Precipitare nel Nero: note a margine del cinema di Abel Ferrara
di Fabio Pezzetti
Immagini impresse nella retina – nella nostra meravigliosa deficienza fisiologica che permette l'atto del cinema – permangono nel nostro cervello e scavano, scavano e danno e chiedono emozione; chiedono, per la loro natura non indifferente, una partecipazione non passiva del corpo che in quelle immagini si immerge, come nel buio della propria coscienza ipnotizzata nell'atto del vedere, come nel nero della pellicola, là dove la fantasia – l'immagine del sogno, la nostra profonda natura onirica – perde il freno e crea l'immagine sull'immagine, in un cortocircuito di sensualità ed erotismo.
È l'erotismo del cinema, la sensualità della macchina da presa che ruba la vita ai corpi e ai volti che inquadra e che rimette in gioco sullo schermo – sugli schermi, perché il cinema è un atto collettivo che accade in più luoghi – l'inevitabile, impercettibile sfascio di quei corpi e di quei volti ("la Morte al lavoro", come diceva Jean Cocteau), quello che Abel Ferrara cerca ed interroga in un ininterrotto calarsi nel buio. Perché è il buio, il nero – quello più profondo – tagliato da una lama di luce che spande su di uno schermo immagini e visioni, il liquido amniotico in cui il cinema può, passando dal suo statuto di immagine bidimensionale, con una magia che ogni volta si rinnova e che sempre stupisce, farsi di carne e sangue, sentimento, gioia, dolore e bestemmia.
Per Ferrara il cinema è l'atto vitale, in sé concluso, con tutta la semplicità e inesplicabile complessità della vita. Lontano da ogni intellettualismo, per il regista "fare film è come respirare, è molto semplice. È quello che amo" (1). L'amore per il cinema, "dove vedere un film è più significativo che sapere chi l'ha fatto e come" ed in cui "fare un film è più significativo che vederlo" (2), si dà nel momento sensuale-sessuale del filmare e del dirigere gli attori, nel piacere dell'abbandono, nel godimento dello scavalcare il limite tra vita e set, nella fisiologica necessità di coniugare – in un'esplosione che fonde il limite ed allarga le possibilità – la finzione della vita con la verità (24 volte al secondo) del film. La sintesi ultima della realtà, il viaggiare parallelo, sincrono, di cinema e vita è la scoperta dell'inesistenza di una frattura tra i due termini: "cos'è" in fondo "la vita reale? Sul set, davanti alla macchina da presa, non sarebbe più vita reale? Cos'è, si passa in un'altra dimensione quando si gira un film?" (3).
Il suo è un cinema – "baluardo […] di passione e realtà" (4) – che, sfrondandosi da ogni paludamento tecnicistico o estetico ("Perché starsi ad angosciare? Non so neanche cos'è un'opera d'arte" (5) ), accetta la grande sfida dello "sporcarsi le mani con la carne degli uomini", del venire a patti con l'abbandono estatico dei corpi che franano nella ricerca e necessità di corruzione e sbando, trovando "una privata via sensuale, carnale, al film" (6), in cui la realtà scorre davanti all'occhio erotizzante-erotizzato della cinepresa che chiama e crea l'esplosione della finzione e della convenzione. La costante ricerca di fusione dei corpi con la celluloide della pellicola, quasi a voler far entrare con la violenza la tangibile fisicità dell'attore nella macchina da presa che è essa stessa violenza defraudante, rapacità dello sguardo che spoglia e scopre ogni vergogna, ogni neo, ogni macchia fisica e morale, è la volontà, il desiderio che chiede costante e tangibile soddisfazione, tanto nella pratica della visione (7), quanto in quella, precedente eppure sempre considerata come contemporanea, della produzione delle immagini che quella visione soddisfano.
