I fiori del deserto. Watanabe, Barbarossa e Dersu: gli eroi zen di Akira Kurosawa
di Antonio Piretti
Scrive Robert Thurman che il Buddha, mentre stava impartendo un insegnamento, puntò l'alluce per terra e con quel gesto drammatico rivelò al suo uditorio che l'universo in cui viviamo è un vero e proprio paradiso. Quello che vediamo non è certo il migliore dei mondi possibili, come si sforzava di credere il Candide di Voltaire, ma se comprendessimo la vera natura della realtà considereremmo il pianeta su cui viviamo per quello che è: un ambiente perfetto per l'evoluzione in senso positivo.
È difficile, leggendo queste poche righe, e seguendo l'intera vita del principe Sakyamuni, guardare ai film del cineasta giapponese Akira Kurosawa senza notare concordanze, prestiti, o addirittura precisi richiami a quella dottrina del buddismo che più intimamente si riallaccia agli insegnamenti del Buddha e che prese in Giappone il nome di Zen.
Credo che tracce di queste concezioni di sé e del mondo, di questa affannosa ricerca e di questa speranza, si possano ritrovare nell'opera di Kurosawa già a partire da L'angelo ubriaco(1948), ma emergano con innegabile chiarezza dal film Vivere(1952). Opera densa, suscettibile di svariate analisi(sociologiche, psicologiche, religiose), imperniata su un descensus ad inferos nel ventre della metropoli, è un film che racconta l'approssimarsi alla morte di un anziano funzionario giapponese. Se sarà possibile indicare il personaggio di Dersu Uzala, per la sua personalità unica e per le motivazioni che presiedono alla sua nascita, come incarnazione del pensiero kurosawiano(e, come vedremo, tardo-leopardiano), possiamo allo stesso modo definire Vivere come il manifesto e il trattato di quello stesso pensiero.
Nella vicenda di questo piccolo uomo infatti, quasi meschino nella sua cecità e nella sua totale sottomissione allo straniante lavoro d'ufficio, è nascosta la chiave per accedere al mondo di Akira Kurosawa: non soltanto la parabola di quest'uomo "è permeata di un'angoscia esistenziale che rimanda a Dostoevskij", come fa notare il sempre attento Morandini, ma il film, non limitandosi a disegnare uno splendido ritratto-di-uomo-solo-davanti-alla-morte, ci porta a credere che anche nella vita insignificante ci sia il tempo di un riscatto, ci sia la possibilità di sublimare la propria disperazione. Non siamo insomma davanti a un'amara presa di coscienza della vanità del tutto in cui il dolore e il senso d'oppressione soffocano l'eroe, ma si può dire che con gli occhi lucidi, e a testa alta, si guarda ora al prossimo con rinnovata fiducia, constatando come l'unica soluzione possibile sia un mutuo, silenzioso soccorso. Appurata la vanità delle cose umane, accertata la fugacità di ogni istante che ci è concesso vivere, cresciuta ed esplosa la rabbia e il disagio dato dal confronto con la morte, all'uomo non resta che voltarsi e guardare accanto a sé, stringersi in un abbraccio catartico con coloro che condividono la stessa sorte. È il tema della Ginestra.
L'impiegato Watanabe alla soglia della vecchiaia è gettato nella disperazione dall'insorgenza di un tumore allo stomaco senza speranza di guarigione; abbandonando il lavoro che mai aveva trascurato in vent'anni di carriera, Watanabe si lascerà alle spalle la carcassa della sua esistenza, e trascinando il suo corpo ormai svuotato per le strade della città, farà la conoscenza della vita fino ad allora mai vissuta. Ma constatata la vanità di ogni piacere offertogli dal mondo(il viaggio nel quartiere rosso di Tokyo), l'uomo proverà di fronte alla "bocca digrignata" di sé stesso, per riflesso emozionale, l'amore. Questa dualità, amore e morte, questo misterioso legame indagato da poeti e filosofi nel corso dei secoli, non a caso fu anche il tema, nonché il titolo, di uno dei canti leopardiani, e tappa importante del pensiero anteriore alla Ginestra.
