Il treno nel cinema: spunti per un viaggio transgenere
di Valerio Sammarco
Nella storia del cinema (già dal 1895 per merito dei fratelli Lumière) la figura del treno ha assunto molteplici dimensioni: è stato testimone di innumerevoli fughe da parte di eroi più o meno positivi, teatro di complotti e omicidi, "salotto" per racconti a volte surreali, protagonista malcapitato di qualche incidente o, più semplicemente, specchio fedele di quella che vuole essere la sua più naturale mansione, ovvero trasportare persone o merci da un luogo ad un altro.
L'intento di questo lavoro vuole essere una riflessione su come questo "attore", il treno appunto, sia stato capace di mantenere la scena cinematografica per più di cento anni. E' bene precisare, altresì, che non si vuole fornire un elenco cronologico di titoli concernenti l'argomento, bensì considerare alcune delle tematiche che ne sono state coinvolte.
Il tutto sarà esposto, simbolicamente, in maniera sequenziale: l'arrivo del treno sugli schermi cinematografici e le situazioni inerenti il salirvi a bordo, le vicende del viaggio e le metafore che esso comporta, per poi, finalmente, giungere in stazione e concludere, in maniera "circolare" (1) , il percorso ultracentenario di questo "personaggio" che, oltre a mostrarsi, assume idealmente le caratteristiche di carrello velocissimo per mostrarci, con il suo incedere continuo, lo scorrere di una visione separata da un vetro che, di fatto, ci fa sembrare fermi nella velocità (2).
Arriva il treno!
Sarà un caso, ma i cinquanta secondi di L'Arrivée d'un train en gare de La Ciotat (L'arrivo di un treno nella stazione di La Ciotat, 1895), di Louis Lumière, sanciscono definitivamente la nascita del cinematografo come mezzo capace di emozionare colui che vi assiste: l'impatto originale, infatti, è tale da costringere il pubblico della prima proiezione a nascondersi sotto le sedie, convinto che il treno, alla fine, sarebbe arrivato in sala.
A differenza di La Sortie des Usines Lumìere (L'uscita dalle fabbriche Lumière, 1895), ritenuto il primo film della storia del cinema, perché il primo realizzato per essere presentato (a pagamento) in pubblico, L' Arrivée d'un train è considerato il più famoso dei fratelli francesi (3), forse proprio per la capacità di unire magnificamente i tratti casuali della presa diretta a quelli drammatici del piano sequenza, il senso di evidente profondità al realismo dato dalla ripresa a distanza. Esso rimane senza dubbio il primo e forse più importante esempio di cinema d'attrazione, dove l'utilizzo delle comparse - chi scende o sale dal treno - rende impareggiabile, soprattutto nel fruitore dell'epoca, la resa filmica, tale da giustificare già da allora il perché, meglio di ogni altra cosa, il cinema educò l'individuo ad essere spettatore.
In Carrozza!
Il treno attende sbuffando che gli ultimi passeggeri salgano. Il grido del capostazione è più che mai eloquente, "in carrooozza!", mentre il nipote del Dr. Frankenstein (ma chiamatelo Frankenstin!) – un grande Gene Wilder - prima di partire vorrebbe quantomeno un bacio dalla sua amata Elizabeth: impossibile, ahi lui!, la ragazza vorrebbe (?), ma le si potrebbero rovinare i capelli o le unghie e, non sia mai, sgualcire l'abito di taffettà.
In questa memorabile sequenza di Young Frankenstein (Frankenstein junior, 1974) si può trovare la sintesi di tutti gli addii cinematografici realizzati sulla banchina ferroviaria. Mel Brooks riesce a trasformare un momento di alta intensità emotiva in un esilarante commiato che, alla fine, si riduce ad uno struscio di gomiti; il tutto è reso ancor più divertente dall'inevitabile tosse che colpisce Elizabeth (la bravissima Madeline Kahn) nel momento in cui il fumo del treno in partenza la avvolge completamente.
