Andrej Zvjagintsev
Il ritorno: paesaggio e passaggio
di Federico Bezzi
C'è qualcosa di particolarmente profondo nello sguardo russo.
Un'ampiezza lirica che fa parte di tutto il loro popolo.
Di tutta la loro storia.
Di tutta la loro arte.
Di tutta la loro sconfinata terra.
Da sempre.
Popolo, storia, terra, arte sono per l'uomo russo quello sguardo.
Sono quell'estenuante pathos capace di osservare l'umano in collisione con l'umano.
L'umano che combatte la scrittura del suo fato.
L'umano che trema di fronte al divino.
L'umano baciato, poi deriso, poi ferito, così piccolo nello scenario immenso di una natura dalla bellezza feroce.
E passione contro passione, da quello sguardo che mai si distoglie, nasce poesia.
L'opera prima di Andrej Zvjagintsev è un vero e proprio canto lirico. Chi guarda, avverte sulla pelle il soffio di tutta la tradizione artistica russa.
Il paesaggio, esaltato dal regista con frequenti campi lunghi, scorre da sempre nel sangue russo, come un'intrinseca unione con una terra tanto vasta e incantevole, quanto crudele e spietata. Quel paesaggio che è una delle caratteristiche peculiari della grande letteratura russa, nella quale raramente manca l'encomio poetico a dipingere con tratti di vera e propria commozione la bellezza dello scenario. Una terra che non è semplicemente un palcoscenico sul quale gli uomini vivono, bensì il cuore stesso che li rende vivi. Lo specchio dell'anima russa. L'abbraccio della vita di un popolo, della sua morte, del suo eterno.
Quella natura che nel passaggio di due capitoli levtolstojani traduce su di sé lo spirito mutato del principe Andrej di Guerra e Pace. Quel paesaggio che si erge statuario, bello da mozzare il fiato, unico incorrotto di fronte all'avido protagonista Cicikov e all'umanità traviata dell'affresco di Le anime morte di Nikolaj Gogol'. Quelle livide sfumature caucasiche che vivono sulle appassionate pagine di Un eroe del nostro tempo di Michail Lermontov. Quella campagna così fortemente sentita, e struggente di passione, che nasce dai versi di un poeta come Sergej Esenin.
E nel primo grande cinema sovietico, quella terra ammirata, cantata, quasi fosse lei stessa la protagonista, nei poemi visivi di Aleksandr Dovženko, soprattutto nel capolavoro La Terra, o in quella tribalità selvaggia dell'entroterra asiatico russo in Tempeste sull'Asia di Vsevolod Pudovkin.
Nel cinema russo più recente, come non citare le ballate immaginifiche del cinema di Emil Lotjanu, o l'eccezionale dipinto lirico di Aleksandr Sokurov, compiuto con il film Madre e Figlio, dal quale traspare l'evidente connubio tra ambiente esterno e profondità interiore, esattamente come ne Il ritorno di Zvjagintsev. Oppure, per capire quanto questo stilema sia radicato non solo nella tradizione russa, ma anche nell'idea che il resto dell'umanità ha di questo popolo e della sua terra, basti nominare il Derzu Uzala del giapponese Kurosawa, ambientato nell'estremo est della nazione russa, film caratterizzato da una paesaggistica quasi esistenziale; o il più hollywoodiano Il dottor Zivago, tratto dal romanzo di Boris Pasternak, kolossal dell'inglese David Lean, anch'esso tessuto su spettacolari scenari che vedono l'uomo al centro, ma solo come una parte del tutto (un tutto in questo caso sia ambientale sia politico-sociale).
Nello spirito russo, il paesaggio è propriamente la metafora più forte dell'esistenza. E non poteva che essere lo stesso per il cinema dell'esordiente Andrej Zvjagintsev. Oltre al suddetto campo lungo, il giovane regista utilizza la carrellata con geniale linguaggio filmico, quasi a voler sottolineare lo spazio in cui è inscritta l'azione, in cui respira la vita con tutti suoi dolori, in cui si muovono tutti i suoi personaggi. A partire da quella carrellata all'inizio del film, che passa dall'immensità di un paesaggio lacustre alla torretta dove il piccolo Ivan trema al pensiero di tuffarsi in acqua. In quel lento passaggio c'è la vertigine del ragazzino stesso, posto di fronte alla vastità della natura, messo faccia a faccia con la durezza dell'esistenza. E non è affatto un caso che il cadavere del padre venga inghiottito dalle acque del lago, per scomparire nella sfumatura ghiacciata della sua natura. Lo spazio, l'ambiente, fagocita il personaggio-uomo, se ne riappropria. Come non è un caso quella carrellata all'indietro che chiude la storia: il movimento dinamico di un finale esclusivamente paesaggistico, in ossimoro con la fissità permanente delle immagini umane nell'album fotografico subito successivo.
Allo stesso modo funziona l'insistere frequente dell'inquadratura su scorci di paesaggio nel quale l'azione è, o conclusa da un pezzo, o narrativamente obsoleta. In questi casi non è il narrato a tirare le fila del messaggio cinematografico, bensì la pittura del quadro scenico. Sono quel paio di battiti di ciglia in più che permettono alla retina di accogliere con maggior vigore il disegno, che è portatore figurale della comunicazione lirica.
