunto 
                  malinteso, di una fantomatica gelosia) estraneo alle altre protagoniste, 
                  che anzi rifuggono da ogni speranza, da quell'unguento che farebbe 
                  solo più male, infettando la ferita e impedendole di 
                  cicatrizzarsi il più in fretta possibile. Se le donne 
                  precedenti sono già pienamente entrate nella fase dell'accettazione 
                  passiva, lei intraprende solo ora il proprio percorso di autocoscienza, 
                  transitando dalla simulazione (masturbazione) alla menzogna 
                  (ridendo della futilità dei motivi della separazione), 
                  dalla lucida consapevolezza (razionalizzando il proprio tentativo 
                  di auto-ingannarsi) ad una rabbia rancorosa ("se ne accorgerà") 
                  e persino vendicativa (la telefonata a Michele) che è 
                  del tutto estranea alle donne di Cocteau e Rossellini.
                  
                  Profondamente diversa poi è quella motivazione di cui 
                  Anna in principio non dispone (quella che porta alla fine della 
                  sua storia d'amore) rispetto a quelle in possesso delle altre 
                  due protagoniste. Per Cocteau l'amore trova la sua nemesi sostanzialmente 
                  in un deficit di bellezza da parte della donna, con conseguente 
                  estinguersi dell'attrazione fisica nei suoi confronti: l'uomo 
                  la sostituisce infatti con una ragazza apparsa su una rivista 
                  di moda (quindi, presumibilmente, più attraente di colei 
                  che chiamava "brutto musetto"). Rossellini prosegue 
                  su questa strada, esplicitando però la differenza di 
                  status economico tra i due amanti (sappiamo che lui ha il servitore, 
                  mentre l'appartamento della donna denota un certo squallore). 
                  Maselli, al contrario, esclude di fatto questi due fattori: 
                  Anna è bellissima e, pur avendo origini popolane, vive 
                  ormai stabilmente nell'abitazione dell'uomo (e scopriamo per 
                  giunta che le è intestata una somma ragguardevole di 
                  denaro). Il deficit da parte della donna non è più 
                  sensuale o economico, ma prettamente culturale (essendo lui 
                  un intellettuale di fama e avendo lei concluso appena le scuole 
                  dell'obbligo). Eppure la radice della novità è 
                  altrove. Stavolta non è affatto la differenza ad allontanare, 
                  bensì l'appianamento, la scomparsa della differenza. 
                  La decisione di Emilio deriva dalla consapevolezza - maturata 
                  guardando un'intervista di Anna in televisione - di come ormai 
                  la donna abbia raggiunto una propria indipendenza culturale, 
                  quindi di come il suo lavoro, in un certo senso, sia terminato.
                  
		

		        
                  Anna, oltre a rappresentare una figura decisamente più 
                  sensuale rispetto alle altre donne, trova la più profonda 
                  natura della sua storia nell'essere accostata ad un quadro. 
                  È grazie ad un suo ritratto, d'altronde, che l'uomo l'ha 
                  conosciuta e se ne è invaghito. E lei, nei tre anni successivi, 
                  non ha smesso neppure per un attimo di essere quel dipinto. 
                  Emilio, da parte sua, ha continuato per tre anni a lavorare 
                  su quel quadro, a plasmarlo e perfezionarlo, non rendendosi 
                  conto tuttavia di aver infranto il limite imposto dalla natura 
                  e dall'arte stessa, cosicché la sua opera (per quanto, 
                  curiosamente, egli l'abbandoni attribuendole "vita propria") 
                  è nata morta, senza la possibilità di migliorare, 
                  di adattarsi a quello scorrere del tempo che impone il divenire 
                  delle cose. 
 
