Lo stile trascendentale nel cinema di Ciprì e Maresco
di Luca Bordoni
Parlare di due autori come Daniele Ciprì e Franco Maresco risulta facile e difficile allo stesso tempo: facile perché il loro cinema è subito riconoscibile, stilizzato e, potremmo azzardare, "quasi fumettistico", per il suo darsi come facilmente visibile; difficile perché di ben altra levatura è il "discorso temporale" dei loro film, discorso che produce una lettura complessa delle loro opere, leggibile a più livelli, di difficile interpretazione e che richiede uno sforzo che lo spettatore comune non è abituato a fare.
A partire da questo conflitto interno, si possono trarre alcune considerazioni interessanti. In un cinema ogni giorno più "ricco" (di soldi, personaggi, effetti speciali, effetti emotivi e psicologici…) la scelta dei due autori siciliani di operare "in povertà", o meglio, in sottrazione, con pochi personaggi, luoghi, azioni, e con una fotografia monocromatica e monotona appare volutamente in controtendenza e in polemica con la moderna concezione di cinema.
Concezione che poi tanto moderna non è: stiamo parlando, come direbbe André Bazin, dell'"ossessione per il reale" che ha contraddistinto il cinema sin dalla sua nascita. Ossessione che aveva già investito le altre arti nei secoli passati e che nel 1895 il cinematografo aveva liberato facendosi egli stesso portatore di questa "grande responsabilità". Inutile dire che negli ultimi anni questa ossessione per la realtà si è trasformata nell'iperrealtà del cinema post-moderno, moltiplicazione del reale, delle battute, dei gesti, dei dialoghi. Una iperrealtà a carattere performativo (1), con l'intenzione di condurci all'idea che quello che abbiamo di fronte non è solo un film ma una realtà più vera, più completa della realtà stessa.
Questa situazione ha prodotto, secondo Ciprì e Maresco la fine del cinema, o più precisamente la fine della sua capacità di costruire "un sistema dell'immaginario popolare" (2). Sempre secondo i due autori palermitani "oggi il cinema ha perso questa capacità perché ha perso la sua autonomia di linguaggio e ne copia un altro, quello tv, non riesce più a inventare un mondo suo, una lingua sua" (3).
Ciprì e Maresco portano indietro le lancette dell'orologio: tramite l'uso della camera fissa e del bianco e nero sembrano tornare a una sorta di "primitivismo", eliminando le azioni e i movimenti, trasformando la profondità in superficialità, raggelando l'immagine (movimento), elevano la funzione del tempo a portatore di senso e di emozione. Nel cinema di Ciprì e Maresco il tempo, che paradossalmente non trova alcun luogo all'interno del film (4), svolge il ruolo di rivelazione, di scoperta, di manifestazione del "Completamente Altro", come direbbe Paul Schrader.
Il trascendente nel cinema
E proprio con Paul Schrader e con il suo libro "Il trascendente nel cinema" Ciprì e Maresco sembrano avere molti punti in comune (5). In un certo senso i due registi siciliani portano alle estreme conseguenze le teorie sullo stile trascendentale e sembrano addirittura spingersi oltre. Il problema che si pone Paul Schrader, com'è noto, è se il trascendentale sia rappresentabile al cinema (6) essendo per definizione "ciò che va oltre la normale esperienza dei sensi". La risposta, con l'eccezione di alcuni registi, è che questo è impossibile (7), "pena la dissoluzione della sua alterità" (8) e che solo attraverso tre fasi – che Schrader riprende dal cinema di Bresson e di Ozu - possiamo avere la manifestazione del trascendente, manifestazione, si badi bene, che deve avvenire attraverso l'immanente, in una sorta di traslazione che fa del secondo una via di passaggio per il primo.
Queste tre fasi, e fin da adesso possiamo rilevare il carattere temporale dell'operazione, secondo Schrader sono: la quotidianità, la scissione e la stasi.
Per quotidianità Schrader intende riferirsi a quei film in cui viene rappresentata la vita di ogni giorno in forma monotona e ripetitiva, senza avvenimenti significativi ma piena di gesti e dialoghi ripetitivi. La scissione è invece un momento di rottura con l'ambiente nel quale sta vivendo l'uomo, è un momento emotivamente intenso che produce una sorta di choc per lo spettatore abituato fino a quel momento alla semplice quotidianità degli eventi (9). Dopo l'atarassia della fase precedente, abbiamo di colpo una spaccatura che investe le emozioni e rompe in qualche modo l'equilibrio formale.