L'elemento vampirizzante del cinema – della macchina cinema, la disumana res che si umanizza nel "succhiare" la vita che scruta e viviseziona – è acquisito e metaforizzato dal regista, non solo "ladro di cinema, ma vampiro di vite e di corpi" (8). In King Of New York, uno degli uomini del "re" Frank White contatta il mafioso cinese Wong in un cinema dove si proietta il Nosferatu di Murnau (9); lo stesso White – un Christopher Walken di elegante pallore – è una sorta di azzimato abitatore della notte, anni prima delle discese negli abissi filosofici del peccato e della colpa indagati da The addiction, in cui Walken interpreterà, questa volta fuori d'ogni metafora, un vampiro. Ma l'elemento vampirizzante, lungi da un'interpretazione univoca, si sfalda e si scinde nel piacere della visione, l'atto amoroso-sensuale dell'acquisizione dell'immagine, nell'istante in cui – fatta carne ed erotizzata – viene amata e posseduta. L'erotismo della visione, del cinema, viene esplicitamente accompagnato dal suo risvolto più prossimo e sempre sottilmente richiamato – da Ferrara e, in ultima analisi, dal cinema tutto, del quale è vocazione ontologica, essenza – ovvero la Morte.
In Fratelli, Johnny Tempio viene ammazzato all'uscita del cinematografo dove ha appena visto La foresta pietrificata di Archie Mayo, e la sua morte, proprio come tutte le altre morti sul grande schermo, non sazia altro che il nostro appetito di vita – di noi spettatori, ingordi di carne e sangue che non siano nostri ma a cui dare la nostra pelle e i nostri sentimenti – la nostra incessante necessità di penetrare e conoscere "altri" corpi. Il dialogo dei corpi, la deriva dei corpi – nell'alcol, nella droga, nel sesso – sono l'elemento di continuità di un cinema "antropocentrico" che tra la modernità dell'occhio invisibile e la postmodernità del gioco cinematografico […] cerca uno sguardo radicale che rischi l'esplosione della finzione […] e diventi documento dell'organismo nell'istante, impassibilmente-vita. (10)
La vocazione documentaristica, per cui "ogni film è un documentario", l'occhio privato ("Datemi una cinepresa e un attore e levatevi di mezzo", dice Harvey Keitel in Occhi di serpente) dell'indagine sull'uomo è divenuto l'elemento totalizzante, estremo, a cui anche la regia si piega: o, meglio, la regia si plasma (e plasma la prestazione attoriale) (11) in un continuo interscambio che ha come solo scopo la volontà di cadere verso il basso nel pozzo senza fondo dell'anima, accedendovi dalla sua unica entrata: il corpo.
Due colori sembrano dominare – almeno idealmente – il cinema di Ferrara: il rosso ed il nero.
Una sottile linea, rossa come il sangue, percorre per intero la sua filmografia, legando tra loro opere diseguali e variamente sentite ed amate (quando non addirittura rinnegate, come nel caso di Oltre ogni rischio): il rosso, il colore del sangue, della colpa e del desiderio, dell'estasi della carne nel proprio ricercato martirio, è anche il colore del sacro che questo cineasta italo-americano, figlio del Bronx e del cinema di genere, ha ostinatamente indagato in una sorta di vocazione ontologica.
Il nero è il colore in cui tutti gli altri, assorbiti, si annullano: è il colore referente del buio della sala (in cui il film viene "affidato alla fisicità dell'esperienza " (12) che si crea rapporto intimo con il pubblico) e del grande inganno (la grande magia) del cinema: quando vedi un film con un proiettore, sono ventiquattro fotogrammi al secondo, stop e avanti, stop e avanti. Se si mettono insieme tutti i neri, lo so che sembra stupido, si scopre che il pubblico sta al buio per otto, dieci minuti, ed è lì che lavora la tua immaginazione. (13)
E il buio della notte metropolitana (14) – "prediletta amica fotogenica della libido" (15) – newyorchese, il grande nero spezzato dalle smorte luci al neon che splendono sguaiate nel tempio della perenne offerta, del continuo mercato (di oggetti, esseri, amori, droga…), è l'habitat di questo poeta ubriaco – dal viso sfatto e dal passo obliquo – che urla storie in cui l'oscurità è scesa da un pezzo ma non accenna a finire, in un lungo viaggio al termine della notte in cui la ricerca della realtà è perseguita attraverso lo strumento a doppio taglio del genere, il trampolino di lancio per una disincantata, lucida e sofferente (sofferta) presa diretta documentaristica sull'abisso tragico in cui l'uomo contemporaneo è in equilibrio precario.
