I personaggi campioni di inettitudine di Paul Thomas Anderson
di Lorenzo Corvino
Partiamo da Ubriaco d'amore (Punch-Drunk Love, 2002).
Barry. Chi di noi lo ha mai conosciuto. Chi delle sue sette sorelle lo ha mai davvero conosciuto! Si intende, ovviamente, oltre i piccoli fatti di infanzia e della vita assieme che una comunità familiare, di otto fratelli, di cui sette donne, si presume abbia condotto nel corso del tempo. Certo nessuno ha mai chiesto con intento altruista a Barry come sta, come (si) sente. Cosa non va in questo mondo secondo lui.
Barry è produttivo. Sì forse questo lo possiamo dire, ha un lavoro ha persino dei sottoposti, essendo a capo di una ditta di... di... di forniture per...; – riproviamo – essendo a capo di una officina o piccola impresa di...! Non è facile raccontare la vita di Barry, perché questo è il caso in cui c'è poco da dire sulla trama. Da ciò ne conviene che una sintesi a parole di Ubriaco d'amore potrebbe essere utilizzata, tanto è comune, per essere concisi su tanti altri film passati e venturi.
Proprio perché come accade al cinema migliore, non conta tanto la trama degli eventi che si intreccia, ma la maniera visiva con cui il tempo della durata viene fatto trascorrere. Ed è vero anche che una bella storia può nascondere i difetti di regia o di interpretazione, eccetera, eccetera.
Allora sono questi – come il film di P. T. Anderson – i casi in cui non è possibile nascondersi dietro altri elementi di forza – se è vero che qui non vi è una bella trama a far da sostegno principale –; in fondo una bella storia può essere presente anche in un'opera teatrale o in un romanzo, ma sono altre le qualità che differenziano tra loro queste arti del cinema, del teatro e della letteratura: ovvero i differenti strumenti di messinscena che possono rendere unica la rappresentazione anche di una medesima vicenda.
In quanto in film di questo genere, che fra poco definiremo, emergono le potenzialità autoctone proprie del mezzo cinematografico, con tutte le sue peculiarità drammaturgiche ed estetiche. Tanto di cappello dunque al coraggio di P. T. Anderson nel fare questo film dallo scarso appeal commerciale rispetto al suo precedente Magnolia (id., 1999), il quale ha sancito la sua consacrazione presso anche l'ampio pubblico. Denota ciò una forza e un carisma autoriale che trovano poca rappresentanza nei registi di oggi, tanto più se ci volgiamo al panorama statunitense. Si guardi al collega Sam Mendes che dopo American Beauty (id., 1999) della stessa favolosa annata del 1999 di Magnolia, ha realizzato Era mio padre (Road to Perdition, 2002), film che conferma l'abilità come regista ma in un prodotto manierato.
Dunque cosa fa Barry nei 90 minuti di questo film? Come si nota siamo passati dal chiederci se è possibile raccontare la vita di Barry, a chiederci se non è corretto piuttosto limitarci ad osservare solo i 90 minuti del film e di Barry. 90 minuti per Barry. E' questo tutto quello che il film ci chiede. Perché non ha senso pretendere da Barry che sia vivo, al punto da poter parlare di una sua vita da raccontare. Lui è lì come personaggio dalla esistenza di 90 minuti.
Non c'è nulla di nuovo o sensazionale in questo: tuttavia se altri film riescono a illuderci, sospendendo la nostra incredulità, che quanto vediamo può essere vero qui da noi nella realtà, o alternativamente vero in un universo parallelo, come avviene per il cinema fantastico, questo genere di cinema a cui Ubriaco d'amore appartiene, che possiamo categorizzare quale commedia umoristico-assurda, lascia tutti i filtri in sospeso tra noi e lo schermo, affinché essi ci facciano riflettere sul nostro stesso vedere la performance filmica a cui stiamo assistendo. Qui non c'è sospensione dell'incredulità, ma come a teatro c'è sospensione del tempo quotidiano per renderci estremamente consapevoli del fittizio che abbiamo dinanzi, rilanciando ogni tot numero di inquadrature un dialogo fatto di sguardi con lo spettatore. Lo aveva già detto P. T. Anderson con l'ultima inquadratura di Magnolia, ricordate?: è il giorno dopo la piaga apocalittica della pioggia di rane; è successo; nessuno si chiede come è potuto accadere, ma nella mente dei personaggi sembra invece schizzare un'altra domanda: come abbiano potuto perdere di vista il buon senso e arrivare a meritarsi questa punizione del demiurgo, cioè del regista, che con una pioggia di rane punisce i suoi personaggi per la loro stoltezza e presunzione a voler controllare il mondo, per non voler accorgersi di essere solo personaggi di un film epico. Questo ravvedimento avviene però in Magnolia nell'ultima inquadratura appunto, per opera di uno solo dei numerosi personaggi che lo costellano.