Non sempre però è stato facile poter salire su un vagone e, alle volte, addirittura problematico si è rivelato scovare il giusto binario: in Harry Potter and the philosopher's stone (4) (Harry Potter e la pietra filosofale, 2001), di Chris Columbus, il treno che i giovani maghi debbono prendere per raggiungere la scuola di magia e stregoneria di Hogwarts si trova al binario 9 e ¾: come fare per trovarlo?… Semplice! Basterà correre verso il muro che divide i binari 9 e 10 e, come per magia, eccoci al cospetto del fantastico convoglio. Strana la sorte di questa locomotiva: prima di essere utilizzata dalla Warner Bros giaceva da quindici anni in una discarica, divorata dalla ruggine; solo grazie ad un accurato restauro, supervisionato da Brian Caldwell, tale ferraglia è tornata a correre come fece dal 1937 al 1964, anno in cui, di fatto, venne ritirata dalle ferrovie britanniche perché l'epoca del vapore era ormai tramontata.
Senza fatica, invece, il treno in partenza venne raggiunto dai "bischeri" monicelliani di Amici miei (1975), che lo resero celebre grazie ad un'indimenticabile "zingarata": gli schiaffoni in serie, rifilati ai passeggeri affacciati dai finestrini, non saranno stati ortodossi, certo, ma rappresentano uno dei "saluti" più originali della storia del cinema.
Il treno sta iniziando dunque la sua corsa e con esso intendiamo proseguire questo cammino. Alle volte riusciremo ad arrivare a destinazione; in altre circostanze, invece, scompariremo con lui senza mai sapere dove effettivamente fossimo diretti.
Il viaggio (1): teatro dell'anima
Saliamo, dunque - almeno con l'immaginazione - all'interno del convoglio e proviamo ad affacciarci nello scompartimento occupato da quel gruppo di persone che ascolta, ora silenziosamente, le parole proferite dal distinto signore di mezza età, Mathieu (Fernando Rey) il quale, poco prima di accomodarsi sul treno, era stato artefice di un gesto alquanto bizzarro: dagli scalini del vagone aveva rovesciato un intero secchio d'acqua sulla testa di una bellissima ragazza, in piedi sulla banchina, che cercava di dissuaderlo dal partire; testimoni involontari del fatto, gli occasionali compagni di cabina, incuriositi, chiedono timidamente delucidazioni sull'accaduto.
Se facessimo un po' d'attenzione, ci accorgeremmo di essere nel vivo di Cet obscur objet du désir (Quell'oscuro oggetto del desiderio, 1977), pellicola testamento di Luis Buñuel. L'uomo che racconta ci fa rivivere, stando comodamente seduti sulla poltrona della sala cinematografica (simbolicamente la stessa che occupano i passeggeri/interlocutori) le vicende del suo folle rapporto d'amore con la giovane Conchita (Carole Bouquet/Angela Molina), protagonista del precedente episodio. La trovata di Buñuel è facilmente interpretabile: la narrazione di fatti trascorsi procede parallelamente al cammino del treno; il pubblico (e il gruppo dei casuali compagni di viaggio) a questo punto comincerà a considerare il tragitto nulla più che un pretesto affinché il racconto possa giungere all'agognata conclusione (la stazione). L'esposizione offerta da Mathieu viene però interrotta spesso e volentieri, a volte bruscamente: nello scompartimento del vagone si partecipa emotivamente alla storia, vengono richieste spiegazioni e forniti giudizi personali che, in più di un'occasione, fanno perdere il filo all'oratore; assistiamo pertanto a scene troncate inaspettatamente e mai riprese. Il treno arriva a destinazione, il racconto s'interrompe: l'uomo rincontra la sua amata, una deflagrazione improvvisa suggella la fine del film e, con esso, la carriera del cineasta spagnolo.