La stasi infine è il prodotto della scissione: dopo la momentanea rottura abbiamo il ritorno alla visione precedente, quella della quotidianità. "L'evento decisivo non risolve la scissione, ma la cristallizza nella stasi". La stasi si può risolvere con un'immagine statica, pacificata, che può anche essere quella di un vaso, o di un paesaggio. La stasi riconduce il tutto a pura forma e, secondo Schrader, è nella forma che si manifesta il trascendente. "Lo stile trascendentale è una forma, non un'esperienza" (10).
Da queste considerazioni risulta evidente come il cinema di Ciprì e Maresco sia vicino a questa messa in scena: la quotidianità - anche se non intesa alla Ozu o alla Bresson - è presente nel loro cinema, si pensi al primo episodio di Totò che visse due volte, nel quale il protagonista passa i giorni sempre uguali nella speranza di passare la notte con una prostituta. Oppure si pensi alle loro ormai classiche inquadrature in cui i personaggi sono come immobili a fissare qualcosa, ai dialoghi e alle frasi che si ripetono in continuazione. Se la quotidianità è un elemento di Ozu e Bresson, in Ciprì e Maresco trascende il singolo film e investe tutta la loro opera svolgendo da collante con tutta la loro produzione. Potremmo unire fisicamente tutti i loro film in una sorta di puzzle e ottenere così un ambiente unico, omogeneo, in cui tutto è eternamente uguale. A creare questa sensazione di monotonia nei loro film concorre la fotografia espressionistica (11) di Luca Bigazzi che uniforma la luce, il tempo, dando al paesaggio l'impronta di uno sfondo immutabile. Non sembrano esserci stagioni nei loro film e le giornate sono sempre al crepuscolo, con nuvole che sembrano quasi schiacciare i personaggi al suolo.
La scissione, invece, svolge un ruolo del tutto particolare in Ciprì e Maresco: anche nel loro cinema assistiamo sempre a un qualche cosa che interrompe la monotonia degli avvenimenti: un morto che resuscita, un'erezione di un asino, una prostituta che in realtà è un uomo. All'interno del loro cinema congelato, infatti, anche il movimento del pene di un animale assume una valenza struggente ed emozionante cozzando con la rigidità di un modo bloccato.
A mio avviso, nel loro cinema troviamo un altro tipo di scissione che è quella provocata dal grottesco: nel loro mondo post-atomico tutti i personaggi hanno posture e volti deformati, abnormi, i loro corpi pelosi e grassi richiamano l'animalità, lo struggersi della carne, il corpo morente. Il grottesco, infatti, opera in continuazione una rottura con la quotidianità del mondo anche se pure quest'ultimo è mostruoso.
Particolare interesse, in questo senso, diviene la rappresentazione del corpo femminile: come ben sappiamo Ciprì e Maresco non utilizzano mai attrici nei loro film (e neanche sul set, a detta dei due registi). L'assenza del corpo femminile diviene quindi l'emblema del Completamente Altro, dell'irraggiungibile, dell'irrappresentabile, del trascendente appunto. Corpo che non può essere messo in scena ma può essere ritrovato attraverso la maschera; solo attraverso il travestimento e la perdita dell'illusione di questo corpo mancato e mancante (la scissione appunto) possiamo toccare il trascendente femmineo, ritrovarlo dopo la rottura (stasi).