L'anziano impiegato cercherà nella fanciulla frivola e vivace che lavora nel suo ufficio, l'immagine stessa della vita che non ha vissuto ma che forse avrebbe potuto e voluto vivere. Di fronte all'imbarazzo della ragazza dovuto all'ossessivo attaccamento di Watanabe, e davanti alle richieste di spiegazione, l'uomo non sa dire. "È come quando da piccolo stavo per annegare, e annaspavo nell'acqua in cerca di qualcuno a cui aggrapparmi", confessa con dolore. Ma le resistenze, giustificate, della fanciulla e il dolore continuo a cui è sottoposto, portano l'uomo a percorrere un'altra via verso la sua redenzione: il piccolo coniglio meccanico azionato dalla ragazza farà ricordare all'uomo la petizione di un gruppo di donne per la realizzazione di un parco giochi in una zona periferica della città. È in questo estremo gesto di pietà e di amore- seppur indotto, meccanico appunto- che consiste l'eroicità di Watanabe. Il suo braccio teso in aiuto di chi chiede è ciò che gli restituisce l'umanità che il lavoro e la sua stessa rigidità gli avevano sottratto. Che il merito sia poi contestato da chi ha lavorato al progetto con altri scopi, lucratavi o elettorali, poco importa. Il vecchio Watanabe, come testimonia il poliziotto che riporta il suo cappello malconcio- vera e propria lancia del guerriero-, è già seduto sull'altalena del nuovo parco, fattosi bambino perché rigenerato, cantando a bassa voce, quasi sussurrando, una vecchia triste canzone.
Se L'angelo ubriaco aveva mostrato la figura di un medico sui generis, la cui debolezza e la cui incoerenza erano i simboli della sua umanità, della sua terrestrità si potrebbe osare, il film Barbarossa(1965) presenta un dottore ancora impegnato con tutte le sue energie nella lotta contro la malattia e la morte, ma in questo caso avvolto da un alone di solennità e di santità del tutto assente nel medico ubriacone. Barbarossa possiede l'austerità di chi ha inteso le radici della vita, è l'albero dal tronco robusto potato delle velleità di ogni fronda, è colui che non vede altra vita ragionevolmente possibile per l'uomo saggio se non quella della carità e della fratellanza, un filantropo apparentato, nemmeno troppo alla lontana, al Benassis balzachiano. Barbarossa ha dunque i tratti dell'essenzialità e della purezza di un dopo sciagura, e con la sua severità e il suo rigore morale soccorre i derelitti del lazzaretto, soffia con il suo fiato risanatore su questi tristi lochi: "Or ti riveggo in questo suol, di tristi\lochi e dal mondo abbandonati amante,\e d'afflitte fortune ognor compagna.". Come la ginestra che s'abbarbica tenace sulle pendici aride del Vesuvio, anche il dottore è uno scarno arbusto che pure emana un piacevole profumo. È in questo senso che Barbarossa si può dire l'eroe kurosawiano più vicino alla ginestra di Leopardi: se Dersu Uzala sarà la perfetta incarnazione della personale filosofia del cineasta, nella sua innocenza e nella sua incapacità di provare rabbia per "quella che è veramente rea", Barbarossa sembra covare in sé una rabbia atavica sempre sul punto di esplodere; nello sguardo di Mifune si legge la cognizione del dolore eterno, e dietro la sua convinzione che la morte di un uomo è il momento più solenne della sua vita, non si fatica a leggere una fierezza e una grandezza che sfida le forze superiori della vita e della morte. È appunto in questo petto gonfio che si può rintracciare una stretta somiglianza tra il medico di Kurosawa e la ginestra del poeta italiano, perché al contrario Dersu, pur essendo una naturale prosecuzione, un figlio degli altri eroi di kurosawa, si erge come reale modello di vita in virtù della sua vicinanza alle fonti stesse della vita, e, libero da sovracostruzioni culturali, ideologiche, scientifiche, affronta il lato amaro dell'esistenza con la semplicità e la tranquillità di chi non conosce altra via da percorrere.
