The Passion of The Christ: considerazioni
di Simone Spoladori
Una premessa è doverosa accostandosi a questo The Passion, terza fatica registica di Mel Gibson: si tratta solo e soltanto di un film. Una precisazione non così scontata come a prima vista potrebbe sembrare, visto lo sconcertante interesse mediatico e, purtroppo, non solo che questo nuovo film su Gesù ha suscitato. Una testimonianza emblematica dell'incredibile potere di penetrazione psicologica di quest'opera è il sito http://www.themiraclesofthepassion.com, dove ci possiamo imbattere in incredibili testimonianze di vite profondamente cambiate dalla visione di questo film: si va da chi ha preso i voti, a chi si è semplicemente convertito, fino ad un pluriomicida che si è costituito ad anni di distanza dalla fine della sua "carriera", consegnandosi all'esterrefatta polizia schiacciato dal senso di colpa che il film di Gibson gli ha suscitato. Abbiamo anche i tristi casi di due donne stroncate in sala dall'emozione suscitata dalla cruda violenza del film. La precisazione che si tratti solo di un film serve anche per "censurare" stupefacenti attestati di stima nei confronti del regista, come quello di Giuliano Ferrara su Il Foglio, che definisce Gibson "il Quinto Evangelista", senza, peraltro, aver ancora visto il film.
Proseguendo con le premesse, ma avvicinandosi gradualmente al film, è buona cosa soffermarsi proprio su Mel Gibson, sia sul piano artistico, sia su quello personale. Si è detto in precedenza che il regista australiano vanta solo due precedenti esperienze registiche, L'Uomo Senza Volto e Braveheart. Il primo è un commovente racconto che ha per protagonista un uomo sfigurato, il secondo è la storia del patriota scozzese William Wallace, un kolossal storico di cui però, nel nostro discorso, prendiamo, per un attimo, in considerazione soltanto una sequenza: la brutale ed efferata tortura del protagonista, un'unità narrativa di grande violenza, assolutamente slegata dal contesto del film. Interessante notare come Wallace abbia una pesante trave di legno legata sulle spalle, in una posizione che ricorda da vicino quella della Crocifissione. Queste osservazioni ci consentono di notare come Gibson abbia una sorta di predisposizione alla rappresentazione di corpi sfigurati, un interesse, forse, morboso, per la sofferenza fisica e le ferite della carne.
Sul piano personale, è pertinente ad un discorso sul film in questione una ricognizione generale sulla visione religiosa del regista australiano. Gibson, infatti, appartiene ad un movimento cattolico conservatore che non riconosce il Concilio Vaticano II, tenutosi tra il 1962 e il 1965, "aperto" e voluto da Giovanni XXIII. I punti salienti del Concilio rigettati sono "l'apertura" della testimonianza evangelica ai laici (il che stride con la volontà di rappresentazione della Passione di Cristo da parte di un regista "laico"), la riforma della Messa (Gibson si è fatto costruire nel giardino della propria villa a Malibù una cappelletta in cui la Messa è rigorosamente recitata in latino e l'Eucarestia non è facente parte della Celebrazione), l'apertura verso le altre religioni e la cancellazione delle responsabilità ebraiche nella morte di Cristo. Da queste considerazioni, passando all'analisi del film, possiamo comprendere la provenienza di alcune scelte stilistiche, narrative, estetiche e "linguistiche" di Gibson.
Partiamo proprio dalle scelte linguistiche. Come ormai tutti sanno il film è recitato in aramaico e latino, sottotitolato nella lingua del paese in cui è distribuito. Questo per una sorta di realismo maggiore e per aderenza alla celebrazione classica della Messa. Alcuni studiosi hanno sottolineato come, con massima probabilità, nelle regioni periferiche dell'Impero Romano del I secolo d.C., la lingua parlata, specialmente nelle interazioni fra i popoli indigeni e i romani conquistatori, fosse il greco. Un greco assai semplificato, forse, di natura pratica e commerciale, ma diffuso probabilmente come lingua più diffusa.
