Il muto mistero della borghesia: presentazione dei personaggi di Teorema
di Caterina Tonon
Teorema nacque in due forme artistiche differenti: quella filmica, portata a termine nel 1968, e quella letteraria, scritta contemporaneamente alla sceneggiatura del film e pubblicata l'anno successivo, diretta emanazione di una tragedia in versi del '66 mai ultimata. Sebbene Pasolini abbia sottolineato più volte la distanza fra i testi, evoluzione di un medesimo soggetto affrontato in due modi paralleli ma perfettamente autonomi, la forma finale cinematografica conserva "echi stilistici e tematici delle altre forme poetiche, teatrali, narrative che ha via via assunto" (1): il film dialoga costantemente con il libro – più trattamento cinematografico che romanzo - traducendone in immagini il soggetto.
Il testo, "ipotesi che si dimostra matematicamente per absurdum" (2), s'interroga sulle possibili conseguenze dell'incontro fra l'individuo borghese e la dimensione del Sacro, "zona superindividuale del tutto estranea alla Ragione Dominante" (3). Il teorema pasoliniano, arricchito da dati e corollari, si sviluppa attraverso un linguaggio matematico che si basa su nessi logici e non cronologici: il tempo è indefinito, le azioni sono caratterizzate dalla contemporaneità e sfociano conseguentemente in una dimensione simbolica.
Il racconto alterna un'istanza informativa (che raggiunge il suo culmine nell'inchiesta giornalistica) ad un'istanza letteraria; la prima prevale sulla seconda, ma non si limita ad essere mero documentarismo: anche gli aspetti apparentemente più descrittivi rimandano ad un altrove e risultano funzionali alla dimostrazione della tesi dell'autore. Pasolini nel testo letterario avverte che il lettore non si trova in presenza di un racconto, bensì di un referto; tale natura trova conferma nei primi capitoli della Parte Prima, che l'autore intitola Dati. Nell'opera filmica questa sezione corrisponde al segmento in bianco e nero che si apre (a 4'03" dall'inizio) con le immagini mute e statiche della fabbrica del capofamiglia, interpretato da Massimo Girotti, e passa in rassegna tutti i componenti del nucleo familiare, per concludersi con il dettaglio del telegramma che annuncia l'arrivo del Visitatore.
Questo lavoro si propone di analizzare la tensione di tali dati a trascendere la loro prima e immediata natura informativa e di scoprire in essi il rimando ad una realtà paradigmatica, unico presupposto per garantire l'universalità del teorema.
Come scrive Mino Argentieri, "Teorema non è un racconto, non è narrazione, ma attiene ai moduli della parabola: vuole dimostrare, scivolando su un arco lineare ma conservando all'assunto e ai palpiti lirici una tensione polivalente" (4). Il termine parabola, utilizzato nel testo dallo stesso Pasolini, deriva dal greco parabolé (avvicinamento, giustapposizione, paragone): esso identifica un discorso sottoforma di racconto che, fondandosi sul valore archetipico dell'allegoria, ha lo scopo di stabilire paralleli ed esempi a fine morale e non si limita a far comprendere, ma chiama all'azione e alla decisione, a far cambiare giudizi e comportamenti. Un'analisi di Teorema non può pertanto prescindere dalla connotazione esemplare e paradigmatica di mito d'oggi che Pasolini ha conferito a personaggi e fatti presenti nell'opera. Il discorso risulta profondamente influenzato dalla scelta del registro: ci troviamo nell'ambito del simbolo, "dove ogni azione è allusiva e fatale, come in un rito" (5). L'adozione del registro mitologico implica che ogni scelta stilistica sia significante, in una fusione perfetta di forma e contenuto, per cui la tensione sacra e il ritmo della ritualità divengono funzionali all'immagine. Partendo da questo presupposto, è difficile inserire l'opera filmica nei parametri tradizionali di racconto inteso come mera storia caratterizzata da "causalità, tempo e spazio" (6).