Barbarossa è inoltre, insieme al protagonista di Madadayo-Il compleanno(1993), la più tipica ed esplicita figura di maestro nel cinema di Kurosawa. La sua influenza sul giovane Noburo, ragazzo ambizioso finito contro la sua volontà nel lazzaretto, porterà al finale "passaggio di consegne" tra il maturo e scorbutico medico e il giovane e idealista tirocinante. Noburo è, all'inizio del film, il giovane che sceglie la professione di medico per successo e denaro, custodisce i segreti della medicina appena appresi all'università per egoismo giovanile, non per cattiveria. Nel lazzaretto, fin dal suo arrivo, sarà assediato dalla morte e nella scena in cui è costretto ad assistere il vecchio che rantola, ormai agli ultimi istanti di vita, si può scoprire nel suo volto il contraddittorio comportamento dell'umano davanti alla morte, un misto di curiosità e paura, attrazione e terrore. Una volta sperimentate le sofferenze del lavoro, fissata negli occhi dei suoi pazienti la sua stessa morte, evitato il fatale fascino della donna mantide, Noburo è pronto a seguire le orme del maestro.
Attraverso una malattia che lo indebolirà e lo costringerà a provarsi paziente nel lazzaretto in cui venne da medico, ultima ed estrema immedesimazione nella sofferenza, Noburo approderà alla sua nuova vita consacrata al mantenimento e alla cura di quel piccolo ospedale senza luogo né tempo. Noburo, come dice Barbarossa, ha avuto una febbre da crescita, ha visto troppa realtà. La sua malattia, a differenza di quelle che attanagliano il lazzaretto, è una virata del suo animo, il segno di un radicale cambiamento interiore. Per Kurosawa, e lo dimostra anche l'episodio di Otoio, la giovane salvata da Barbarossa che a sua volta riesce a salvare la vita di un piccolo ladro di quartiere, il bene non può che chiamare il bene allo stesso modo in cui il male genera nuovo male. È il finale rasserenante- ma non un happy end- con cui si conclude un film cupo e oppressivo.
Come per Noburo, anche per Kurosawa, il processo di maturazione non è molto differente. Anche per lui si tratta di passare attraverso una serie di opere di inchiesta pura, priva di ogni messaggio rassicurante, un viaggio di ricerca attraverso i lati più miseri e oscuri della vita. Si hanno così delle pellicole che affiancate alle altre più esplicitamente raffiguranti il pensiero maturo di Kurosawa, si limitano a constatare, o meglio a fotografare, la sofferenza dei suoi simili. Mi pare che appartengano a questa linea film come Cane randagio(1949), I bassifondi(1957), Anatomia di un rapimento(1963), e, per certi versi, e con qualche precisazione, anche Dodes'ka-den(1970).
Senza dubbio in Kurosawa non ritroviamo tutto lo sdegno e il rifiuto propri dei componimenti giovanili di Leopardi, e nemmeno gli appartiene il rifiuto totale dell'alterità che conduce il poeta a quei sette anni di studio matto e disperatissimo, ma sembra comunque evidenziarsi tra i due autori un iter creativo comune, che necessita di un'analisi serrata del mondo circostante, per poi sublimarsi in un rinnovato pensiero di sé e del mondo. Caratteristica di questo pensiero è dunque un realismo filosofico che mira a smascherare le contraddizioni, le brutture, le malignità della razza umana e della sua "dura nutrice", e che, quasi inconsciamente, è destinato a maturare da questa consapevolezza, da questa coscienza del dolore, un' inattesa speranza. Se si confronta questo atteggiamento di inchiesta sul reale- o di ricerca- con la decisione improvvisa del principe Siddharta di uscire dalla reggia e scendere fra i suoi sudditi, se si confronta il suo primo incontro con la malattia e la morte, risulteranno evidenti le analogie con il pensiero e di Leopardi(del resto vicino al più orientale dei filosofi europei del diciannovesimo secolo) e di Kurosawa.