Dal punto di vista narrativo Gibson si è dichiarato assai fedele ai Vangeli, tuttavia è facile riconoscere alcuni episodi che non ne fanno assolutamente parte. La maggior parte di questi non provengono, come è stato scritto, da Vangeli apocrifi, bensì dalle "visioni" di una mistica tedesca in odore di beatificazione dal nome di Anne Catherine Emmerich. I più evidenti fra questi episodi sono quelli legati alla figura del Diavolo, interpretato da Rosalinda Celentano, figlia di Adriano, doppiata con voce maschile.
Sulle scelte stilistiche e di "taglio", il film ha suscitato polemiche e reazioni contrastanti principalmente su due questioni: la violenza di alcune sequenze e l'antisemitismo che il film sottenderebbe. A proposito della violenza, il mondo religioso, quello cattolico in particolare, si è diviso in due, tra chi, da una parte, difende a spada tratta il film ritenendolo un fedele e devoto ritratto di ciò che realmente è accaduto a Gesù, e chi, dall'altra, ha trovato eccessivo e insopportabile il "macello" filmato dal regista.
La critica cinematografica ha, con poche eccezioni, trovato poca logica nelle scelte del regista australiano. In particolare colpiscono due sequenze, la flagellazione e la crocifissione, preceduta dall'ascesa al Calvario. Sulla flagellazione premettiamo doverosamente che la legislazione romana prevedeva 39 frustate, cioè quaranta meno una, per i condannati, mentre quelle di Gibson sono un'ottantina. Gibson si è giustificato dicendo che "l'uomo della sindone è un uomo senza più pelle". Allora, ci permettiamo di osservare, l'uomo della sindone ha i pollici girati verso il palmo della mano, perché i chiodi gli sono stati conficcati nei polsi e non nei palmi. Perché, allora, seguire la Sindone in un caso e nell'altro no? Resta comunque l'enorme perplessità di fronte alla scelta di filmare un'azione ripetuta così tante volte in tutto il suo svolgimento, senza ellissi, senza variazioni temporali. Il risultato è che, superata l'innegabile shockante emozione iniziale, la scena risulta noiosa. Sulla crocifissione, si è già detto sopra sui chiodi nelle mani e non nei polsi. Questo, si badi, non è un errore, perché spesso i romani usavano questa forma di crocifissione servendosi di lacci per tenere il condannato sulla croce. E' questo il caso del Gesù di Gibson, che però, si è già detto, non coincide con quello della Sindone.
La salita al Calvario è un'altra sequenza lunga e ripetitiva, in cui, tra l'altro, Gesù porta l'intera croce e non solo la trave longitudinale, come vorrebbe la tradizione e che giustificherebbe la lussazione alla spalla che, tradizionalmente, costringe il Centurione a lussare il gomito di Cristo per distendergli il braccio, presente nel film. Queste imprecisioni storico-evangeliche si sommano ad altri errori addirittura più grossolani: in un flashback tutto sommato riuscito, Gesù ricorda il rapporto con Maria, la madre, in tempi felici. Ricorda una mattina di lavoro nel costruire un tavolo, e il gioco affettuoso con la madre che lo invitava a rientrare per il pranzo. Un unico neo: Gesù non era un falegname, come il padre, ma un carpentiere. Altra imprecisione: Monica Bellucci è la Maddalena, ma, deduciamo da un altro flashback, è anche l'adultera, la donna che Gesù salva dalla lapidazione. Gibson mescola i due personaggi, non sappiamo se volontariamente. Non sappiamo come mai, inoltre, sulla croce l'iscrizione irrisoria posta sopra il capo di Cristo, il "titulus crucis" non sia scritto anche in greco.
Passando all'antisemitismo, forse sarebbe opportuno ricollocare la presunta visione antisemitica del film in un'ottica più generale concernente lo spessore dei personaggi di The Passion. Con poche eccezioni, che analizzeremo più avanti, sconcerta l'assoluta piattezza delle figure tratteggiate dal regista australiano. I centurioni sono tutti sadici, efferati e pure assai brutti, i sacerdoti del sinedrio sono malvagi e mancano di complessità, risultando come incomprensibili giudici di morte.