La costante preoccupazione di lavorare all'interno delle sicurezze del genere per avere – paradossalmente – più chances di rischio, per fare un cinema che è l'atto d'orgoglio e sfida del trapezista che si lancia nel vuoto senza la rete di sicurezza, procede dalla negazione dell'assunto spettacolare a favore di una scarnificata presa diretta su una realtà umana e morale in degrado e fa di Ferrara "un guastatore, un pericoloso giocatore libero ai confini del mainstream e del cinema di consumo" (16) che tradisce le stesse leggi che ha assunto come modello costitutivo del suo fare cinema.
A tutt'oggi, il cinema di Ferrara si presenta come una continua scommessa, una costante re-invenzione di generi, topoi, materiali (dis)omogenei, che si frantumano, si mescolano e si fondono nel melting-pot borderline di un regista che sembra aver fatto dell'inquietudine e dell'angoscia uno dei suoi tratti più marcatamente caratteristici.
Ferrara accetta in toto la sfida che l'ancoraggio al genere presuppone: l'utilizzo di modelli di proposizione e fruizione risaputi, l'incasellamento nelle pratiche del cinema "basso", "quello che parla delle situazioni della città in cui vive, […] che mette a disposizione parabole e personaggi per sacre rappresentazioni senza lieto fine e senza parole definitive" (17), ma che sempre corre il rischio di essere circoscritto e frainteso proprio in virtù della codificazione affermatasi dopo decenni di relazione spettatoriale con le forme della narrazione e che assume anche le forme di "una possibile, presumibile o disattesa, opposizione tra cinema di consumo e film d'arte" (18).
Abel Ferrara ha sempre lavorato all'interno dei limiti (limiti?) del cinema di genere, attuando una precisa volontà di destrutturazione delle forme accettate e riconosciute, sia dai cineasti che come lui si sono trovati ad operare in un medesimo contesto produttivo, sia dagli spettatori, che utilizzano l'approccio del genere come punto d'entrata privilegiato – e facile – nell'universo filmico, spesso riducendo il concetto "a un povero utensile per il riposo della mente" (19).