La capacità del nostro "attore di lamiera" di ospitare gli uomini e di rappresentarne simbolicamente l'anima, come nel caso buñueliano appena citato, si può riscontrare anche in O thiasos (La recita, 1975), secondo film della trilogia di Thodoros Anghelopulos sulla storia contemporanea della Grecia. A differenza di objet du désir però, dove le vicende che ci vengono raccontate nascono dal ricordo di un vissuto individuale, nei 230 minuti di questo documento finissimo, il punto di vista è quello della memoria collettiva. Realizzato su tre livelli di significazione - il teatro, la vita privata, la politica – il film ci mostra i continui spostamenti di un gruppo di attori, inserendo tali peregrinazioni in un arco temporale di quattordici anni di storia nazionale (1939-1952). Il treno compare marginalmente e funge da sorta di confessionale per uno degli attori della compagnia che, guardando fisso verso la macchina da presa, rievoca le vicende nazionali e personali relative al conflitto greco/turco del 1922, e di come tale evento abbia accentuato il senso di inferiorità secolare dei suoi connazionali nei confronti del nemico.
Per concludere questa sezione é doveroso ricordare come Ingmar Bergman abbia spesso fatto recitare i suoi attori su questo teatro mobile, specialmente in tre pellicole: Törst (Sete, 1949); En lektion i kärlek (Una lezione d'amore, 1953) e Tystnaden (Il silenzio, 1963).
In Törst, Ruth e Bertil riescono a salvare il loro matrimonio in crisi sul treno che li riporta dalla Germania alla Svezia, mentre in En lektion i kärlek, il ginecologo "casanova" David tenta di riconquistare la moglie Marianne su un vagone diretto a Copenaghen, dove lei si sta dirigendo per incontrare l'amante; in Tystnaden, infine, il treno apre e chiude il quadro del continuo conflitto tra le sorelle Anna ed Ester, quest'ultima malata di tubercolosi. Il piccolo Johan, figlio della prima, ma molto legato alla zia, è l'innocente testimone di tutta la vicenda, che si sviluppa in un paese dalla lingua sconosciuta e si conclude nuovamente sul treno, stavolta senza Ester, abbandonata dalla sorella nel letto della camera d'albergo. Nei primi due film citati, dunque, Bergman costruisce sui vagoni un palcoscenico dove le coppie sono chiamate ad esprimere il senso profondo di un legame inestinguibile: in Törst drammaticamente, mentre in En lektion i kärlek in maniera decisamente brillante (da conservare nella memoria il duetto iniziale fra i due coniugi che fingono di non conoscersi); in Tystnaden, invece, il regista svedese utilizza gli interni del treno per enfatizzare il lento, ma progressivo "silenzio" che si comincia ad avvertire in ogni anima (5).
Il viaggio (2): corpo in movimento
Apriamo questa sezione, quella del "corpo", con una pellicola che avrebbe potuto inserirsi anche nella precedente appena conclusa, in quanto la forte componente spirituale è il propulsore che ne muove gli accadimenti: un preambolo ben congegnato ci accompagna alla stazione di Istanbul dove, come in una sfilata, assistiamo all'assegnazione delle cabine per i protagonisti di Murder on the Orient Express (6) (Assassinio sull'Orient Express, 1974), di Sidney Lumet. Il film, come si evince dal titolo, non ha altri scopi: narrarci la corsa del treno più famoso degli anni Trenta, a bordo del quale stavolta viene compiuto un omicidio. Tutti i possibili colpevoli (un cast eccezionale) cominciano, come tradizione nei racconti di Agatha Christie, ad essere interrogati dall'investigatore belga Hercule Poirot (Albert Finney), per nostra fortuna presente anch'egli sul lussuoso vagone letto, teatro del misfatto. L'arcano verrà risolto poco prima che il treno riprenda il transito, precedentemente bloccato dalla neve. Le carrozze - utilizzate quelle dell'autentico Orient Express - riprenderanno così a danzare sui binari al ritmo delle stesse note che, sin dalla partenza, ne avevano contrassegnato il viaggiare.