                Tali considerazioni costituiscono l'idea 
                  di fondo da cui scaturisce l'intera operazione compiuta dal 
                  film nei confronti del testo cocteauiano, la ragione stessa 
                  che ne giustifica la necessità. Maselli (come aveva fatto 
                  Rossellini) può aver concepito un'opera che prendesse 
                  spunto da La voce umana proprio in virtù dell'incompiutezza 
                  della fonte, del suo essere non-finita e, pertanto, in-finita. 
                  Il film diviene così riflessione sul remake, sulla possibilità 
                  e l'esigenza di "rifare" e sul suo significato. Ecco 
                  allora che una creazione artistica non esaurisce la sua funzione, 
                  ma continua ad esercitarla ad ogni rinnovato atto di fruizione, 
                  inseminando altri autori in epoche diverse che, ciascuno con 
                  l'apporto della propria arte e sensibilità, scriverà 
                  un'altra pagina della sua storia, un nuovo possibile finale. 
                  È esattamente questo il motivo per cui Velasquez ha permesso 
                  a Bacon di rifarlo: un'affermazione del genere, all'interno 
                  di un tale film, assume dunque la funzione di una dichiarazione 
                  d'intenti, come la scena della proiezione delle diapositive 
                  (con un montaggio di opere d'arte e della loro rielaborazione) 
                  assurge a vero e proprio "manifesto" di poetica.
                Se il pensiero di Maselli, su questo punto, 
                  non potrebbe essere più esplicito, curiosamente però 
                  non riesce ad innervare l'opera stessa: essa lo propone, certo, 
                  ma non lo contiene, non lo introietta. Si accontenta di esprimerlo 
                  attraverso la parola scritta o pronunciata, senza farne tuttavia 
                  la propria spina dorsale, la propria cifra stilistica. Allora 
                  il film finisce per cadere nello stesso malinteso di Emilio 
                  e il regista, pur partendo dalla consapevolezza dell'errore 
                  del Frenhofer di Rivette, ne ripete passo passo le tappe. Sceglie 
                  infatti di appesantire la propria opera di un'esplicitazione 
                  eccessiva, tanto verbale che concettuale, ricorrendo a piene 
                  mani ad un simbolismo greve e troppo spesso facile: ad esempio 
                  nel "freddo" continuamente evocato a parole e persino 
                  "diegetizzato" a rappresentare la necrosi per assideramento 
                  della sfera affettiva, oppure nell'inquadratura dedicata alla 
                  copertina del Don Giovanni di Mozart proprio nel momento in 
                  cui Emilio rivela il proposito di simulazione di stima nei confronti 
                  del figlio, esaltando le proprie capacità "istrioniche", 
                  oppure nella già citata scena con le diapositive. Con 
                  un sottile masochismo è il film stesso a fornire le parole 
                  (quelle conclusive di un'opera di Emilio) che possano definire 
                  l'origine del proprio fallimento, suonando quasi come un epitaffio: 
                  provare per le cose del tutto compiute noia e distacco. Così 
                  l'autore condanna la propria creazione alla sterilità, 
                  alla finitezza, all'oblio. Esattamente come alla castrazione 
                  affettiva e ad una prigionia che comporta l'esclusione dal mondo 
                  esterno (e dunque l'essere dimenticati) Emilio ha condannato 
                  la sua donna-quadro. Come il Frenhofer di Rivette egli ha finito 
                  per occultare la sua creazione: prima, mentre la dipingeva, 
                  costringendola per tre anni nel suo atelier; poi, una volta 
                  compreso il proprio fallimento, murandola viva (Anna, nonostante 
                  progetti di riparare da un'amica e accenni a preparare i bagagli, 
                  non abbandonerà più quell'appartamento). 
                Come il pittore di Balzac l'uomo è 
                  arrivato alla decisione di distruggere la propria opera-storia 
                  d'amore e, forse, di distruggersi. Egli non compare mai (neppure 
                  con la sola presenza della voce), alcune sue lettere stabiliscono 
                  un legame e un "dialogo" con persone defunte e probabilmente 
                  non risulterebbe eccessivo interpretare l'intero film come la 
                  visualizzazione della follia di Anna in seguito al suicidio 
                  dell'amato. Una chiave di lettura, quella per cui assisteremmo 
                  ad una realtà solo "immaginata" dalla donna, 
                  rintracciabile già nei testi di Cocteau e Rossellini 
                  e qui, come avvenuto per diversi altri elementi, portata all'estremo. 
                  Già tutta una serie di piccoli particolari diegetici, 
                  coerenti nel delineare un universo in cui la protagonista è 
                  nondimeno l'unico personaggio, contribuivano a far sorgere più 
                  di un dubbio in proposito: ad esempio nel caso in cui è 
                  Anna a tracciare figure con un lapis mentre "dialoga" 
                  con l'amato, compiendo un gesto che le donne di Cocteau e Rossellini 
                  attribuivano a quest'ultimo. L'inquadratura finale, rivelando 
                  come Anna abbia parlato per tutto il film in un telefono "muto" 
                  e scollegato, possiede poi la forza dell'evidenza rivelatrice, 
                  per una volta raggiunta correttamente attraverso l'immagine 
                  a scapito della parola.
                  
                  Anche l'ultimo velo posato da Cocteau cade. Il vento, spalancando 
                  la finestra, ha invaso la stanza e ghiacciato tutte le particelle 
                  gassose sprigionate dal testo letterario. Quelle serie interminate 
                  di punti di sospensione ora ricadono pesantemente sul pavimento, 
                  simili a minuscoli chicchi di grandine. Sul monitor di un computer, 
                  sintomaticamente, essi subiscono l'ultima aggressione: Anna 
                  congiunge quei punti, tradendo il codice privato di Cocteau. 
                  Accede così ad una memoria intima, silenziosa e, proprio 
                  come il film di Maselli nei confronti della sua fonte letteraria, 
                  decide di svelarne i segreti.