Ma l'apice è raggiunto con Barabba. Il criminale, ci viene tramandato, era il leader degli zelati, una frangia anti romana degli ebrei. Era un capo politico, quindi, presumibilmente, un uomo carismatico, di personalità, tant'è vero che ha sempre acceso la fantasia di scrittori e intellettuali, originando una letteratura a lui dedicata incentrata sugli eventi successivi all'incontro con Gesù che ha come punto più alto il romanzo del 1950 del belga Par Lagerkvist, da cui è stato poi tratto il bel film con Anthony Quinn. Gibson ci mostra un Barabba ferino, bestiale, una specie di uomo-bestia, che salta tra la folla dopo aver mostrato, trionfante, la lingua ad un centurione. Chissà se Gibson sa che Bar-Abba vuol dire "Figlio del Padre" ed era il nomignolo degli orfani di padre. Che sia questa l'origine delle movenze ferine del ribelle?
Si diceva sopra di personaggi ben riusciti. L'esempio più importante è quello di Maria, ben interpretata da Maia Morgenstern, attrice rumena, che ne accentua il lato umano, di madre sofferente e rassegnata, creando una figura commovente e delicata. Straordinario, e quindi raro, il flashback in cui la donna accosta la caduta del figlio sotto la croce durante l'ascesa al Calvario ad uno scivolone di Gesù da bimbo, constatando l'impossibilità di soccorrerlo come allora. Bellissima anche la scena in cui, dopo l'orrenda flagellazione, alla Madre, sconvolta, non resta che asciugare il sangue di Gesù che ricopre il pavimento. Positivo anche il personaggio di Giuda, e soprattutto pregevole è la sequenza del suicidio del personaggio, il cui delirio intessuto dai sensi di colpa è reso attraverso la presenza di piccoli, demoniaci bambini che lo inseguono urlando, a rappresentarne i rimorsi. Per cui, tornando ad rem nostram, la visione antisemitica ci sembra una risultante di un appiattimento dei personaggi verso il basso, salvate queste eccezioni, che porta ad una manichea visione della storia e del mondo narrato, e che produce uno strappo profondo tra i "buoni" della storia e i cattivi. Gli ebrei, naturalmente, sono fra i più cattivi.
Su altri due punti è necessario spezzare una lancia in favore del film. In primo luogo il film è indubbiamente suggestivo sul piano visivo. Gibson, infatti, si rifà, per la costruzione fotografica della propria opera, ben coadiuvato dal direttore della fotografia Caleb Deschanel, ad alcune opprimenti raffigurazioni pittoriche medievali del XIII secolo, riprendendone, soprattutto, le tonalità livide, la predominanza del beige e il colore cupo del sangue, e cita alcune opere di natura religiosa del Caravaggio.
Altra nota positiva per l'assurda ma coraggiosa sequenza finale del Pianto di Dio. Spirato Gesù, infatti, la macchina da presa si alza a volo d'uccello sul Calvario, quasi a creare un'inquadratura satellitare, e si ferma ad osservare la scena dall'alto; una leggera patina deforma l'immagine, fino a cadere sulla terra sotto forma di goccia d'acqua. E' una pazzesca soggettiva di Dio, impensabile, teologicamente discutibile (perché Dio dovrebbe piangere proprio al compimento della missione salvifica di Gesù?), ma emozionante e, finalmente originale, che risalta in una sterminata sequela di ralenti scontati e, spesso, fuori luogo, di sequenze assurde da kolossal (il terremoto finale) o da film d'azione, di flashback che liquidano in pochi secondi momenti che, sebbene estranei alla Passione di Gesù, ne esplicano il messaggio e sono alla base del sacrificio cristiano. E soprattutto risalta davanti alla deludente sequenza successiva, la Resurrezione, esaurita sbrigativamente in venti secondi, mettendo ancora in primo piano le ferite di Gesù, le stimmate, quasi a sottolineare, ancora una volta, che la sofferenza e la morte sono la parte fondamentale del messaggio.
Un'ultima notazione è resa indispensabile dalla concomitante uscita al cinema della versione restaurata dal Centro Sperimentale del Vangelo Secondo Matteo di Pasolini. Il film di Gibson condivide con quello pasoliniano l'ambientazione: Matera. Gli esterni di The Passion, infatti, sono stati girati nella città della Basilicata, ed è l'unico legame fra le due opere, nonostante il regista australiano abbia spesso citato Il Vangelo Secondo Matteo come un modello. Ci permettiamo di ricordare a Mel un proverbio che dice: scherza coi fanti, ma lascia stare i santi. In tutti i sensi.