Un treno merci impazzito corre a folle velocità; alla guida, un corpo senza vita giace sui comandi di controllo. Al suo interno Manny (Jon Voight) e Buck (Eric Roberts) forse stanno maledicendo il momento in cui hanno deciso di evadere dal carcere... Di fatto, Runaway Train (A trenta secondi dalla fine, 1985), di Andrej (Michalkov) Končalovskij, può essere riassunto così. Il treno senza controllo, unico vero set di tutta la vicenda, diviene mezzo tramite il quale i due eroi potranno espiare, dinanzi lo spettatore, il loro passato di galeotti, mentre il panorama che circonda i binari, boschi e vallate ghiacciate, consente al regista russo - oramai emigrato negli Stati Uniti - di utilizzare paesaggi che richiamano fortemente l'immaginario alla sua terra d'origine. Epopea violenta sulla libertà, il film si avvale della figura del treno merci dapprima come rifugio per i due evasi, poi come una sorta di "carcere mobile": appena scappati di galera riescono a salirvi per un pelo; poco dopo, il convoglio perde per un infarto il suo conducente. A questo punto l'impatto contro un impianto chimico sembra inevitabile…
Di diversa natura, ma pur sempre altissima, la tensione che anima Emperor of the North Pole (L'imperatore del nord, 1973) di Robert Aldrich: l'indomito "Numero Uno" (Lee Marvin), vagabondo così denominato per la sua fama di viaggiatore clandestino sulle ferrovie, stavolta è ostacolato nell'impresa dal duro capotreno Shak (Ernest Borgnine) che, a costo di rimetterci la pelle, è più che mai deciso ad impedire a chicchessia di viaggiare a sbafo sui vagoni del treno merci numero 19.

Il contrasto immarcescibile tra spirito individuale libertario e ottuso servaggio del potere si snoda lungo la tratta Salem – Portland, in un crescendo d'azione e di violenza, culminante nella sequenza del duello finale.
I paesaggi suggestivi sullo sfondo forniscono un incessante apporto, se si vuole, di contrasto, al ritmo serrato ed incalzante di tutta la narrazione, figlia di una sceneggiatura priva di fronzoli. L'America "depressa" dalla crisi economica – la vicenda si svolge nel 1933 – è la cornice temporale in cui si staglia questa crudele ballata, interpretata al meglio dai due protagonisti, attori che Aldrich, tra l'altro, aveva già diretto in The Dirty Dozen (Quella sporca dozzina, 1967).
Il viaggio (3): il treno come unica via di fuga
In questa sezione, l'ultima dedicata al momento del viaggio, si vuole dar conto di come il treno rappresenti l'elemento indispensabile attraverso il quale, spesso e volentieri, i protagonisti di molte pellicole tentano di fuggire da minacce incombenti o, quantomeno, da situazioni negative. In parte ciò è riscontrabile anche nel già citato Runaway Train, nel quale, nella parte iniziale della vicenda, i due evasi salgono sul vagone per scappare il più lontano possibile.
Nel contesto che stiamo esaminando, tuttavia, ci interessa prendere in considerazione due film tra loro dissimili (a ben vedere neanche troppo), che utilizzano l'idea del "treno come unica via di scampo" in maniera del tutto innovativa.
In un paesino ebraico dell'Est europeo, il cosiddetto "scemo del villaggio" (Lionel Abelanski) sta tentando di convincere i compaesani ad organizzare una messa in scena senza precedenti: costruire un treno per abbandonare il posto - oramai bersaglio dell'imminente invasione nazista (siamo nel 1941) - ed utilizzarlo per raggiungere prima la Russia, quindi la Palestina, fingendo si tratti di un trasporto di deportati. Questa la premessa di Train de vie (Train de vie – Un treno per vivere, 1998), di Radu Mihaileanu. Nella filmografia riguardante la Seconda Guerra Mondiale e, nella fattispecie, gli orrori delle deportazioni naziste, il treno assume da sempre un ruolo di non secondaria rilevanza; nel film sopra citato, però, diviene unico ed insostituibile mezzo di salvezza, rappresentando la sola arma (quella della beffa) a disposizione di una comunità seriamente minacciata dallo spauracchio dei campi di concentramento.