L'ultima delle tre fasi, la stasi, è appunto un ritorno allo stato originario: dopo la rottura con il mondo provocata dalla scissione, la stasi che, secondo Schrader, può consistere semplicemente in un'immagine, accoglie dentro di sé la scissione non risolvendola ma cristallizzandola. L'unione con il mondo, con il quotidiano avviene nuovamente ma con una certa malinconia. In Ciprì e Maresco abbondano immagini di questo tipo dove la conclusione di una sequenza ripete o quasi l'immagine iniziale, in cui la rottura viene ricomposta nella forma precedente. Per Schrader, dunque, spetta alla forma il compito di esprimere il trascendente, una forma che però deve necessariamente giungere dopo un passaggio temporale ben definito. Come il vaso nel finale del film di Jasujiro Ozu Tarda Primavera (1949) "è una forma che esprime qualcosa più profondo di ciò che è visibile" (12), così le inquadrature dei film di Ciprì e Maresco che terminano sulle figure dei corpi, fermi a guardare, a petare o semplicemente immobili, esprimono "l'intima unità di tutte le cose" (13). Nella stasi il loro stare in piedi assume tutto un altro carattere, l'immagine che essi rappresentano racconta di più di quanto dicesse all'inizio. Il corpo diviene una sorta di spugna che ha assorbito la scissione, l'emozione profonda, il dolore, ed è riuscito a trasformarla in un'espressione, permanente, trascendente. Se, in un primo tempo, il corpo sembrava quasi una brutta silhouette su uno sfondo ancora più piatto, adesso ha acquisito profondità e nobiltà (14).
Quello che prima sembrava una stupida marionetta fissa al suo posto, senza sapere in quale direzione volgersi, diviene un corpo in tensione, proteso verso qualcosa, una figura eroica che ritrova l'unità con l'ambiente circostante. È divenuto lui stesso la Storia. Come avevo accennato nella prima parte, credo però che i due registi siano riusciti ad andare oltre alla definizione di trascendente proposta da Schrader (15), e questo nel momento in cui sono riusciti a esprimere il trascendente nel movimento astratto (16) e soprattutto in un unico piano sequenza, senza frammentare la scena come invece fanno Ozu e Bresson. Mi riferisco in particolare al cortometraggio K (17), nel quale abbiamo una lunga inquadratura del tramonto sul Monte Pellegrino con delle nubi che si muovono lentamente e che per un attimo coprono tutto il cielo per poi dissolversi, lasciando riaffiorare la luce.
In questa immagine, anch'essa piatta e povera - oltre al cielo e alle nuvole vediamo la silhouette delle rocce e di alcune rovine - è il tempo a dare forma alle cose. È il tempo che, tramite la luce (18), compone, distrugge e ricompone.
L'immagine povera e banale del sole che tramonta (il quotidiano), scompare per un attimo (scissione), per poi riapparire tale e quale era prima (stasi), ma racchiudendo in sé l'emozione dell'evento passato. La capacità di esprimere il trascendente in un unico piano sequenza attraverso il movimento diviene così la prova più alta del fatto che "il miracolo deve avvenire nello spettatore, non nello spettacolo - nelle coscienze e non sullo schermo" (19). Il movimento esterno, formale, diviene tutt'uno con quello interiore in una danza vibrante e armonica che avvolge l'immanente nel trascendente e viceversa.
(1) A proposito di questo carattere performativo, Robert Bresson parla dei "paraventi" (écrans) ovvero di elementi, di indizi all'interno del cinema occidentale che aiutano lo spettatore a comprendere l'evento rappresentato, a guidarlo per mano verso la chiara comprensione del film affinché egli non debba compiere alcuno sforzo.
(2) Cagliostro? Ancora all'indice di Goffredo Fofi, www.panorama.it/spettacoli/anteprime.it
Anche secondo il filosofo francese Jean Baudrillard nel Cinema moderno manca l'immaginario, l'evocazione, resta solo la simulazione del reale.
(3) Questo breve excursus, che peraltro non vuole essere esaustivo, vuole solo prendere in considerazione une certaine tendence nel cinema contemporaneo, ovvero il gonfiarsi e il dilatarsi (anche tridimensionalmente) dell'immagine cinematografica. Si pensi anche all'introduzione del Dolby Sorround nella sala cinematografica che accresce l'impressione di tridimensionalità e di profondità dello schermo. Naturalmente a questa politica si contrappone quella dei due registi palermitani che inseguono la frontalità e la bidimensionalità nel loro cinema.
(4) Il tempo, all'interno del cinema di Ciprì e Maresco, non trova spazio in quanto tutte le scene sono ambientate in una specie di epoca post-atomica o "altro mondo", non abbiamo dunque indicazioni spazio-temporali determinate e anche all'interno delle singole scene non abbiamo un vero scorrere del tempo, le lancette dell'orologio sembrano essersi fermate.