Non riconciliato al carattere facilitante dello strumento-genere, Ferrara, "guastatore mimetizzato nel sistema" (20), lo utilizza per le proprie personali indagini, "cercando il gene passionale dell'azione […] per indagare i bisogni dietro i conflitti" (21): la macchina produttiva-spettatoriale (22), garanzia (che può essere tradita) di situazioni e personaggi riconoscibili anche se solamente sbozzati, viene trasformata nel catalizzatore delle ossessioni metropolitane, degli incubi della fine del secolo in un'America che si fa paradigma del mondo, in una rifondazione dello spirito della tragedia in una società, quella contemporanea (perlomeno quella Occidentale), che ha perduto il senso del tragico. Si fanno sempre film di genere. Cerchiamo di rompere le convenzioni, di raggiungere una verità più profonda e di esprimere quello che c'è sotto. Facciamo dei film di genere perché sono accessibili. (23)
L'accessibilità fornita dal genere non è solo il cartellino identificativo attraverso il quale lo spettatore può riconoscere il "prodotto" e sentirsi sicuro di fruire un film che corrisponderà alle sue aspettative (24), ma anche il mezzo attraverso il quale è possibile riuscire a trasporre – parlando un linguaggio inteso dai più e possibile di interpretazioni su più livelli – la tragedia classica. Non credo affatto ai drammi mondani alla Luchino Visconti. La tragedia si adatta male allo smoking ed agli sparati di pizzo: è terribilmente incanaglita. La tragedia è la morte bella e pronta che si incontra nel mondo dei gangster o in un periodo particolare, come la guerra. (25)
Il noir, il poliziesco, il film di mafia, l'horror nelle sue varianti che vanno dallo splatter (il primo, acerbo e punkeggiante Driller Killer) fino al film di vampiri, diventano l'incubatore in cui la lente analizzatrice della macchina da presa riporta al centro dell'arena – dello schermo, dell'occhio e del cuore, senza la mediazione razionalizzatrice del cervello – le domande escatologiche fondamentali, producendo una filosofia dell'azione che muove solo in secondo luogo verso il pensiero, ma che non può darsi senza esso. Eppure, in Ferrara (e nel suo sceneggiatore Nicholas St. John, almeno prima della rottura avvenuta successivamente a Fratelli) l'azione è già pensiero o, meglio, porta in sé il germe del pensiero e della possibilità dell'intelligibilità della natura personaggio al di là di ogni parola. Credo che i film si facciano per parlare alla gente. E sia per Nicky [St. John] che per me, far vedere due che si pestano in un vicolo dice di più sulla loro natura che quindici minuti di conversazione. Di fatto Nicky usa l'azione per incentrare il film sulla psicologia dei personaggi. (26)
I personaggi ferrariani sono consumati da una passione, da un interno tormento che li porta all'agire, spesso contro le regole della società, ancor più spesso contro se stessi, e a trovare, nelle conseguenze dei loro atti, non tanto una risposta bramata alla necessità di senso dell'esistenza, quanto piuttosto una personale via di fuga che si risolve nella scoperta dell'assurdità dell'esistenza (27). La scoperta di quest'assurdità segna l'innestarsi della presenza del tragico nella vita quotidiana, una vita sempre sul limite dell'abisso: e l'abisso è il cuore dell'Uomo, che è vizio e passione (28). L'immersione nell'universo notturno della città, che è specchio e metafora dell'abisso universale che si è aperto nel cuore dei suoi personaggi ( e che si è aperto nel suo cuore e nel nostro, sembra urlarci il regista) e che chiede di essere colmato, pur nella coscienza dell'impossibilità fisica di un simile atto, è lo sbandamento dei sensi che si incarna nel medium cinema.
Ferrara, che crede in un cinema di passione e di uomini che rischiano nel proprio darsi, usa lo specchio sformante del genere per mostrarci il nostro vero volto: quando cadono le maschere, quando osiamo veramente andare oltre la laccata superficie della celluloide, questa ci mostra tutto quanto abbiamo nascosto. L'urlo della carne che scopre la propria divina corruzione è la volontà che muove la macchina da presa di Ferrara - come un coltello in una ferita che sanguina e che non può rimarginarsi - contro un cinema che è spettacolo ed intrattenimento; la sua azione di regista, di "filmaker che ce l'ha fatta restando filmaker" (29) – la macchina da presa dell'utopia, portata "a minare l'immaginario collettivo uniformato dove è più compatto e alimentato" (30) - è quella del Cristo che scaccia i mercanti dal Tempio.
(1) Intervista a Abel Ferrara. MARTIN SCORSESE, Cinq questions posées par Martin Scorsese, in "Cahiers du Cinéma", n. 500, 1996, p. 70.
(2)SILVIO DANESE, Abel Ferrara, l'anarchico e il cattolico, Recco, Le Mani, 1998, p. 67.
(3) CAMILLE NEVERS, FRÉDÉRIC STRAUSS, La passe de trois. Entretien avec Abel Ferrara, in "Cahiers du cinéma", n. 473, 1993, p. 21.