Per quanto riguarda la logica della narrazione, il segmento qui analizzato non agisce sul piano della narratività: secondo la distinzione effettuata da Barthes fra "le funzioni, che rinviano a un fare e hanno il compito di far avanzare la storia, e gli indizi, che, al contrario, rinviano ad uno stato e servono ad arricchire il racconto" (7), l'unità narrativa presa in esame è un agglomerato di indizi, di esistenti. Si tratta del caso che Francesco Casetti e Federico Di Chio definiscono regime della narrazione debole: l'ipertrofia degli esistenti rispetto agli eventi "porta la situazione ad assumere un volto in qualche modo opaco: i personaggi, senza un'azione che ne esprime le reazioni, e gli ambienti, senza un'azione che reagisce ad essi, diventano enigmatici, perdono di consistenza" (8). Pasolini denomina questa porzione di racconto Dati in quanto presenta elementi che caratterizzano una determinata situazione e che saranno utili alla dimostrazione della tesi assunta. Ci troviamo ancora nella fase preliminare della dimostrazione del teorema: lo spettatore è guidato nella scoperta di coloro che saranno i protagonisti della vicenda, presentati nelle loro caratteristiche più universali. Nel testo letterario, l'autore sottolinea più volte che "non si tratta in nessun modo di persone eccezionali, ma di persone più o meno medie" (9).
Relativamente alla dimensione dello spazio filmico, Pasolini sceglie di svincolare il racconto da qualsiasi connotazione spaziale: i personaggi sono calati nella realtà milanese, ma essa è soltanto intravista, abbozzata, suggerita. Lo spazio è frammentato e l'istanza narrante non consente allo spettatore di ricostruire e dare un significato complessivo all'ambiente rappresentato. Tutto è ridotto all'essenziale: la macchina da presa fissa mostra in campo lungo una fabbrica, un liceo, un'altra scuola e una villa. Queste immagini precedono la presentazione del personaggio a cui si riferiscono, ne divengono il simbolo, come se l'ambiente sociale in cui le persone sono inserite fosse la loro caratteristica dominante, sicuramente la prima ad emergere. Uno spazio, quindi, che non svolge una funzione passiva di "contenitore" né una funzione narrativamente attiva, ma diviene caratteristica psicologica dei personaggi. Le porzioni di spazio incluse nelle inquadrature che compongono il segmento rimandano ad un fuori campo dalle infinite possibilità. Lo spazio non percepito è lo spazio qualsiasi: ciò che viene escluso dai margini del quadro appartiene tanto alla realtà dei personaggi quanto a quella dello spettatore, sempre nell'ottica paradigmatica con cui tutto il mondo diegetico è tratteggiato.
Come nel testo letterario il tempo del racconto si sviluppa sul piano della contemporaneità (tutti gli episodi sono accompagnati dai rintocchi delle campane di mezzogiorno), così nel testo filmico le azioni accadono senza un preciso ordine cronologico: esse sono descritte come se avvenissero simultaneamente, in una dimensione temporale sospesa. "E' una stagione imprecisata (potrebbe essere primavera, o l'inizio dell'autunno: o tutte e due insieme, perché questa nostra storia non ha una successione cronologica)" (10), precisa Pasolini nella prima pagina del romanzo. Nel segmento analizzato l'ordine del discorso e l'ordine della storia coincidono, poiché il primo non riveste alcuna funzione narrativa: le sei sequenze sono sincroniche, interscambiabili.
Prendendo in esame i rapporti temporali all'interno delle singole sequenze, caratterizzate da alcune microellissi, ci troviamo nel caso che Genette definisce "sommario"; ma, considerando l'intero segmento, il tempo del racconto è superiore a quello della storia: si verifica una sorta di "estensione" (11), dilatazione per espansione rafforzata dalla presenza dei due inserti extradiegetici raffiguranti il deserto, immagini di natura simbolica estranee allo spazio e al tempo del racconto, che determinano una maggiore durata degli eventi rappresentati.