(5) Come è noto questo libro, scritto circa trent'anni fa dal futuro regista di "Mishima", è una tesi di dottorato elaborata all'Ucla di Los Angeles con Rudolph Arnheim come relatore.
(6) Il libro di Schrader concentrandosi esclusivamente sul trascendente risulta interessante anche perché cerca di vedere quali siano i limiti della rappresentazione al cinema. Il cinema rappresenta tutta la realtà? Che cosa non è in grado di mostrare? Appare evidente che l'operazione pone domande che travalicano il tema specifico. Già André Bazin aveva detto che "I segni che Dio fa ai suoi non sempre sono soprannaturali". Il trascendente non è la negazione dell'immanente; come già aveva ammonito Nietzsche, l'ultramondo si trova nel mondo terreno e qui che dobbiamo cercarlo. "L'immagine conta prima di tutto non per ciò che essa aggiunge alla realtà ma per ciò che ne rivela".
(7) Il saggio di Schrader, scritto più di trent'anni fa risulta ancora più attuale oggi in un epoca in cui grazie alle meraviglie del digitale e degli effetti speciali si cerca di rappresentare l'irrapresentabile, in cui l'immanente la fa da padrone. La pretesa del cinema contemporaneo infatti non è solo quella di rappresentare il trascendente, ma di spiegarlo razionalmente, psicologicamente, oggettivamente, addirittura emotivamente. In questo senso stiamo assistendo ad un'operazione politica che mentre mostra qualcosa ci dice come dobbiamo pensarla e quale valore morale attribuirle. Il problema, se volessimo approfondirlo, riguarda ancora più a fondo l'uso dell'immagine, o meglio, l'uso temporale che facciamo dell'immagine.
(8) Paul Schrader, Il trascendentale nel cinema, 2002, Donzelli Editore, Roma.
(9) "Durante la fase della scissione lo spettatore vede gli uomini vivere sullo schermo emozioni ed esperienze angoscianti". Paul Schrader, Idem..
(10) Paul Schrader, Idem.
(11) Indubbiamente la fotografia in bianco e nero contrastata di Luca Bigazzi, composta di luci e ombre, di chiaroscuri accentuati, richiama alla mente il cinema espressionistico ma qui il valore è diverso: come osserva Schrader: "L'espressionismo interpreta la realtà, connotandola in un comprensibile (anche se irrazionale) realismo psicologico." Il mondo è sì deformato e irreale ma sempre comprensibile perché guardato attraverso una prospettiva umana. Quindi carico di emozioni, angoscia, paure e allucinazioni ma alla fine sempre comprensibile.
In Ciprì e Maresco l'espressionismo è la condizione dell'esistenza, la condanna in cui si è costretti a vivere. Questo mondo deformato e incomprensibile è un dato di fatto, un mondo in cui bisogna necessariamente vivere pur non riuscendo a comprenderlo.
(12) Paul Schrader, Idem.
(13) Idem.
(14) "Quando l'immagine si ferma, lo spettatore continua a muoversi, scendendo sempre più in profondità fino ad arrivare, si potrebbe dire, dentro l'immagine". Paul Schrader, Idem.
(15) Per Paul Schrader infatti la stasi deve mostrare "una scena immobile, pacificata.", un'immagine fissa che proprio per la sua immobilità acquista eternità.
(16) Cipri e Maresco con i loro tableau vivent, con lo sguardo puntato sugli oggetti e sugli esseri viventi statici, non sembrerebbero inseguire un tale percorso. Eppure questa è la scommessa più difficile del loro cinema, utopistica e folle: trovare il movimento nell'immobilità, la trasformazione nel non-vivente, il sublime nel grottesco, l'alto nel basso.
(17) K è un cortometraggio di 10 minuti che circola unito al mediometraggio Grazie Lia- Breve inchiesta su Santa Rosalia (1994).
(18) Per i due registi la luce non è qualcosa di già dato, qualcosa che è possibile catturare e mostrare con una foto, la luce è qualcosa che non possiamo capire se non ci concentriamo mentre cresce, si gonfia, plasma i corpi e gli oggetti, mentre, insomma, mette in scena il mondo.
(19) Gabriele Pedullà, Perceval, Usa, prefazione contenuta in Paul Schrader, Il trascendente nel cinema. Idem.