Il poliziotto – interpretato da un John C. Reilly, suo attore feticcio, che diventa sempre più icona e maschera di un certo cinema epico/surreale/psicologico (mi riferisco alla sua onnipresenza negli ultimi anni: da Magnolia a The Anniversary Party, da Gangs of New York a The Hours) – il poliziotto, dunque dicevamo, è andato dalla figlia depressa e tossicodipendente del conduttore televisivo che da piccola ha subito le eccessive smancerie del padre, è andato da lei per prometterle amore e solidarietà, fedeltà e fiducia; ed ecco il colpo di genio: noi non vediamo il poliziotto che parla, che si dichiara, ma lo udiamo in fuoricampo, perché la macchina da presa sta stringendo sul primo piano di lei, è lei che ci interessa, il modo in cui recepisce quelle parole, mentre incalza la musica. Non dimentichiamo come per Anderson anche la musica sia fondamentale, da cui in Magnolia la canzone emblematica Save Me. E poi... lo sguardo in macchina della donna, quindi stacco su nero. Il film finisce; aspettiamo tre anni ed ecco che ricomincia con Ubriaco d'amore.
Il ravvedimento del personaggio di essere tale è avvenuto in quello sguardo in macchina. E il Barry di Ubriaco d'amore potrebbe essere l'ideale figlio della coppia poliziotto-ragazza tossicodipendente. Ora tocca a lui nel suo film compiere questo percorso di formazione fino a diventare consapevole di essere solo un personaggio. Ecco l'epicità in P. T. Anderson. Tuttavia in questo film è difficile dire quanto veramente Barry sia diventato consapevole della propria condizione esistenziale. Ma perché è così importante fare in modo che il personaggio acquisti la ragione in merito a se stesso, e si renda conto di essere solo un personaggio? Ma è ovvio: poiché lo schermo è lì per guardarci e le sue parole sono le metafore per immagini dei registi e dei loro film. Solo se studiamo le risposte parziali che certi film ci danno sul cammino dei personaggi nella strenua ricerca della ragione di esistere, allora pure noi di questa parte dello schermo possiamo avanzare nella personale ricerca sulla nostra ragion d'essere.
Perché nell'era contemporanea non c'è più una fede religiosa che detiene la maggioranza assoluta nel pacchetto di azioni della nostra vita, per usare una alquanto squallida e postmoderna metafora dell'esistenza, per cui siamo soli nelle nostre peregrinazioni. Pertanto Anderson questa volta ha scelto la singolarità di un solo personaggio per il suo nuovo film-inchiesta, per farci sentire più rassomiglianti a lui, a Barry, a differenza della scorsa inchiesta in cui con Magnolia avevamo la coralità che rischiava di fornire alibi alla nostra scarsa volontà di comprendere, anziché: "Tanto – potremmo dire alla nostra coscienza – il fatto che tutte queste cose accadano in questo modo tra coincidenze e scherzi del destino è un'esagerazione: non tutte le persone sono dei casi disperati come questi di Magnolia... ".
E' così che la pensiamo? Bene, allora in Ubriaco d'amore non c'è scampo: un personaggio soltanto, Barry, completamente anonimo, nessuno stupro subito da piccolo, nessuna droga assunta, nessuna ambiguità sessuale, nessun tratto fisico particolare. E soprattutto nessuna confessione didascalica che racconti seriamente il suo passato, ma solo vani e goffi tentativi di cercare complicità fornendo confidenze a gente che non sa ascoltare né mantenere le promesse, come il marito di una sua sorella. La riduzione di elementi superflui in questo film è tale che addirittura possiamo notare come Barry indossi un solo abito dall'inizio alla fine dei 90 minuti. Un unico abito di scena più volte definito un po' eccentrico e ridicolo dal suo entourage. Certo non mancano le bizzarrie e le personali deviazioni che chiunque ha e non vuole confessare per vergogna di essere giudicato.