(4) ALBERTO PEZZOTTA, Abel Ferrara, Milano, Il Castoro, 1998, p. 15.
(5) Intervista a Abel Ferrara. MARTIN SCORSESE, Cinq questions posées par Martin Scorsese … cit., p.70.
(6) SILVIO DANESE, Abel Ferrara … cit., p. 13
(7) Il vedere è un atto di acquisizione di ciò – oggetto, corpo…- che il nostro occhio vede ed i nostri sensi desiderano. Ecco (forse) in parte spiegato il carattere perennemente in bilico sull'orlo dell'oscenità e della pornografia del cinema: attraverso esso, acquisiamo – in potenza - l'immagine del nostro desiderio, anche quando questo desiderio ci turba e lo vorremmo rimuovere.
(8) ALBERTO PEZZOTTA, Abel Ferrara … cit., p. 15.
(9) Interrogato al proposito, Ferrara dice di non sapersi spiegare perché ha scelto di citare proprio Nosferatu, "mi sembrava una buona idea, tutto qui".
(10) SILVIO DANESE, Abel Ferrara … cit., p. 12.
(11) A questo proposito è importante citare una battuta di Occhi di serpente, in cui il regista Eddie Israel istruisce Sarah Jennings, la protagonista del film nel film, Mother of Mirrors: "Fai quello che ti senti di fare. La macchina seguirà te, ti viene dietro. Voglio che ti prendi tutto il tempo che vuoi, tutto il tempo necessario".
(12) SILVIO DANESE, Abel Ferrara … cit., p. 69.
(13) GAVIN SMITH, Dealing with the now, intervista ad Abel Ferrara, in "Sight and Sound", n. 4, 1997, p. 8.
(14) Lo stesso Ferrara ammette: "Sono cresciuto in città, e ne amo l'atmosfera. È una scena che parla di se stessa. E la notte è il mio mondo. […] E poi girare di notte è più bello, si possono controllare le luci, si può decidere cosa sarà visibile sullo schermo". In "La Revue du Cinéma", n. 436, 1988, p. 50.
(15) SILVIO DANESE, Abel Ferrara … cit., p. 69.
(16) SILVIO DANESE, Abel Ferrara …cit., p.16.
(17) ALBERTO PEZZOTTA, Abel Ferrara … cit., p.14.
(18) SILVIO DANESE, Abel Ferrara … cit., p.58.
(19) PAOLO CHERCHI USAI, Fuga dal genere, in "Segnocinema", n. 70, 1994, p.12.
(20) SILVIO DANESE, Abel Ferrara … cit., p. 58.
(21) Ivi, p. 66.
(22) A questo proposito si veda Marc Vernet, "Genere" … cit, p. 88-89.
(23) Dal press-book di The addiction, citato in ALBERTO PEZZOTTA, Abel Ferrara …, cit., p. 9.
(24) Si veda Genres are defined by the film industry and recognized by the mass audience, in RICK ALTMAN, Film/Genre … cit., pp. 15-16.
(25) ROI NOGUEIRA, Le cinéma selon Melville, Paris, Éditions Seghers, 1973, p. 142.
(26) ALAIN GAREL, FRANÇOIS GUÉRIF, Abel Ferrara: entretien, in "La Revue du Cinéma", n. 436, 1988, p. 51.
(27) È evidente il riferimento alla filosofia esistenzialista, soprattutto quella di matrice heideggeriana. Sottolineiamo che, benché Ferrara stesso ammetta di non aver svolto studi filosofici, il suo sceneggiatore Nicholas St .John ha a lungo studiato filosofia e teologia..
(28) Il testo di riferimento è GEORGES BATAILLE, L'erotismo, tr. it., Milano, ES, 1997.
(29) SILVIO DANESE, Abel Ferrara … cit., p. 16.
(30) Ivi, p. 58.