Drammaticamente parlando, Il ritorno ha invece tanto di fedordostoevskijano. La profondità con la quale ci si addentra nei sentimenti umani, lo stordente paradosso di opposti che nel suo gioco sempre sull'orlo dello sbilanciamento determina lo svelarsi di verità esistenziali, l'atmosfera carica di tensione emotiva che sfugge agli stessi personaggi, che tratteggia i passi della loro storia, fino alla conclusione, che non è fine, ma nuovo inizio, eterno ritorno.
La barca sul fondo del lago che compare misteriosa e quasi indifferente nelle primissime immagini del film, riecheggia in coda, nella barca che affonda con il cadavere del padre. Ed è come se riecheggiasse per tutto il film, allo stesso modo dell'eco che si instaura nel rapporto tra il padre ed il figlioletto Ivan, che continuamente si lasciano, per poi ritornare. Eterno ritorno. L'assenza decennale della figura paterna che riappare come un Cristo Morto di Mantegna , ma che è un "Cristo" vivo, e se fino a quel momento solo nel ricordo, o in una vecchia fotografia, improvvisamente egli, il riferimento esistenziale di ogni uomo, il padre, è reale, è ritornato, è rivissuto. Eterno ritorno. Ed anche dopo la morte, il padre rivive, ritorna, in quella foto trovata nell'auto dai due fratelli, e che il più grande ordina subito di nascondere, spaventato forse dal recente passato di quell'immagine immobilizzata, che trasforma il tempo, forse un solo unico interminabile moto, nello specchio del loro destino. Eterno ritorno.
Di Dostoevskij permane anche quella profonda ed indelebile religiosità tipica del carattere russo, una carica spirituale che riflette da ogni singolo colore del paesaggio, che risuona al di sotto di ogni parola o grido, che esala da ogni singolo movimento quotidiano, fino al più banale. Così l'universo giornaliero che domina Il ritorno è fatto di tanti piccoli dettagli di fede: il vino, il pane, la pesca, il perdono per il ladro, il lago tempestato dove trovare Dio, e dove trovare se stessi. Nella scena del primo pranzo casalingo con il padre c'è addirittura una forte accentuazione del rito, quasi una vera e propria messa, scolpita tra l'altro in una figurazione da cenacolo leonardesco.
C'è poi il conflitto secolare tra genitore e figlio, il passaggio di generazione, che però nel film di Zvjagintsev non è propriamente uno scarto ideologico, come poteva essere quello del Turgenev di Padri e figli, bensì un avvicendamento di ruoli, una staffetta esistenziale, una tappa inevitabile. E' verso la figura autoritaria di questo padre che comunica solo attraverso imperativi ed ordini, è verso di lui che converge tutta la storia, è lui il fulcro attorno al quale ruota il destino dei due ragazzini. Uno, Andrej, lo ammira; l'altro, Ivan, lo odia. Ben presto i sentimenti si invertiranno, così come i ruoli. Prima era il piccolo Ivan ad apparire deciso e dal carattere forte, era lui a dare ordini al fratello maggiore. Appena dopo la morte del padre però, Ivan perde tutta la sua sfacciata prepotenza, ed è Andrej ad impartire ordini con durezza. Ed è ancora il piccolo Ivan l'unico ha piangere il padre morto, proprio lui che lo odiava tanto. Nel contatto estremo con la personalità del genitore, ovvero nella consapevolezza stordente della sua morte, Ivan capisce di amarlo, e capisce di non essere poi tanto diverso da lui. Il contatto fisico prima fortemente evitato ("Se mi tocca ancora giuro che lo ammazzo!") risulta impossibile dopo la morte (Ivan non riesce a toccare il corpo del genitore, nemmeno per chiudergli semplicemente gli occhi), proprio perché nella fine del padre c'è la massima carezza al figlio, carezza o schiaffo, che lo spinge di forza nella vita. Ed è proprio in quel momento, quando le due figure combaciano, quando la linea del figlio ritorna alla linea del padre, che è poi lo stesso punto da cui era partita (eterno ritorno), in quell'istante la nemesi è compiuta: il ragazzino supera le sue paure (le vertigini di Ivan), diventa uomo, diviene il padre (Andrej da quel momento è come se sentisse il peso e la responsabilità del suo nuovo ruolo nei confronti del fratello minore; per ciò assume una serietà ed uno spirito d'iniziativa che prima non possedeva, impartisce ordini, consola ed accudisce il fratello, guida l'automobile). Il figlio resta nel mondo come la traccia indelebile del genitore. E' questo il passaggio generazionale che descrive Zvjagintsev.
Il lungo viaggio, vagamente ingmarbergmaniano (vedi Il posto delle fragole), non è altro che un percorso esistenziale che porta i ragazzi a diventare uomini. Durante tutto il tragitto, il padre insegna la vita ai due figli, anche in maniera brutale e poco affettuosa. Si fa maestro, li inizia alla realtà del mondo, realtà che i due ragazzini, nel loro piccolo paese di provincia, non avevano ancora vissuto, e che senza l'aiuto di una figura paterna avrebbero certamente affrontato con difficoltà.
…perché un padre è sempre il tuo maestro anche quando non c'è più.
(C. Bukowski)