Vediamo ora in cosa consiste la personale crescita e ricerca di questo personaggio in cerca d'autore. Questo film sfugge alle normali impostazioni realistiche: sin dall'inizio il primo pensiero che passa per la mente dello spettatore è che gli istanti iniziali sono parte di un sogno da cui da un momento all'altro Barry si desterà. E invece no, tutto il film procede sulla stessa linea su cui si apre: verrebbe da inserire a questo punto una espressione molto consueta che dice molte cose, tuttavia troppo logora dall'uso per continuare a comunicare contenuti con efficacia: ossia "qui realtà e sogno cortocircuitano l'un l'altro". Vero, ma sarebbe più corretto dimostrare il come, dopo aver detto il perché in merito alla scelta di raccontare il percorso formativo di personaggi che raggiungono la consapevolezza di essere tali, al fine di offrirsi, per volontà del regista, quali entità speculari e di riferimento per l'umanità.
La ragazza tossicodipendente che guardando in macchina accenna ad un sorriso e ci restituisce lo sguardo nell'ultima inquadratura di Magnolia, sembra dire: "Ora che sono consapevole di essere un personaggio, mi viene da ridere mentre continuo a piangere, perché quelle dolci parole del poliziotto qui dinanzi a me, non potranno mai realizzarsi, dovendo il film finire a breve!". Questa è consapevolezza in un personaggio.
Troviamo Barry nel pieno di una condizione esasperata, pochi i perché. Non tutto è adducibile al fatto che ha sette sorelle che lo assillano e che tendono a compiere una lenta riduzione a verme del fratello. Eppure a leggere le recensioni sintetiche di questo film, tutto si riduce a questa gabbia familiare delle sette sorelle, che peraltro sfido chiunque a ricordarne di viso, tanto poco sono presenti nel film, e per giunta neppure tutte assieme, se non in una scena all'inizio.
Sarebbe troppo facile e presuntuosamente occidentale pretendere di risolvere i problemi di Barry sintetizzando l'apparenza. Una volta tanto la psicanalisi così onnivora di trame e storie traumatiche nel cinema statunitense, quantunque offerta in dosi diluite e omogeneizzate, sembra qui non trovare la chiave passe-partout per aiutare lo spettatore a capire in modo lapalissiano tutto, tutto quanto.
Non è più tempo di avere catene di cause ed effetti. Bisogna capire ma non in modo meccanico, bensì critico ed esistenziale. Non sono le spiegazioni della fisica deterministica o dei "veristi dell'anima", come definiva Alberto Savinio gli psicologi, che dobbiamo contemplare, ma quanto esiste innanzi ai nostri occhi nel mentre si offre, come insegnava Wittgenstein, senza chiederci cosa ne era dell'oggetto prima di arrivare sino a noi. Infatti, così facendo, riusciamo a comprendere Barry come un personaggio che soffre l'incapacità di realizzare e instaurare intorno a sé la quotidianità. Dire questo ci mette al sicuro da ogni paternalistico proposito di volerlo guarire o di volergli fare la morale. Leggere la filigrana della realtà di questo film tramite le accattivanti e persuasive, e per questo poderose, strutture freudiane significa tradire l'idea genitrice dell'opera: la giustapposizione.
Questo film sembra esser nato per accumulo di incipit di trame possibili, come un abito arlecchinesco cucito di tanti cortometraggi e atti unici del Teatro dell'Assurdo. E non è un caso se si mettono insieme Commedia dell'Arte e Teatro dell'Assurdo, se prima abbiamo parlato di questo film come di una commedia umoristico-assurda, che forse sarebbe piaciuta a Cesare Zavattini o ad Achille Campanile o a Jacques Tati. E accumulo sia. Solo dopo essere stati ubriacati, nonostante il ritmo lento e sussultorio, da tanti piccoli fatti di per sé frammenti o happening, e da indizi spaesanti, scopriamo che tutto si risolve nella più tradizionale storia d'amore tra due tipiche anime gemelle, campionesse di inettitudine.
E solo dopo una reiterata pratica di distrazione portata avanti sullo spettatore con deviazioni varie era possibile convincere lo spettatore medesimo ad assistere all'ennesima banale storia d'amore, ma che vive, pardon, dura 90 minuti con dignità, proprio grazie alle intenzioni che il regista mostra nel guardare il suo personaggio in cerca di un autore che gli dia quotidianità, ossia serenità; lo privi quindi dei tormenti a causa dei quali risulta un personaggio imbarazzante per la sua specie.
