I tempi della vendetta: Kill Bill, Mystic River
di Daniele Vecchio
In questo saggio si è scelto di analizzare e confrontare i film realizzati nella passata stagione cinematografica da due fra i più importanti autori americani, Clint Eastwood e Quentin Tarantino. Un paragone che può risultare interessante in quanto i due autori sono da più parti considerati l'ultimo dei grandi classici e l'ultimo dei grandi innovatori. E' certo che nel comparare le loro visioni si disegna in trasparenza una significativa dicotomia del cinema contemporaneo, nel modo in cui esso interpreta la storia e concepisce se stesso. E poiché si parla di storia è giusto concentrarsi in particolare su come il tempo viene costruito nello spazio diegetico (e non solo, nel caso di Kill Bill) delle opere in esame, per ricavare dall'analisi delle sue strutture le conseguenze di natura estetica e politica.
La didascalia che apre il quarto film di Tarantino è una frase firmata "antico proverbio Klingon" e recita: "La vendetta è un piatto che va servito freddo". Essa introduce la consueta ironia pop di Tarantino, costruita con un gusto cinefilo che gioca sui luoghi comuni e la serialità (i Klingon sono personaggi di Star Trek). Ma suggerisce anche qualcosa circa il concetto di tempo in relazione al tema. E' come se l'autore ci invitasse a metterci comodi, a gustare un piatto (il film) e a gustarlo freddo (poiché esso non richiede nessuna autentica partecipazione emotiva). Inoltre, ancora sul filo della serialità e di un concetto alternativo di tempo, ci dice fin da subito che il film che ci apprestiamo a vedere è solo una prima parte, dato che il titolo reca la definizione di Volume I.
Solo da informazioni extratestuali siamo in grado di conoscere la data in cui forse vedremo la seconda parte. Non è irrilevante che un film di genere annunci apertamente al proprio pubblico di rimandare la proiezione del secondo tempo a un futuro più o meno imprecisato. Apparentemente questa scelta, lasciando il film in sospeso, farebbe intuire la volontà di presentare un film di vendetta (in cui è fondamentale il concludersi dell'azione) diverso, che depriva di senso il suo stesso tema, lasciandolo parzialmente e temporaneamente "fuori campo" (in realtà, come vedremo, tale forma si rifà a una tradizione ben precisa).
Ma se il tema ha scarsa rilevanza, ancor meno se ne può attribuire alla storia. Un aspetto significativo è che le notevoli qualità di scrittura dell'autore qui sembrano opacizzarsi e risolvere il soggetto in una trama scarnificata, un semplice canovaccio che fa da volano allo spettacolo e all'azione. Tarantino sembra irridere anche se stesso, visto che riutilizza la sua forma anacronica senza attribuirgli le funzioni per cui era stata elaborata, ma solo per un semplice e ormai risaputo gioco della pluridirezionalità, della costruzione di un mondo finzionale apparentemente senza centro né principio. Questo, in realtà, dice comunque molto sulla sua ossessione di reinventare il genere a partire dalle strutture temporali del racconto. Nei film a cui direttamente si richiama, il momento della violenza subita dal protagonista doveva essere caricato di tutta la rabbia necessaria a giustificare la sua reazione distruttiva, e questo era possibile solo distribuendo tale sentimento tra il personaggio e il pubblico, cioè favorendo l'identificazione del secondo col primo.
In Kill Bill non c'è niente di tutto questo: si parte da un principio, dall'evento scatenante della strage, ma di quel che è accaduto prima non se ne sa nulla. La protagonista non ci è stata presentata e non abbiamo avuto modo di simpatizzare per lei; così il torto subito non ci brucia dentro, ma piomba all'improvviso dall'alto, su qualcuno che non conosciamo e da parte di qualcuno di cui non vediamo neppure il volto. Non sappiamo quasi nulla di Bill e di Black Mamba, né siamo sicuri del fatto che lei sia effettivamente una vittima innocente, e ancor meno proseguendo nella visione, che lascia intuire rapporti ambigui fra i personaggi risalenti al periodo precedente la strage. Come di consueto, l'ordine cronologico viene stravolto e il tempo ricostruito secondo un arbitrario modello a incastri: subito dopo l'antefatto, la storia dell'uccisione dei rivali comincia partendo dal centro per poi tornare nuovamente indietro (al momento dopo la strage e al conseguente risveglio dal coma della Sposa) e proseguire con un flashback animato sull'infanzia della prima rivale da eliminare; dopo gli scontri con gli altri aguzzini giunge l'interruzione, proprio quando torna in campo la figura misteriosa di Bill.