In Cane randagio e Anatomia di un rapimento il regista affronta direttamente questo tema. In entrambi i film due poliziotti(ma per Anatomia di un rapimento l'inchiesta è molto più corale) sono alla ricerca di un criminale e per scovarlo sono costretti ad avventurarsi nei bassifondi della città; nascono in questo modo due polizieschi che polizieschi non sono, la cui indagine al centro degli avvenimenti è un chiaro escamotage per mostrare una più profonda ricerca dei protagonisti dentro sé stessi. Ciò che loro cercano è là da qualche parte, nel ventre della città, e si confonde con le case, le baracche, la gente. È in quei luoghi, lontani dalla centrale di polizia e dalla confortevole villa dell'industriale, che si cela il Male: Anatomia di un rapimento è un film bressoniano. E basta far scorrere poche immagini per capire che ci troviamo di fronte a un nuovo approfondimento dei precedenti Cane randagio e L'angelo ubriaco. Se in Cane randagio si parlava di una reale immedesimazione dell'eroe nei quartieri sordidi della città(il protagonista travestito da barbone), Anatomia di un rapimento racconta piuttosto di una contaminazione: l'ambiente quasi etereo della villa dell'industriale, simile ad una reggia di 2500 anni fa, è infettato da un male che proviene dall'esterno e da un luogo in ogni caso sconosciuto. L'ampia vetrata che si apre sulla città e la scena chiave in cui il rapitore dialoga al telefono con l'industriale chiedendogli di aprire le tende per meglio controllare i loro movimenti, diventa il simbolo di questo divario umano più che sociale, interiore più che politico, e nello stesso tempo dell'inarrestabile metastasi del crimine. L'occhio che spia attraverso la vetrata da un punto inconoscibile della città, confuso e protetto da quell'intrico di case e strade, è l'intrusione quasi virale di una malattia che non appartiene all'ambiente levigato e pulito della villa. Ancora una volta è il destino che bussa alla porta, di nuovo Kurosawa ci parla del dolore e della malattia che ci riguardano perché riguardano qualcuno nella Città che ha i nostri stessi tratti somatici.
Nei tre film sopra citati abbiamo dunque un'immersione dei protagonisti nel mare magnum, anzi aeternum, della miseria e del dolore. I quartieri malfamati di Tokyo e i loro abitanti- prostitute, barboni, tossicodipendenti, ladri, assassini, malati- ghettizzati dall'umanità perbene, rappresentano nella loro sporcizia e nella loro contagiosità il volto nascosto dietro alla nostra vita di tutti i giorni, il sommo carnefice con cui tutti dovremo confrontarci. Il loro aspetto repellente, la loro amoralità, la loro fame vorace, il loro turpe bisogno di denaro non vogliono essere soltanto una durissima critica sociale e politica- pur essendolo senz'altro indirettamente-, ma assurgono, all'interno della cinematografia di Kurosawa, a ricerca interiore tesa a demitizzare il volto amico e fraterno della Natura, quello innalzato e pubblicizzato dall'allora nascente civiltà dei consumi, e mostrare invece con forza la naturale sofferenza inscritta nel codice genetico umano. L'umanità di quei luoghi dimenticati da Dio, dice Kurosawa, è dentro di noi.