Il regista segue il suo personaggio che non sa. Differentemente, invece, la ragazza tossicodipendente di Magnolia sa, quando, scoprendo di essere osservata da una macchina da presa, decide di guardarla dritta nell'obbiettivo. Barry non sa e il regista partecipa con carrelli veloci e grandangoli eccessivi alle sue esternazioni di impulsività eruttante.
E c'è un elemento insolito e fortemente rivelatore che dimostra quanto l'Autore stia guardando senza giudicare il suo personaggio, tutto intento nell'adempiere al suo romanzo di formazione: i riverberi bluastri e spudoratamente esibiti allo spettatore. Veri e propri acciacchi di una messinscena che volontariamente sceglie di stentare ad essere composta e chiarificatrice.
Perché quei riverberi, analogici segni, direttamente imparentati con gli inserti, questa volta digitali, che appaiono di tanto in tanto a tutto schermo e nei titoli di coda, simili molto ai cosiddetti fosfeni di quando ad esempio guardiamo una luce intensa che ci acceca e che ci pare di continuare a vedere sotto forma di fluorescenze mentre strizziamo, chiusi, gli occhi? Perché allora i riverberi? Quei riverberi ci fanno pensare all'impossibilità di guardare in volto la verità, di penetrare, con l'armamentario della logica, e qui del cinema, fino in fondo il dramma, qualunque esso sia, e qui in particolare di definire a tutto tondo il personaggio Barry. In quanto ogni tentativo di guardare dritto finisce per sporcare l'immagine con queste luminescenze bluastre che tradiscono la presenza dell'obiettivo della macchina da presa in funzione. Non ci è consentito guardare il sole, scrutare, senza filtri interponenti, la sua realtà, la sua bellezza; se ci avviciniamo a farlo, negli occhi restano fluorescenze, chiazze della nostra spavalderia di Icaro.
Ci rendiamo presto conto quanto sia difficile definire questo personaggio, quanto il film sia costruito intorno a questo essere inespressivo, a cui l'attore Adam Sandler offre il volto da giovane gaio. Tutta colpa della frustrazione che inebetisce. Perché questo cinema oggi non vuole, al pari del romanzo contemporaneo, riportare in vita personaggi a tutto tondo ben calibrati da un sicuro destino, a cui lo spettatore deve semplicemente affezionarsi. Barry tra un balbettio e l'altro non dà dei perché alle sue gesta, finisce per fare una professione alquanto indecifrabile a contatto con dei messicani suoi sottoposti – ma in verità nessuno riesce a credere che questo Barry possa essere un capo di una qualsivoglia impresa –; egli girovaga senza criterio e per non annoiarsi compone un numero sexy che lo inguaia – altro incipit di storia che viene lasciata cadere e di tanto in tanto ripresa senza diventare filo principale della vicenda, ma ennesima deviazione per spiazzare lo spettatore nel mentre il film lo sta portando verso la tradizionale storia d'amore, senza che lui se ne accorga –. Almeno il precedente di questo personaggio, il suo padre putativo, il poliziotto di Magnolia, almeno aveva una professione che faceva da diga all'incontinenza della sua personalità liquefatta priva di spessore. Essere poliziotto contribuisce all'autostima, tanto è vero che in macchina di pattuglia parla con lo spettatore e con se stesso cercando di dare delle ragioni alla sua esistenza/partecipazione in quel film.
E se vediamo nel cammino di P. T. Anderson un legame tra i suoi film, come tappe di un medesimo percorso, possiamo ammettere che il regista autore sta proprio defenestrando volta per volta le qualità dai suoi personaggi, ridicolizzandole, portandole all'eccesso. Al fine di lasciare che la loro anima (leggi natura o esistenza) si mostri da sola, senza rivestimento alcuno. Basti pensare all'eccesso di qualità che deteneva il protagonista di Boogie Nights (id., 1997), dotato come era di uno sproporzionato organo sessuale: qui l'epilogo è riservato all'esibizione del pornodivo protagonista dinanzi allo specchio, in cerca di autostima, esibendo a se stesso il proprio membro, quasi che sapesse inconsciamente di dover dire addio alle mirabolanti prestazioni del passato. Da quel momento chi nei suoi film avesse avuto una particolare dote sarebbe finito a fare il fenomeno da baraccone, come accade al personaggio di William H. Macy di Magnolia; e vacue figure da baraccone, sulle cui doti ci sarebbe da discutere, sono presenti anche nel meno celebre Sydney (Hard Eight, 1997).