Per Tarantino il tempo è un gioco con cui divertirsi a segnare percorsi inediti e tortuosi: frammentato e decostruito, commentato dalla voce over della protagonista, diviso per capitoli con titoli che, anziché indicare luoghi e date, si limitano ad annunciare il nome della prossima vittima. La vendetta è un puro pretesto, nient'altro che il vecchio "Mac Guffin" hitchcockiano, al contempo motore e fine ultimo dell'azione. Con la differenza che il moderno Hitchcock sfruttava il gioco in favore della suspense, dell'intensità emotiva, mentre Tarantino abbandona tali prerogative per concentrarsi in un vortice formalista che si dispiega in pieno regime postmoderno: facendo prevalere la sensazione sul senso, sostituisce all'intensità emotiva un'intensità percettiva (1); la suspense arriva semmai al termine, come in una soap opera, quando vediamo idealmente apparire la scritta "Continua...". L'estrema ironia con la quale illustra (esasperando i cliché del subgenere) il motore della vendetta in azione, sta proprio nel trattamento fumettistico e stilizzato riservato al riaffiorare dei ricordi di Black Mamba: ogni qualvolta la Sposa ricorda le terribili torture subite, si materializzano visioni del passato dominate sempre dallo stesso colore e dagli stessi suoni; questa reiterazione visiva e uditiva riproduce in modo esplicito l'effetto di un allarme, sottolineando ulteriormente la meccanicità delle cause e abolendo dall'orizzonte delle priorità dell'autore qualsiasi volontà di scavare nell'anima del personaggio. Tanto che nelle ultime inquadrature, la lista delle persone ancora da eliminare viene redatta da Black Mamba come se si trattasse di un elenco della spesa, mentre viaggia in aereo tranquillamente seduta nella sua confortevole poltroncina.
Tarantino salta la parte introduttiva in modo da rendere poco chiaro il motivo della strage (evento che scatena la vendetta) e di conseguenza riduce tutto ciò che viene dopo a pura rappresentazione, divertendosi ad affiancare a questo interrogativo altri per nulla funzionali e fini se stessi (qual è il vero nome di Black Mamba? quale il volto di Bill?) Eastwood, invece, procede in modo lineare e si serve sapientemente dell'ellissi per la costruzione dell'intreccio. L'uno ci lascia il desiderio di sapere cosa è accaduto prima e cosa accadrà nella seconda parte, l'altro parte da un principio ben definito, che delinea subito l'essenza dell'evento scatenante, e poi mantiene costantemente la nostra curiosità seminando dubbi su ciò che è appena accaduto o sta per accadere, per verificare di continuo il nostro giudizio morale.