Dodes'ka-den è certamente connesso a questa tematica ma si carica anche di altri significati e altri simboli. Anche qui abbiamo la schietta rappresentazione di un'umanità ai margini, che si lascia vivere in queste baracche e in questi luoghi ancora una volta senza tempo, arrabattandosi con piccole faccende senza importanza e aspirando, come per i protagonisti dei Bassifondi, a una vita diversa, con meno fastidi economici. Ma forse il personaggio cardine del film- come testimonierebbe l'onomatopeico titolo- è il bambino che si è convinto di pilotare un tram inesistente. È facile vedere in questo sognatore una proiezione dell'artista stesso il quale come il ragazzo del tram, tappezza la sua casa di centinaia di disegni, di fantasie, e come lui si nutre di quelle inesistenze. L'artista è colui che incede con il suo invisibile automezzo tra le meschinità e le miserie dei bassifondi, indifferente a tutto ciò che lo circonda, forse anche impotente. Le anomalie che affliggono ogni abitante di questo paese- aberrazioni fisiche, mentali, morali ecc.- sembrano non interessarlo perché non ineriscono direttamente alle sue fantasie, o forse perché anche lui come tutti gli altri è vittima di un'anomalia. Risulta quindi difficile stabilire se questo film, e in particolare questo personaggio, siano una gioiosa affermazione di appartenenza dell'artista a questo mondo di emarginati, oppure una feroce autoaccusa, e un dito puntato sull'artista e il suo ruolo nella società. Certamente, date le difficoltà produttive che il film incontrerà e gli ostacoli che impediranno a Kurosawa di realizzare film in America e in Giappone, questo primo lavoro a colori del regista ci appare come il segno di una crisi profonda nella sua carriera e nella sua vita, un tragico punto di svolta che lo condurrà pochi anni più tardi al tentato suicidio.
Dodes'ka-den risulterà essere un clamoroso insuccesso di pubblico e in parte di critica e segnerà la fine della neonata casa di produzione che Kurosawa aveva fondato con tre fra i migliori registi giapponesi dell'epoca: Kinoshita, Ichikawa e Kobayashi. E solo dopo aver tentato senza successo la via dei grandi studios hollywoodiani(Kurosawa fu cacciato dal set di Tora!Tora!Tora!) il regista riuscirà a trovare nella casa di produzione moscovita Mosfilm la collaborazione migliore per girare la sua venticinquesima pellicola, Dersu Uzala.
Nel 1975 la storia di questo piccolo uomo e la sua amicizia con il capitano Arseniev fecero il giro del mondo e tutt'oggi continuano ad essere uno dei film più popolari di Kurosawa. È un film che commuove e coinvolge, che mescola scene di azione e di avventura pura a scene di intenso impatto emotivo, un film insomma che ha tutte le carte in regola per essere un successo commerciale. E la trattazione di temi e di generi tanto amati dal grande pubblico non impedisce al sessantacinquenne regista di Tokyo di creare un ennesimo capolavoro, e questa volta, forse più che in qualsiasi altro suo film, con un grado di coinvolgimento personale molto superiore. Non bisogna infatti dimenticare che è questo il primo film che Kurosawa realizzerà dopo la crisi lavorativa e la grave depressione che lo colpì all'inizio degli anni settanta e non è dunque illegittimo interpretare questo personaggio unico come un ritorno alla vita, una rigenerazione spirituale oltre che creativa.
Lo struttura narrativa scelta da Kurosawa è quella di un lungo flashback: il capitano, ritornato dopo molti anni nel luogo dove aveva assistito alla sepoltura di Dersu, non trovando più quel bastone piantato nel terreno, rivive la sua amicizia con il piccolo cacciatore gòld, dalla sua prima apparizione, fino al giorno in cui si salutarono per l'ultima volta.