Scrive Adelio Ferrero: "Bastano pochi, rapidi scorci di una quotidianità allontanata e sospesa, sui quali il film si apre, ad avvertire lo spettatore che quella cui sta per assistere è una sorta di allucinazione poetica" (12). Il modo in cui viene organizzato il profilmico (allestito con la collaborazione di Giuseppe Zigaina), partendo da un minuzioso realismo, diventa quasi impressionista (13): esso è scelto in base alla dominante psicologica della situazione. Le inquadrature della fabbrica sono statiche, caratterizzate da una costruzione prospettica rigida, con molte linee spezzate. La scena è deserta, senza alcuna traccia della presenza umana: gli edifici occupano l'intero orizzonte, avvolti nella nebbia, tragica metafora della condizione interiore del proprietario dello stabilimento. Altrettanto rigorosa è la costruzione delle immagini delle due scuole: entrambe monumentali, imponenti, ad occupare quasi interamente lo spazio dell'inquadratura, fortezze intorno alle quali brulica la confusione cittadina di persone ed automobili che attraversano rapidamente il campo. Anche la villa di famiglia è mostrata nella sua immobile e muta imponenza. Pasolini ci rimanda ancora al deserto, questa volta un deserto urbano, che è luogo dell'anima, terra arida e desolata in cui il sacro non può attecchire.
Pasolini tratta allo stesso modo la presentazione di tutti i personaggi: dapprima riprende in campo lungo il luogo che li identifica, poi restringe l'inquadratura sulla persona, di cui offre numerosi e intensi primi piani, con un uso della macchina da presa che ricorda quanto ha scritto Béla Balàzs sulla tipologia dei volti e delle espressioni delle diverse classi sociali: "Il primo piano ha scoperto dietro i segni esteriori e stilizzati il segno nascosto e impersonale di una determinata classe. La caratteristica classista è spesso assai più evidente che non i tratti comuni alla razza e alla nazione. […] I volti rivelano la classe, impressa nelle fisionomie degli individui; non rivelano l'uomo nella classe sociale, ma la classe sociale nell'uomo" (14). I volti dei personaggi di Teorema possiedono le stesse caratteristiche: gli sguardi sono inespressivi e indecifrabili, sospesi fra l'essere proiettati altrove o l'essere semplicemente disinteressati al qui. Pasolini, nel testo letterario, definisce quello di Paolo-Girotti "un mistero, per così dire, povero di spessore e sfumature" (15). E' il tipo di volto che Aumont attribuisce al cinema della modernità: al contrario del volto del cinema classico, leggibile e privo di enigmi, esso "è un volto visibile, al di là dell'intelligenza e della codificazione, che rifiuta di farsi leggere e si caratterizza come volto del mistero" (16).
Allo stesso modo, Pietro e Odetta sembrano precocemente segnati dalle caratteristiche della loro classe: il ragazzo appare timido, debole, "destinato a non lottare" (17); la sorella sembra colpita da "una specie di malattia" (18), che priva il suo viso dei tratti tipici della giovinezza e gli conferisce un'espressione seria, severa, precocemente invecchiata. Anche Lucia (interpretata da Silvana Mangano) mostrata per la prima volta all'interno di una stanza da letto dall'arredamento sobrio ed impersonale, con le pareti coperte da specchi, sembra annoiata, assente. Il gesto con cui ripone il libro che sta leggendo appare quasi svogliato, come se la lettura in lei non suscitasse alcun interesse, ma fosse una delle tante convenzioni a cui la sua classe la costringe. Pasolini, nel romanzo, attribuisce anche a lei lo stesso tipo di mistero privo di consistenza che riconosce nel marito.
Gli ultimi due personaggi coinvolti nella presentazione fanno parte di una classe sociale differente: Angiolino il postino ed Emilia la domestica conservano ancora la limpidezza espressiva tipica della loro classe. Anche la sequenza che li vede protagonisti presenta una nota di amarezza: per quanto Pasolini sottolinei il loro differenziarsi rispetto alla famiglia borghese, li rende tuttavia interpreti di un incontro-scontro fatto di gesti e sguardi che mette in luce la spensierata libertà interiore del postino e l'indole torva e taciturna della domestica. Nemmeno nelle classi sociali "inferiori" sembra esserci concordia. Come scrive Adelio Ferrero: "Il linguaggio, volutamente spoglio e "primitivo" nella frequenza dei primi piani frontali […] riporta ogni figura a se stessa, alla propria irredimibile solitudine" (19). L'unico totale è mostrato alla fine del segmento: tutti i personaggi, prima dati nella loro dimensione autonoma, si riuniscono poi attorno al tavolo da pranzo, testimoni dell'avvenimento che darà inizio alla narrazione: un telegramma, mostrato in dettaglio, annuncia l'arrivo del Visitatore. Il nome del mittente è celato e resterà nascosto per tutto il film.