Tutto il villaggio si muove, quindi, affinché tale mise en scène venga costruita per il meglio: si compera la locomotiva, ci si adopera a camuffarla da treno nazista, si assegnano i ruoli da interpretare durante il viaggio e si studiano le parti per superare gli eventuali controlli tedeschi. Ecco pertanto lo sgomento iniziale provato da chi, vedendosi imporre il dover vestire i panni del nazista, teme di perdere la propria identità, per poi calarsi talmente nel personaggio da rischiare un'immedesimazione pericolosa…
Il film procede spedito sui binari di questa ironica malinconia, per giungere infine allo svelamento della sua natura: nient'altro che un sogno, purtroppo, raccontato proprio da Schlomo (il matto), in piedi dietro il filo spinato di un lager.
Mario e Saverio (Massimo Troisi e Roberto Benigni), bloccati in macchina da un passaggio a livello che non ne vuole sapere di alzarsi, decidono di prendere una stradina sterrata per aggirare la ferrovia: si ritroveranno in un paesino, Frittole, scoprendo per di più di essere nell'anno 1492. Non ci resta che piangere (1984), diretto dagli stessi Troisi e Benigni, prende vita da questo forzato viaggio nel tempo. Ambientandosi più per necessità che per convinzione, i due daranno inizio ad un'interminabile serie di gag, fino a che incontreranno Leonardo da Vinci (Paolo Bonacelli): sfruttare la sua genialità per realizzare tutte quelle cose che, all'epoca, ancora non erano state pensate sembra un'idea allettante; nella tenda studio del Maestro, pertanto, i due cominceranno a spiegare cos'è un treno, un termometro e, nientemeno, i fondamenti della "scopa". Le aspettative non vengono confermate, Leonardo pare proprio non capire e loro, sconsolati, se ne vanno. Persa ogni speranza di tornare nel proprio contesto temporale, ecco che Mario e Saverio scorgono fra le colline l'innegabile fumo proveniente da una locomotiva in corsa: come il passaggio a livello iniziale, che per un verso aveva dato inizio a quella incredibile avventura, ecco che il treno si presenta loro come viatico per uscirne. La sorpresa è grande però, nel constatare che quelle poche e confuse informazioni ricevute in precedenza avevano consentito a Leonardo di costruire il primo esemplare (con quasi quattro secoli d'anticipo) di treno a vapore, con tanto di binari. Seppure dunque il treno non venga utilizzato propriamente per rappresentare un viaggio da un luogo ad un altro, appare originale come in Non ci resta che piangere esso apra e chiuda la storia, da una parte costringendo i protagonisti a prendere la stradina iniziale, dall'altra fungendo (anche se poi non si verificherà tale) da rappresentante della modernità, quindi del ritorno ai propri giorni.
L'arrivo in stazione
Il viaggio volge al termine. Questa è l'ultima fermata del nostro piacevole, seppur tortuoso, percorso lungo le rotaie. Per analizzare la fase conclusiva di questo simbolico tragitto, cerchiamo di ritrovare il treno sul quale, finalmente, è salito il dottor Frederick Frankestein (ma chiamatelo sempre Frankestin!) per recarsi al castello che in passato aveva ospitato il famoso nonno. In contrasto con la parodia del commiato sdolcinato vista in precedenza, Mel Brooks si avvale dei classici registri tanto cari al gotico per realizzare la scena in cui il "nostro" (Gene Wilder) giunge in Transilvania: la stazione semi deserta, la nebbia avvolgente, un sordo rumore di passi "strascicati" accompagnano il movimento della macchina da presa, che infine stringe sul volto angustiato del protagonista; l'attesa di terrore si risolverà nella comparsa di Igor (Marty Feldman), grottesco nipote dell'assistente del celebre barone. Lasciamo che vadano verso il castello, dunque, la storia è appena cominciata.