Succede frequentemente, e non solo nelle pellicole di Kurosawa, che la prima inquadratura sia un indizio che il regista concede allo spettatore, e insieme una chiave di lettura della sua opera; e se questo è vero per molti film e molti registi, non vi sono dubbi che per Dersu Uzala la prima inquadratura custodisca il senso, non soltanto del film, ma anche di quella più ampia concezione dell'uomo e del suo ruolo nel mondo che fin qui si è tentato di esporre. Si tratta di una scena brevissima, di quattro o cinque secondi appena: ci appaiono le cime degli alberi di una vasta foresta che si confondono nella nebbia; la telecamera scende lentamente verso il basso e inquadra diversi uomini alle prese con travi e tronchi di legno, alacremente impegnati nella costruzione di case e strade. Il loro frenetico andirivieni ai piedi della taiga, e le loro piccole sagome sovrastate da alberi alti trenta metri, compongono questa prima, programmatica, inquadratura del film. È stupefacente come in questa inquadratura, al pari della tela di un maestro, sia davvero racchiuso il senso di un cammino e di una vita, e di come si possa parlare con sicurezza di pensiero di ascendenza leopardiana per questo film e, più in generale, per l'opera di Kurosawa. La foresta, in tutta la sua grandezza e immobilità, incombe sull'azione umana, inconsapevole, gioiosa. E questa infantile fiducia nelle proprie forze, quest'ottimismo lavorativo che pervade tutta la scena, è caratteristica precipua della città giovane, ancora in costruzione, fiduciosa perché ancora non sembra aver conosciuto la minacciosa severità di quegli alberi impassibili: Una tomba?, chiede stupito uno dei lavoratori al capitano Arseniev, ma se non abbiamo nemmeno il cimitero! E non a caso il film, dopo questo breve preambolo, si apre con una scena di grande vitalità e allegria ritraendo la pattuglia del capitano che si addentra nella foresta senza temere nulla, cantando. Il loro umore è presto destinato a mutare, sembra suggerirci il regista inquadrando uno ad uno, in primo piano, quei volti spensierati. E a sera inoltrata una volta calate le tenebre e popolata di voci la foresta, il sentimento di minaccia e di tetraggine emanato dal luogo scelto per l'accampamento è comune a tutti i componenti del gruppo, come annota il capitano nel suo diario. È in questo contesto che un franare di pietre annuncerà l'arrivo di Dersu Uzala.
Dersu viene dal buio, difficilmente riconoscibile- verrà scambiato per un orso- perché il suo modo di vivere gli impone di con-fondersi con i luoghi che abita; e certo viene dal buio, dal fuori campo, dal dietro le quinte, come un deus ex machina proviene da un luogo sconosciuto; la sua venuta all'accampamento ha qualcosa di religioso e di rivelatore per quei soldati sperduti, è una guida, un'apparizione benevola che offre loro la sua protezione. E con l'arrivo di Dersu inizia il lungo processo di conoscenza dell'altro che il capitano prima, e i suoi soldati ad un altro livello, sperimenteranno durante il periodo in cui il cacciatore accetterà di fare da guida alla pattuglia. Nella conversazione della prima notte con Dersu emerge subito l'affinità che avvicinerà il cacciatore e il capitano, ed emerge per contrapposizione all'incomprensione che sempre ostacolerà i rapporti con il sottufficiale. La fragorosa risata con cui il capitano accoglie la battuta di Dersu riguardo alla presunta abilità del sottufficiale nella caccia, è già in nuce la miracolosa amicizia che legherà i due nel corso della spedizione e negli anni successivi, e nello stesso tempo il rispetto che il capitano concede a questo piccolo uomo venuto dal nulla- la notte di tempo per riflettere sull'offerta di fare da guida al suo gruppo- è il passo più importante e decisivo che può compiere verso il cacciatore, una dichiarazione di appartenenza alla stessa umanità.