Come dire che prima o poi arriveremo al fumo che si rivela al fumo stesso.
E tutto questo, povero Barry, perché non riesce ad instaurare un regime di quotidianità intorno a sé nei 90 minuti concessigli, una quotidianità che si accontenterebbe di esser fatta semplicemente di impegni professionali e affettivi. E forse – il forse è d'obbligo se non ci si vuole contraddire – per questo motivo il personaggio si autocondanna ad atti gratuiti del tipo fracassare vetrate o bagni di ristoranti.
Ci viene da pensare come sia possibile che un buon americano non trovi nel lavoro i giusti stimoli; dove è finito il capitalista intraprendente figlio eletto del sogno americano? Ma questa mitologia positiva oggi lascia il posto a quelle ben più affascinanti e tenebrose del negativo, di chi fallisce e viene sconfitto dalla società; in quanto la gente se un tempo si auspicava "come mi piacerebbe diventare come quello lì!", riferendosi a qualche vincente, oggi si è più cauti e ci si chiede "e se diventassi come quest'altro?", pensando a qualche defraudato della dignità, a causa di quella stessa società di cui ha inseguito il consenso e l'approvazione.
Quindi cosa è il lavoro?; esso non ha senso per Barry, è una sorta di hangar con un ufficio e della gente che si muove, non conta se essa è incompetente e va a sbattere contro degli scatoloni, l'importante è che ci siano degli scatoloni a fare scena, a fare set, non possono mancare ovviamente dei telefoni con più linee a significare intasamento di chiamate da parte dei clienti, salvo poi essere soprattutto le sorelle a chiamare: certo l'intasamento delle linee è garantito comunque, con sette sorelle!
Ditemi voi se questo non è Teatro dell'Assurdo spruzzato di Commedia dell'Arte con Barry che inciampa ovunque, e si comporta goffamente con una cornetta del telefono, strappata dall'apparecchio, che porta con sé vicino all'orecchio correndo...; e poi tutto il resto.
Conta nell'America dell'azzardo in borsa e dei falsi in bilancio chi gioca meglio a fare finta, a costruire il più bel simulacro di sé. Certo è vero che Magnolia insisteva maggiormente su questo aspetto, considerato anche che era ambientato a Los Angeles, la città di Hollywood. Ma Barry è la rotella di quell'ingranaggio impazzito, che se un tempo permetteva a Charlot di passare indenne tra le sue dentellature in Tempi moderni (Modern Times, 1936) nel pieno del New Deal roosveltiano, oggi fa avere le allucinazioni – come lo sono gli inserti digitali sgargianti sopra citati – e induce addirittura a considerare la normalità banale della quotidianità, rassicurante e abituale, come un bene prezioso da tenersi stretto o addirittura da anelare, come accade al dispersivo e gratuito e inconcludente Barry di Ubriaco d'amore.
In questo orizzonte il personaggio di Frank Abagnale Jr. del Prova a prendermi (Catch Me If You Can, 2002) di Steven Spielberg è un potenziale alter ego di Barry, un tipo che ha capito verso quali frantumi e derive stava andando il sogno americano negli anni Sessanta, anni di soglia, anni di Vietnam, di orrendi omicidi politici al limite del colpo di Stato nel più democratico dei paesi, e che sceglie di ripagare con la stessa medicina dell'inganno e della truffa quel mondo dal quale si sentiva tradito e ingannato e disilluso, al quale per altro in parte neppure apparteneva essendo per metà di sangue francese. Con la differenza che nel film di Spielberg si narra la storia di un vincente, in quanto ancora al personaggio di Frank si offrono delle alternative essendo in una fase di transizione, dove perciò la commedia finisce per essere tale anche per il personaggio, mentre nel film di Anderson la commedia finisce per essere uno scherzo umoristico che lascia nel personaggio la sensazione di essere in una tragedia, con tutto il suo bagaglio di incomunicabilità riservato ai rapporti deviati che Barry ha col mondo nei 90 minuti. Come lo stesso è stato un tempo per il Buster Keaton che non poteva di certo ridere delle sue disgrazie – tale privilegio era riservato al pubblico. Lo stesso per il goffo Peter Sellers di Hollywood Party (id., 1968), con cui il film di Anderson ha degli interessanti punti di contatto. Lo stesso voglia dirsi per il Monsieur Hulot di Jacques Tati che nel caos del traffico, così come altrove, fa incappare il suo personaggio in situazioni per lui indecifrabili, ove i rumori – proprio come qui in "Ubriaco d'amore" – sono naturali protesi del modo in cui la realtà esprime la sua riprovazione nei nostri confronti e sul nostro operato.