Anche qui la storia è semplice, ma la complessità teorica della "posta in gioco" è indubbiamente alta. Il film ci presenta da subito l'antefatto, che risale al periodo dell'infanzia dei tre protagonisti: Dave, Jimmy e Sean giocano a scrivere il loro nome sul cemento fresco, quando vengono pescati da due poliziotti che minacciano Dave di portarlo a casa per dirlo ai genitori; in realtà si tratta di due pedofili, che dopo averlo fatto salire in macchina lo rapiscono e approfittano di lui per quattro giorni, prima che Dave riesca a fuggire. Poi, con un sostanziale salto temporale (25 anni), ci porta al presente dell'azione, con i protagonisti ormai adulti: la tranquillità è sconvolta di nuovo, stavolta dall'uccisione di Kate, la figlia diciannovenne di Jimmy. Dave è una vittima: a distanza di anni, sposato e con un bambino, non sembra certo divorato dalla volontà di vendicarsi dell'episodio che lo ha profondamente segnato. Ma il sospetto che egli possa nutrire un simile desiderio, come per un insorgere dei traumi del passato in una mente debole e tormentata, è introdotto dallo sguardo che egli rivolge a Kate mentre lei balla con le amiche sul bancone del pub, la sera dell'omicidio; più precisamente prende forma quando l'ellissi che interrompe quell'inquadratura ci porta avanti nel tempo, al momento in cui Dave ritorna a casa ferito e piangendo confessa alla moglie di aver colpito un assalitore. Poi anche la moglie comincia a dubitare di lui, dal momento che i giornali non riportano nulla sull'accaduto e nel frattempo si viene a conoscenza dell'omicidio di Kate. In tal modo si porta lo spettatore su una falsa pista, finché la scoperta della verità non ribalta ogni supposizione indotta in precedenza (è ancora Hitchcock l'autore che più ha estremizzato questo discorso: l'esempio eclatante è Il sospetto, dove il bicchiere di latte che potrebbe essere avvelenato è illuminato da una lampadina posta al suo interno). L'uso tradizionale di questo espediente tipico del poliziesco, definito dai formalisti russi "motivazione simulata"(2), era quello di produrre una semplice sorpresa tradendo le aspettative dello spettatore. Eastwood lo riutilizza in chiave etica. Infatti, finché lo spettatore non sarà sicuro dell'innocenza di Dave, la sua capacità di giudizio è costantemente messa alla prova. Se egli, anche per un solo istante, si è convinto della colpevolezza di Dave, sarà profondamente colpito nello scoprire che in realtà è innocente e che il sospetto della moglie ha provocato indirettamente il suo assassinio. Avendo condiviso quel sospetto è come se venissimo resi complici del delitto.
In Kill Bill tutto è incentrato sulla vendetta, ma essa è destituita di senso, è il motore di una sequela di conflitti esterni, di semplici combattimenti. In Mystic river, invece, la vendetta in sé è un fatto secondario, ma la sua logica serve a mettere in scena profondi conflitti interiori. La scelta di questo tema è indubbiamente legata anche ai mutamenti provocati dai fatti dell'11 settembre; tuttavia dal punto di vista ideologico lo scarto fra il pensiero dei due autori è diverso da quello che si potrebbe immaginare. Il giovane innovatore è un confesso estimatore di Godard, ma non conserva un briciolo del suo rigore politico e si limita ad applicare alla lettera alcune delle sue famose riflessioni formali, come: "nel mio film non c'è del sangue, c'è solo del colore rosso" e "ogni film deve avere un inizio, una parte centrale e una fine, ma non necessariamente in quest'ordine"; mentre il vecchio Clint, noto come un conservatore, si dimostra molto più aperto e problematico dando prova di aver compreso la lezione del suo maestro, il liberal Don Siegel - e il fatto stesso di aver scelto per i ruoli comprimari due fra i più importanti attori/autori "contro" del momento la dice lunga.
Proprio all'ultimo Festival di Cannes, Godard ha polemizzato con Tarantino, reo di aver dichiarato che la politica dovrebbe restare fuori dai film (in altra sede andrebbero sondati i percorsi misteriosi che hanno poi portato Tarantino a premiare Moore, così come in passato lo stesso Eastwood a consegnare la Palma d'Oro a Tarantino). Ovviamente non serve essere espliciti, perché ogni opera – e quindi anche Kill Bill – esprime dei contenuti ideologici. La riflessione nietzschiana di Bill sull'identità di Superman, per cui la sua vera maschera si rivelerebbe quando indossa i panni del mediocre Clark Kent, è solo un indicatore posto in superficie. Occorre tornare sulla questione del tempo, per capire come la ripartizione del film lo ponga in continuità con i prodotti più tipici della cultura di massa (fumetto e feuilleton).
Sebbene il monologo di Bill possa apparire filosofia spicciola e degradata, va ricordato che secondo Gramsci fu proprio il romanzo d'appendice ad anticipare Nietzsche sul suo stesso terreno. L'ideale superomistico del Montecristo di Dumas consente il "fantasticare dell'uomo del popolo, è un vero sognare ad occhi aperti… lunghe fantasticherie sull'idea di vendetta, di punizione dei colpevoli dei mali sopportati" (3). L'analisi approfondita condotta da Eco sull'argomento ci permette di concludere che la figura di Black Mamba deriva non già dal modello originario, democratico e paternalistico, ma dal romanzo conservatore del tardo ottocento e da quello reazionario del primo novecento, che "useranno l'armamentario del feuilleton avulso dal suo contesto funzionale: vendette e riconoscimenti agiranno a vuoto, senza più che alcun progetto di risarcimento sociale – sia pure populisitco e borghese – li sostenga e dia credibilità a quanto avviene" (4).