Il ruolo di guida assunto da Dersu si può paragonare a quello di una guida spirituale nei confronti dei suoi adepti. La cecità che caratterizza i soldati e il capitano-ma per quest'ultimo un'ancora di salvezza è rappresentata dal suo sguardo aperto e dalla sua capacità di apprendere con rapidità- si accoda lentamente, e non senza qualche resistenza, agli occhi penetranti di Dersu, che sa leggere la foresta e i suoi simboli perché il suo essere appartiene alla foresta stessa e il cordone ombelicale con cui la natura lo nutre non è mai stato reciso. "Voi lo stesso che bambini. Vostri occhi vede niente! Se voi in taiga soli, voi subito perduti!", dice Dersu ai soldati increduli. E la prima parte della spedizione e del film sarà occupata dalla lenta emersione dell'eccezionalità di quest'uomo agli occhi appannati dei soldati.
Ma Dersu non insegna loro soltanto a muoversi nella foresta ma dà loro una lezione più importante, più zen, più tardo-leopardiana, più kurosawiana. Dersu, il cacciatore solitario, ha una fiducia illimitata nell'uomo perché lo vede appartenente alla sua stessa specie, ed è convinto che un uomo non possa che volere il bene di un altro uomo. È evidente che la sua fiducia nasce dalla comune battaglia combattuta dall'umano, nella foresta, contro le forze soverchianti degli elementi naturali. La sua mano tesa a un uomo mai conosciuto e che mai conoscerà- la manciata di riso e i fiammiferi- è l'espressione di questo suo indissolubile legame con la specie umana e nello stesso tempo il chiaro segno che un'esistenza solitaria non ha cancellato in lui l'amore e la pietà. Qui anzi,sembra indirettamente evocata la teoria per cui a più spazio concesso all'uomo corrisponde una maggiore solidarietà e una minore aggressività, confermata del resto dal fatto che l'assenza di spazio è una delle caratteristiche principali dell'inferno, nonché forma punitiva prima.
Il vecchio cinese rappresenta il suo alter ego, la parte sommersa dell'umano e dell'uomo Dersu, che vive nella foresta, in totale solitudine, ma la cui vita è dominata dal dolore e dalla paura. Il vecchio è l'escluso dal consorzio umano, è colui che ha scelto una vita di eremitaggio per reazione alla malvagità umana e alle sofferenze inflittegli dagli uomini, e ha perduto il dono della parola perché la parola non ha più né senso né utilità; la sua umanità rivive forse ed esclusivamente nei riti e nel rispetto, misto a paura, che concede a quei soldati stranieri.
Si avverte qui quella contrapposizione che si esprimerà più direttamente nella parte finale del film, tra Natura e Civiltà, tra foresta e città. L'uomo che vive a contatto con alberi piante animali è sì, e come logica conseguenza, più adatto a percorre sentieri, a seguire animali, a leggere le tracce sul terreno, ma sviluppa anche un altissimo senso religioso assente(o indirizzato altrove) nell'uomo civilizzato. Il suo incedere attraverso la foresta è certamente sicuro, ma è nutrito dalla sua comunione con i luoghi, dal suo essere nella natura, e dal suo costante rapporto di rispetto e paura nei confronti degli spiriti che abitano alberi, piante, animali. E si noti come la sua immersione nella taiga non è, come può sembrare a prima vista, una fusione idillica dell'uomo con la natura, un eden lontano da qualsiasi tentazione, ma è il perfetto, stupefacente adattamento dell'uomo alle condizioni in cui è stato costretto a vivere. Dersu non coltiva sentimenti di amore sconfinato nei confronti della foresta. Egli vive battendosi contro le avverse circostanze, conscio dei terribili pericoli in cui un uomo può imbattersi nel corso della sua vita. È sintomatico allora di questa visione che il piccolo uomo divida gli spiriti della foresta- o omini- in buoni e cattivi, in distruttori e creatori. Il sole ha sempre un volto benevolo, amico, come la luna e la terra, e non come il fuoco o il vento, che al contrario possono dare terribili segni della loro collera. E in questa taiga popolata di spiriti che cantano nella notte e che accompagnano con la loro inquietante presenza la vita dell'uomo, un posto importante è occupato dallo spirito distruttore di anime, quella Mamba da cui Dersu è terrorizzato, che si aggira insinuante per la foresta. Per un cacciatore gòld della taiga russa, Mamba è il principio del caos, è la dea Kali, è Satana e Dio stesso, è il potere divino che si realizza nell'animale tigre, essere carico di mana e perciò da evitare.