La conclusione di un viaggio in treno, spesso e volentieri, coincide di fatto con l'inizio di molti film: in Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti (7), ad esempio, la stazione di Milano accoglie l'arrivo della famiglia Parondi; Rocco (Alain Delon), Ciro (Max Cartier), Luca (Rocco Vidolazzi) e Simone (Renato Salvatori) emigrano dalla Lucania con la madre vedova per raggiungere l'altro fratello Vincenzo (Spiros Focas), già da tempo a Milano, sperando di migliorare le misere condizioni in cui versano. Visconti si serve di questo dramma dell'emigrazione meridionale per mostrare come viene vista la sua città (Milano, appunto) dagli occhi di chi è costretto a sradicarsi per cercare di sopravvivere e di come il sogno di una vita migliore svanisca, di fatto, nel momento in cui si scende dal treno.
Come apparentemente svaniscono i sogni di M. (Markku Peltola), personaggio di cui non sappiamo nulla e che, non appena giunto ad Helsinki con il treno, viene brutalmente aggredito da un gruppo di balordi. Risvegliatosi in ospedale, fasciato completamente di bende, decide di andarsene, pur non sapendo dove e, soprattutto, senza ricordare niente della sua vita. Aki Kaurismäki in questo suo ultimo, bellissimo film – Mies Vailla Menneisyyttä (L'uomo senza passato, 2002) – si avvale del treno come di un simbolico traghetto che conduce all'inizio di una nuova esistenza, scevra di ogni ricordo di quella precedente: una sorta di rinascita che, con forte determinazione, l'uomo riuscirà a rendere dignitosamente vivibile. Non è un caso se, dopo aver scoperto da quale passato voleva fuggire, M. capirà l'importanza del presente che caparbiamente si è costruito e, volgendo le spalle alla macchina da presa, osserva il passaggio di un treno che, con il suo transito, chiude definitivamente il quadro dei ricordi e, con esso, il film.
Questa sorta di finale circolare ci conduce all'ultima considerazione che, in maniera emblematica, consente al nostro caro "attore sulle rotaie" di continuare la sua corsa: David Cronenberg, in Spider (id., 2002), apre la storia mostrandoci il protagonista (Ralph Fiennes) mentre scende da un treno. "Il primo piano di Spider (8) è forse una delle chiavi del film. Un treno, venuto dalla profondità di campo, entra in stazione e si ferma. Decine di passeggeri escono, si dirigono verso l'obiettivo e lo oltrepassano. È il solo momento morto del film in cui il regista è ricorso a delle comparse. È un remake della celebre sequenza dei fratelli Lumière che aveva provocato la fuga dei primi spettatori, senza dubbio un modo di ritrovare le fonti del terrore al cinema come macchina per spaventare. E' nella registrazione del mondo, nell'effetto di attualità concreta, nella fredda volontà di irrigidire il visibile che il film di David Cronenberg arriva ad isolare gli archetipi della paura." (Jean-François Rauger, frammento della recensione del film, da "Le Monde" 22/5/02 (9)).
(1) Cfr. Bruno Di Marino, L'ultimo fotogramma. I finali nel cinema, Editori Riuniti, Roma 2001
(2) Cfr. Alberto Abruzzese, Metafore della pubblicità, Costa & Nolan, Genova 1988
(3) Per un approfondimento cfr. Louis e Auguste Lumière, Noi, inventori del cinema. Interviste e scritti scelti 1894-1954, a cura di Renata Gorgani, Il Castoro, Milano, 1995.
(4) Trasposizione cinematografica del romanzo omonimo di J.K. Rowling, Harry Potter e la pietra filosofale, Salani, Milano, 1998
(5) Nella versione distribuita in Italia, Johan, nel silenzio del treno, chiude il film pronunciando questa parola leggendo un foglio lasciatogli dalla zia, cosa che, in realtà, non era prevista nella versione originale.
(6) Trasposizione cinematografica del romanzo di Agatha Christie, Assassinio sull'Orient–Express, (1934) Mondadori (3°ed), Milano, 1995
(7) Per l'analisi dei film di Visconti si rimanda a Lino Micciché, Visconti e il neorealismo, Marsilio, Venezia, 1990.
(8) Il soggetto del film è tratto dal romanzo omonimo di Patrick McGrath, Spider, Bompiani, Milano, 2002
(9) Traduzione di Francesco Patrizi, sul sito internet il-cinematografo.it