Pensiamo all'uso che Anderson fa del sonoro, così eccessivo da far sussultare, come un vero montaggio di attrazioni alla Ejzenstejn, pensando ad esempio all'incipit del film, ma non solo. Si tratta di vere e proprie anomalie nella continuità spaziale e temporale, qui sulla Terra. Epifanie di un incubo che attanaglia Barry. Di tanto in tanto nella sua esistenza da 90 minuti egli subisce con una certa cadenza varie epifanie che lo terrorizzano. Vere e proprie rivelazioni che arrivano improvvise e che lo lacerano, spaventandolo. Tuttavia vi è una rivelazione, una epifania fra tutte che pare essere positiva: come accade nel gioco delle probabilità, è possibile che tra tante manifestazioni una sia quella che cercavamo. Mi riferisco alla storia del budino che finisce per diventare una vera ragione di esistenza per Barry, che non ha che 90 minuti per portarla a compimento.
La folgorazione è rendersi conto che una ditta di prodotti alimentari, per un presunto errore, tutto da dimostrare nella sua effettività, favorisca un accumulo di miglia aeree superiore a quanto quella medesima ditta abbia previsto nel gioco a premi. Infatti le miglia si accumulano attraverso il codice a barre, uno per ogni prodotto: il budino vale per la ditta come un solo prodotto, ma contiene quattro porzioni, la svista sta, al dire di Barry, nel fatto che il codice a barre è stato erroneamente inserito in tutte le quattro porzioni del prodotto, per cui al prezzo di un solo prodotto si ha il valore in miglia di quattro, ritagliando i rispettivi quattro codici a barre come prove d'acquisto. Questo che potrebbe sembrare uno dei tanti incipit, di cui sopra si è detto, pronti a diventare il binario principale del film, finisce come gli altri per essere un riempitivo per lo spettatore, perché a progredire non è altro che la storia d'amore. Incredibile!
E arriviamo finalmente a questa storia d'amore col personaggio interpretato da Emily Watson. Questa storia, quando si corona, non rilancia le possibilità di una trama, bensì forse inaspettatamente finisce per concludere, come a voler trarre, di questi 90 minuti, le somme, pur sempre provvisorie per un simile personaggio esistenziale quale è Barry. Infatti è l'amore del tutto privo di contenuti, visto che non c'è approfondimento sullo spessore di questo sentimento, che qui si offre sostanzialmente banalizzato.
Non era il caso di insistere su come ci si possa innamorare, tanto più non lo è in una commedia umoristico-assurda dove abbiamo voluto fugare tutti i perché e tutte le catene deterministiche di cause ed effetti. Accettiamo pure che questi due personaggi si frequentino e si dichiarino, tanto tutto sarà solo per 90 minuti. Sono i vantaggi di chi fa un cinema del genere.
E così l'amore permette persino di tirare le fila della vicenda del budino: Barry, infatti, chiede del tempo alla donna per permettergli di racimolare le miglia necessarie per poterla seguire ovunque ella vada per ragioni di lavoro.
Chiede tempo insomma. Come è dolce qui Barry! Forse Barry ha capito che il tempo non lo ha e che i 90 minuti della sua esistenza stanno per terminare? Forse dobbiamo prendere questo come il suo modo personale di capire cosa egli sia? Forse sì, chissà, forse chiede del tempo alla donna credendo che lei possa intercedere per suo conto col demiurgo regista. Ecco, giunti a questo punto si cadrebbe in divagazioni deliranti degne di un ubriaco d'amore.
C'è l'esigenza di un epilogo allora.
C'è chi racconta l'assurdità della guerra, oggi così d'attualità, e chi preferisce raccontare le idiosincrasie e le concrete miopie assurde di quella stessa società che sceglie la guerra come metodo per coprire le proprie paure. Dunque P. T. Anderson, come altri dallo stesso carismatico impegno, seppure in forme diverse, ci chiede con i suoi film semplicemente di verificare un aspetto della nostra vita: noi abbiamo criterio?