Se si può dire che Dersu rappresenti con la sua tenacia e la sua abilità l'uomo che davanti all'enormismo della natura e dei suoi elementi reagisce con le armi dell'ingegno- l'invenzione che salva la vita al capitano-, sta forse nella sua tremenda paura della morte la cifra della sua umanità. Dersu ha sì sviluppato un altissimo senso religioso(o spirito creativo), ma il suo animo puro ed ingenuo non sembra riuscire, immerso nella solitudine della foresta, a superare il dramma della morte. Lo si vede con chiarezza nella scena in cui racconta al capitano il suo passato di dolore e sofferenza, la sua famiglia uccisa dalla peste, la sua casa bruciata. E lo si vede con maggior evidenza nell'ultima parte del film quella in cui Dersu, nel tentativo di scacciare la tigre, le spara attirandosi le ire dello spirito maligno e distruttore. Da quel momento Dersu cambia, e il suo cambiamento emotivo coincide anche con la sua metamorfosi fisica e la sua progressiva e inarrestabile cecità. Il cacciatore sembra presentire la sua fine imminente, e ciò che la decreterà non è uno spirito o una tigre, ma un male più sottile, silenzioso- come il male di Watanabe e dei malati del lazzaretto- che avanza invisibile a porre fine alla vita dell'uomo.
Dopo la certezza della sua cecità incipiente, dopo cioè la commovente scena in cui tenta invano di colpire una bottiglia appesa a un filo, Dersu cerca l'aiuto che non ha mai cercato prima, si aspetta qualcosa dagli altri, e in un accesso di terrore si getta ai piedi del capitano pregandolo di portarlo con lui in città: è l'ultimo errore che compirà nella comprensione di sè. Il Dersu di città infatti è l'errore che il Dersu cacciatore deve compiere per praticare la sua inconsapevole via verso la serenità e la pace. Dersu deve accettare il proprio destino ritornando a vivere nella taiga. La città, con i suoi nuovi riti, con le sue assurde leggi di convivenza, è per lui una prigione, una scatola in cui il cacciatore soffoca e sente la mancanza dello zibellino. Il suo ritorno alla taiga ha perciò tutte le caratteristiche di un ritorno epico- la consegna del fucile per esempio, quasi un'investitura-, di un'ultima battaglia in cui, come il Macbeth shakespeariano, Dersu ritrova la sua nobiltà. E nell'ultima scena del film, in cui l'indifferenza del funzionario dell'esercito e dei becchini cozza con il dolore vero del capitano, si intona il requiem per questo piccolo uomo delle grandi pianure, i cui testimoni del suo passaggio sulla terra, sono accanto a lui: il capitano Arseniev, col capo chino, il suo bastone piantato nel terreno, e la muta foresta che inghiotte il suo corpo esanime.
Con la morte di questo suo eroe inconsapevole, Kurosawa torna a ribadire i temi trattati nei film precedenti, ma forse con maggior forza, e forse questa volta rivolgendosi davvero a tutti. La morte di Dersu è l'invito alla comprensione di sé e insieme un simbolo dell'accettazione del proprio destino. Non è soltanto la constatazione della sofferenza umana, un arrendersi al dolore, ma come per la dottrina zen, è l'affermazione che le avversità della vita, quando affrontate, ispirano a fare uno sforzo per evitare la sofferenza. Come dice Barbarossa al suo giovane allievo: "Se il cibo non è buono, mastica e scoprirai il sapore".