Eco introduce una discriminante tra il romanzo problematico, che va dalla tragedia classica a Balzac e Dostojevski, in cui la catarsi aristotelica "scioglie il nodo della trama ma non concilia lo spettatore con se stesso: anzi il conchiudersi della storia gli apre un problema", e il romanzo popolare, in cui "la trama, risolvendo i nodi, si consola e ci consola. Tutto finisce esattamente come si desiderava che finisse" (5). Il romanzo popolare, che può quindi definirsi "consolatorio", nasce col romanzo inglese settecentesco per proseguire in chiave superomistica col romanzo d'appendice e conservare questa caratteristica fino al fumetto e al cinema contemporaneo (Eco analizza gli esempi di Superman (6) e Ombre rosse di Ford, ma anche gli spy-thriller di Fleming che hanno ispirato la saga cinemtografica di James Bond – e non è un caso se Tarantino, oltre al supereroe dei comics, cita inquadrature di Sentieri selvaggi e dichiara in altra sede di voler girare il suo remake di Casino Royale).
Corollario estetico del romanzo popolare sono il gusto dell'intreccio fine a se stesso, l'estrema stilizzazione dei caratteri, le iterazioni ritmiche e le ridondanze che fungono da appelli alla memoria del lettore, la gioia del riconoscimento del già noto e il piacere regressivo del ritorno all'atteso, la decontestualizzazione e la riduzione a cliché delle invenzioni della letteratura precedente. Ma poiché questo sistema funziona, provoca desideri che sarebbe ipocrita nascondere e gratificazioni che regolano il nostro equilibrio emotivo, è facile comprendere il motivo per cui anche un autore del romanzo problematico come Balzac ricorra moltissimo alle soluzioni del romanzo popolare. Lo stesso tipo di fusione avviene nel film di Eastwood, nella forma molto più disinvolta a cui ci ha abituato l'estetica contemporanea. Mystic River è esattamente un romanzo problematico mascherato da romanzo popolare.
Lo spregiudicato connubio fra "cultura alta" e "bassa" che caratterizza il postmoderno elabora i risultati più interessanti proprio in questi termini; così è possibile apprezzare meglio la diversione che Mystic River applica agli stilemi del noir (ad esempio al modo in cui viene trattato il tema del destino) attingendo all'orizzonte culturale della tragedia classica; in tal caso, Tarantino rischia di limitarsi a riversare in una confezione tecnicamente eccellente la fiction di consumo di solito stampata su carta straccia. Se Tarantino contamina i generi in modo vistoso è perché li centrifuga e li giustappone, integrando senza soluzione di continuità i loro aspetti esteriori, il decòr, lo stile, i costumi, il linguaggio. Eastwood, invece, si preoccupa di calibrare in modo organico diversi "sistemi filmici" senza strizzare l'occhio, ma solo rendendoli funzionali alla narrazione. Ricerca consapevolmente questa struttura a volute, tanto da affermare che "La storia può affascinare il pubblico a vari livelli. I fans del "Who dunnit?" apprezzeranno il lato poliziesco e il resto sarà solo un contorno, altri saranno interessati al background dei personaggi e per loro l'intreccio avrà senso solo in relazione al dramma complessivo. La storia è composta di vari strati, se ne toglie uno e ne appare un altro, si risponde a una domanda e si sollevano altre domande" (7).
Il cinema di Eastwood, dunque, è solo apparentemente classico, in realtà si appropria della tradizione per riscriverne sottilmente le figure, intrecciando e sfumando i contorni dei generi per demistificare i miti e le ideologie che vi sono associati. Provando a riassumere per linee generali il metodo adottato, si possono individuare alcuni esempi concreti di questa revisione:
- Come previsto dalla norme del poliziesco, alla fine la giustizia trionfa, ma solo apparentemente: infatti, mentre gli assassini di Kate vengono arrestati, Jimmy rimane in libertà nonostante i delitti commessi.