La macchina da presa è portata a mano in quasi tutto il segmento, come se si trattasse di un filmino amatoriale (tensione confermata anche dall'utilizzo del bianco e nero). Il movimento, pur non possedendo la fluidità tipica del carrello, evita però di procedere per sbalzi e scossoni, come avviene solitamente nel caso della macchina a mano. Esso mantiene, invece, l'uso di movimenti tipici di una macchina da presa collocata su un supporto - come panoramiche orizzontali e carrellate - che però non hanno funzione descrittiva di rappresentazione dello spazio, ma hanno il compito di seguire o accompagnare gli spostamenti dei personaggi. Si tratta quindi di movimenti subordinati, che mantengono costanti la velocità, la distanza e l'angolazione. Ci si trova spesso di fronte a semplici correzioni di campo, brevi ed impercettibili movimenti della macchina da presa che mantengono la centratura del piano malgrado gli spostamenti del profilmico.
Nel segmento preso in esame, la struttura interna delle sequenze è la stessa per ogni protagonista: dapprima la macchina da presa inquadra l'ambiente, poi fornisce allo spettatore una traccia della presenza del personaggio (il movimento dell'automobile per Paolo, lo sciame dei ragazzi all'uscita dalla scuola per Pietro e Odetta), che esce dall'anonimato soltanto in seguito. Tutte le sequenze si concludono con un movimento di chiusura (l'allontanarsi dell'auto di Pietro, il camminare dei ragazzi ripresi di spalle, il riporre il libro di Lucia, il congedo di Emilia da Angiolino) che troverà senso soltanto nella ricongiunzione della penultima inquadratura del segmento, che mostra l'intera famiglia a tavola.
Le transizioni fra sequenze avvengono attraverso stacchi, passaggi diretti fra un piano e un altro. All'interno di esse Pasolini utilizza diverse microellissi. Le inquadrature sono legate fra loro soprattutto da raccordi sullo sguardo; molte sono le scene costruite secondo la tecnica del campo-controcampo, con una sintassi "elementare e severa" (20). Pasolini abolisce qualsiasi forma di piano-sequenza o long-take: le inquadrature sono brevissime e la scena è fortemente frammentata. In un saggio del 1967, intitolato "Osservazioni sul piano-sequenza", il regista scriveva: "Il cinema (o meglio la tecnica audiovisiva) è sostanzialmente un infinito piano-sequenza […] e questo piano-sequenza, poi, non è altro che la riproduzione (come ho più volte ripetuto) del linguaggio della realtà: in altre parole è la riproduzione del presente. Ma dal momento in cui interviene il montaggio […] succede che il presente diventa passato […]: un passato che, per ragioni immanenti al mezzo cinematografico, e non per scelta estetica, ha sempre i modi del presente (è, cioè, presente storico)" (21). Il montaggio, quindi, come strumento per conferire eternità e perenne attualità al mondo rappresentato. La scelta della notevole frammentazione di questo segmento dipende proprio da tale intenzione: strappare i personaggi presentati al flusso del tempo e al contesto in cui sono inseriti affinché divengano prototipi di una classe o, ancor meglio, di una mentalità.