- Il senso del noir è richiamato in più parti, ad esempio nell'uccisione involontaria del pedofilo da parte di Dave: qui la forza oscura del destino porta al delitto, ma altrove le scelte e le responsabilità individuali svolgono un ruolo determinante.
- La falsa confessione di Dave in punto di morte ricorda i tratti tipici del melodramma, ma in nessun altro caso c'è la netta distinzione fra bene e male su cui si fonda quel genere.
- Altre parti, come l'assassinio di Dave da parte di Jimmy e la successiva agnizione della sua innocenza, recuperano perfino qualcosa della tragedia classica, ma il film non può dirsi tragico perché finisce in parte bene: i responsabili sono puniti e Sean si riconcilia con la moglie.
- Lo stesso vale per le figure linguistiche, come il montaggio alternato, ancora quello codificato da Griffith ma deviato di significato. Infatti, se la funzione primordiale dell'espediente era quella di generare tensione attorno a una "deadline" per poi risolvere l'apprensione in un lieto fine (solitamente un salvataggio), Eastwood lo modifica in senso realistico affiancando a una soluzione parziale un nuovo risvolto drammatico che lascia aperto il problema di fondo: mentre i colpevoli vengono presi, si consuma l'atroce delitto di Dave (altro esempio di come un minimo scarto temporale può divenire un efficace generatore di senso).
Anche Eastwood recupera una certa serialità: tutta la parte dedicata alla ricostruzione del delitto e all'investigazione fa parte di un immaginario e di un genere che è stato sfruttato al massimo proprio nei telefilm. Ma qui serve a mantenere l'attenzione, a farci seguire una storia, a fornire una struttura avvincente che dia ritmo e concretezza a complesse riflessioni concettuali. In un solo caso inserisce un'aperta citazione e lo fa mettendola direttamente in scena, nella sequenza in cui Dave commenta un film di vampiri trasmesso in tv: così da un certo immaginario convenzionale si trae spunto per costruire una potente simbologia sull'entità del Male (molto più prossima a The Addiction di Ferrara che non al film di Carpenter che si vede scorrere nel video). Niente a che fare con il confortante ritratto familiare della violenza in cui la Sposa guarda con la sua bambina un film di kung-fu (che non viene mostrato, come ad invitare al gioco degli indovinelli gli spettatori cinefili).
Anche il modo in cui è definito l'elemento del corpo segna differenze rilevanti. Se in Mystic River ogni gesto e sguardo porta in sé il peso del dolore e della lacerazione esistenziale, in Kill Bill il corpo è un feticcio metafilmico sottoposto a tour de force, a torchiature da cartoon e a sfide da videogame. Ma ciò che abbiamo riferito in termini di "superficialità" postmodernista a proposito del primo capitolo di Kill Bill può sembrare rimesso in discussione nel secondo, dove Tarantino sterza e procede con il mood "adulto" di cui aveva già improntato Jackie Brown. In realtà nel flashback di Black Mamba che si scopre madre e decide di rinunciare al suo mondo di quotidiana violenza, non si profila alcuna autentica istanza di redenzione. Così come non va aldilà della mera curiosità la presenza di una Wonder Woman-Black Mamba al fianco di un Superman-Bill, il femminismo di questa eroina è appunto il pendant del femminismo da blaxploitaion di Jackie Brown; in clima di autoreferenzialità ciò che più interessava Tarantino era probabilmente la sola volontà di stabilire un parallelo tra Black Mamba, che dopo il miracolo della nuova vita ricevuta in grembo decide di abbandonare la malavita ma è costretta a un'ultima spedizione omicida, e Jules Winnfield in Pulp Fiction, il quale dopo il miracolo delle pallottole che mancandolo lo restituiscono a nuova vita sceglie di farsi asceta, non senza prima portare a termine l'ultimo colpo. E l'estremo rapporto di odio-amore che si consuma fra i due protagonisti non è una novità almeno dai tempi di Duello al sole, già abbastanza kitsch di per sé. I limiti del meccanismo consolatorio si spostano col tempo e, precisa Eco, "oggi ci sarà romanzo popolare anche là dove l'eroe apparirà prevedibilmente problematico; e nulla apparirà più felicemente conclusivo di un finale abrupto […] In ogni caso, una costante resterà a distinguere il romanzo popolare dal romanzo problematico: ed è che sempre si dipanerà nel primo una lotta del bene contro il male che si risolverà sempre o comunque (sia lo scioglimento intriso di felicità o di dolore) in favore del bene, il bene rimanendo definito nei termini della moralità, dei valori, dell'ideologia corrente [e cosa prescrive l'ideologia corrente se non una vendetta dolorosa ma necessaria? Ndr]. Il romanzo problematico propone invece finali ambigui proprio perché […] mettono esattamente e ferocemente in questione la nozione acquisita di "Bene" (e di "Male")" (8).
Questo aspetto è fondamentale per comprendere a fondo i risvolti etici e politici del confronto proposto. Mystic River dimostra che la vendetta è sempre un ripetere il peccato subito, e per questo nel compiersi si fa carico di una colpa inevitabile (non caso il simbolo della cristianità appare ogni volta che il suo spirito viene tradito); la conclusione fa esplodere questo genere di paradossi privandoci dell'abitudine di distinguere in modo netto ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Kill Bill invece parla della vendetta come di un fatto meccanico e spettacolare; la sua conclusione ribadisce il carattere consolatorio e artificiale dell'opera, rimarcando esplicitamente il lieto fine con una didascalia che è la più chiara verifica alla tesi di Eco: "La leonessa si è ricongiunta col suo cucciolo e tutto va bene nella giungla". La metafora proposta, che rimanda con evidenza all'immaginario superomistico, presenta un'apparente analogia con il sottofinale di Mystic River, in cui la moglie di Jimmy tenta di giustificarne le colpe paragonandolo a un leone che veglia sui suoi piccoli e che non deve porsi dei limiti per adempiere a tale compito. E' importante notare però che queste parole, mentre nel livello della finzione intendono consolare Jimmy richiamandolo alle sue responsabilità familiari, non potranno avere un effetto analogo su di noi, che anzi ne rileviamo gli aspetti odiosi e inaccettabili, a fronte del ricordo dell'omicidio ingiusto e feroce di cui è stato vittima Dave.
Al termine del nostro percorso - in cui abbiamo cercato di non trascurare nessuno degli aspetti costitutivi di un'opera, da quello linguistico e tematico a quello etico ed estetico - ci sembra di aver colto in questi film un distinguo esemplare delle possibili declinazioni a cui è soggetto il cinema postmoderno, e di aver almeno tentato di ridiscutere in maniera concreta gli aggettivi "innovativo" e "conservatore", spesso attribuiti in maniera approssimativa agli autori in questione. Per quanto riguarda il giudizio, a guidarci è stata una convinzione: bisogna chiedersi come reagisce il presente nell'interrogazione a cui viene sottoposto dall'opera, tenendo presente che il piacere estetico non è mai disgiunto dal problema della verità, nella misura in cui è in grado di mettere in luce le contraddizioni che viviamo. In questo senso è superfluo ribadire il luogo in cui abbiamo ritrovato le istanze più feconde, senza per questo voler negare le forme del divertimento o rifiutarsi di apprezzarne i prodotti più raffinati, che pure sono in grado di produrre pensiero. Ma i meccanismi e i fini di questo divertimento devono essere decostruiti e analizzati, posti al vaglio di una critica serrata. Solo così potremo ricavarne l'autentica dimensione e apprezzare al meglio sia l'una che l'altra visione.
(1) Cfr. F. Jameson, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, Garzanti, Milano, 1989
(2) B. Tomasevskji, "La costruzione dell'intreccio", in I formalisti russi, Einaudi, Torino, 1968, p. 328
(3) A. Gramsci, "Letteratura popolare", III, in Letteratura e vita nazionale, Editori Riuniti, Roma, 1950, p. 108
(4) U. Eco, "Le lacrime del Corsaro Nero", in Il superuomo di massa, retorica e ideologia del romanzo popolare, Bompiani, Milano, 1978, p. 16
(5) Id., ivi, pp. 10-11
(6) Cfr. U. Eco, "Il mito di Superman", in Apocalittici e integrati, comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Bompiani, Milano, 1964, p. 219-263
(7) La dichiarazione è tratta dal sito ufficiale del film, alla pagina: http://www.warnerbros.it/movies/mysticriver/cmp/mr_about_story.html
(8) ECO, Il superuomo di massa, cit., p. 12-13