Il segmento oggetto dell'analisi è caratterizzato dall'alternarsi di silenzio e musica extradiegetica. Nelle inquadrature della fabbrica tutto è muto, non si sente nemmeno il rumore dei macchinari; un silenzio onnipotente e invincibile avvolge l'ambiente inumano e desolato, lo congela, lo astrae da qualsiasi dimensione temporale consacrandolo ad un'eternità immobile e immutabile. Sembra che il silenzio corrisponda all'assenza della vita. Non c'è vita negli edifici di cemento che si stagliano contro il grigio cielo milanese, la vita resta fuori, confinata in un altrove che allo spettatore non è dato a vedere. La musica inizia timidamente soltanto nell'inquadratura che mostra Paolo in macchina, per poi crescere progressivamente nei piani successivi. Pasolini aveva chiesto ad Ennio Morricone, curatore della colonna sonora, "un pezzo astratto che abbia il senso dell'angoscia" (22). Morricone crea un leitmotiv che accompagna la presentazione di tutti i componenti della famiglia, in un crescendo ritmico e strumentale che raggiungerà il suo culmine in prossimità dell'evento-dispositivo del film, per poi venir improvvisamente inglobato dal consistente silenzio che avvolge la stanza da pranzo in cui la famiglia è riunita, generato dall'incontro muto dei diversi membri del nucleo familiare.
Soltanto l'ingresso di Angiolino è accompagnato da una melodia diversa, più spensierata, meno sofisticata, adatta alla presentazione dell'unico personaggio (a cui Pasolini assegna il ruolo di jolly) che non vedrà il proprio universo interiore sconvolto dall'arrivo del Visitatore. La scelta di Pasolini va contro il vococentrismo e il verbocentrismo che Chion attribuisce al cinema, che mira ad ottenere "la garanzia di un'intelligibilità senza sforzo delle parole pronunciate" (23). I dialoghi hanno luogo, ma non vengono necessariamente sentiti e compresi. Siamo nel caso che Chion definisce "parola emanazione": essa diviene una sorta di "emanazione dei personaggi, un loro aspetto, allo stesso titolo della loro silhouette" (24); come per i volti, si tratta di una vocalità indefinita, irrisolta, annullata in un mistero muto.
(1) Antonino Repetto, Invito al cinema di Pasolini, Mursia, Milano 1998, p.100
(2) Pier Paolo Pasolini, Il sogno del centauro, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 85
(3) Serafino Murri, Pier Paolo Pasolini, Il Castoro Cinema, Milano 2000, p.98
(4) Il dialogo, il potere, la morte. La critica e Pasolini, a cura di Luigi Martellini, Cappelli, Bologna 1979, p.243
(5) Alberto Marchesini, Citazioni pittoriche nel cinema di Pier Paolo Pasolini (da Accattone al Decameron), La Nuova Italia, Firenze 1994, p. 108
(6) Gianni Rondolino, Dario Tomasi, Manuale del film, Utet, Torino 1995, p.9
(7) Id., p.13
(8) Francesco Casetti, Federico Di Chio, Analisi del film, Bompiani, Milano 1994
(9) Pier Paolo Pasolini, Teorema, Garzanti, Milano 1991, p.9
(10) Ibid.
(11) Gianni Rondolino, Dario Tomasi, op. cit., cit., p.34
(12) Adelio Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, Marsilio, Venezia 1977, p.100
(13) Martin ripartisce le tipologie di ambiente in "realista, impressionista ed espressionista": il primo "non ha altra implicazione che la sua stessa materialità", mentre gli altri sono costruiti, il primo con una funzione psicologica, il secondo con funzione simbolica", cfr. Gianni Rondolino, Dario Tomasi, op. cit., p.54
(14) Béla Balàzs, Il film. Evoluzione ed essenza di un'arte nuova, Einaudi, Torino 1987, pp.78-79
(15) Pier Paolo Pasolini, Teorema, cit., p.12
(16) Gianni Rondolino, Dario Tomasi, op. cit., p.84
(17) Pier Paolo Pasolini, Teorema, cit., p.12
(18) Id., p.15
(19) Adelio Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, cit., p.103
(20) Ibid.
(21) Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 2000, p.240
(22) Giuseppe Magaletta, La musica nell'opera letteraria e cinematografica di Pier Paolo Pasolini, Quattro Venti, Foggia 1997, p.319
(23) Michel Chion, L'audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino 1997, p.13
(24) Id., p.149