Alex Infascelli e il nuovo senso-horror italiano
di Chiara Armentano
L'ultimo film di Alex Infascelli ha suscitato parecchio clamore, non solo per la ragione contingente alla sua trama oscura e fascinosa, tutta orbitante attorno al tema dell'acqua (H2Odio sembra un titolo interessante nella misura in cui fonde l'arguzia di una trovata originale alla banalità di un pensiero quasi adolescente), ma soprattutto per le scelte legate alla sua distribuzione. H2Odio, infatti, è il primo film in Italia ad essere "dal 3 maggio in nessun cinema", perché si tratta di un film distribuito via Espresso e Repubblica, avendo saltato a piè pari il passaggio distribuzione-esercenti(sala)-pubblico. "Il futuro del cinema è a rischio", "una trovata di marketing piuttosto che strategia originale" e frasi come queste, sono riecheggiate sui principali organi di informazione, a sottolineare, ancora una volta, l'attitudine del pubblico italiano al massacro.
E poi diciamolo, non è che Infascelli fosse mai piaciuto tanto al pubblico. È pur sempre un "figlio di papà". Nato nel 1967 a Roma, figlio del noto produttore Roberto, non è mai stato certo uno "fuori dal giro". Eppure la sua passione comincia dalla musica: esordisce nell'heavy metal, e di lì inizia a curare i videoclip di alcuni artisti internazionali - dai Pearl Jam ai Kiss -, ed italiani, come Daniele Silvestri, Luca Carboni e Paola Turci. Nel 1994 partecipa al film collettivo De-Generazione, con l'episodio Vuoto a rendere, e due anni dopo collabora ad Esercizi di stile, tra cui spiccano i nomi di Sergio Citti, Mario Monicelli e Dino Risi. La sua carriera dunque, benché segnata dal DNA familiare, sembra rivelarsi più come una scoperta che non come una tappa già segnata. Nel 2000 esce il suo primo lungometraggio, Almost Blue, tratto dall'omonimo romanzo di Carlo Lucarelli. Nonostante il David di Donatello, rimane un film bistrattato, più dal pubblico, per la verità, che dalla critica, da molti definito semplicemente "brutto", o comunque inefficace. Eppure il talento visionario del regista cominciava qui a prendere lentamente una forma propria. Il film è, per l'appunto, "Quasi Blu", e la sua forza risiede nella potenza delle immagini e della musica, capaci di creare un unico percorso allucinato e privo di accomodamenti narrativi e visivi. L'assassino (un notevole Rolando Ravello) uccide per impossessarsi dell'identità delle sue vittime, scosso da un'infanzia degenerata e da un incubo ricorrente: un serpente che gli mangia la faccia. A incastrarlo sarà un giovane non vedente, il quale, in ascolto abusivo di chat altrui, riconosce la voce "verde" di una persona pericolosa ("verde perché è stretta, come se tentasse di non farsi scappare qualcosa sotto.."). L'atmosfera onirica che permea ogni inquadratura riesce a dare all'immagine filmica un imprinting personale e carico che, unito ad un uso accurato del mezzo anche a livello sonoro, bene omogeneizza tutto l'impianto diegetico del film. E, fatto ancora più importante, il risultato è spontaneo, frutto non tanto di una ricerca puramente manierista dell'effetto emozionale, ma del desiderio di comunicare l'"idea" stessa di follia e di disturbo mentale.
L'idea, il mood, è il centro della sua visione. Il racconto ha un andamento frammentario, i flashback reali dell'assassino si alternano alle sue alterazioni emotive (come nella scena dello specchio, in cui lo vediamo ingurgitare un serpente, un incubo ad occhi aperti), e la narrazione è schizoide come la struttura cognitiva del protagonista, la cui follia più che spiegata è "sentita". A interessare, tuttavia, non è solo la struttura filmica in sé, ma la percezione di ciò che è visto. Il risultato è alquanto originale: un incubo ripiegato su se stesso, una serie di sensazioni di delirio e di morte, ma anche la sincera pietas per chi non è riuscito a venir fuori dal proprio baratro. Il regista riesce a dare nuova verve e impulso vitale ad un genere, l'horror di stampo italiano, che da tempo aveva perso mordente. Egli crea una "suggestione orrorifica" che, in linea con le attuali tendenze postmoderne, fonde i generi (lo stesso termine horror perde univocità semantica) in un percorso in cui è facile riconoscere la mistione di vecchie marche categoriali, dal noir, al thriller, al poliziesco, al film psicologico, tutte diluite in un unico flusso uniformante. Ma l'operazione di rimescolamento e ibridazione di formule digerite in decenni di storia del cinema (anche i punti di vista si moltiplicano, le soggettive dell'assassino si affiancano ad oggettive irreali, portavoci dello stato mentale del personaggio) non è l'unica in atto. L'ingenuo disincanto, l'assenza di giudizio, la spontanea crudeltà di un giovane autore che ci impedisce, anche nell'atrocità della violenza, di condannare chi uccide, si rivela gesto coraggioso. Allo spettatore si chiede soltanto di registrare la gamma di emozioni perturbanti provocate dallo scorrere delle immagini. E in questo il sonoro è fondamentale. L'uso emozionale della congerie musicale, dai rumori ai sottofondi che accompagnano pressoché ogni inquadratura, non solo percorre ugualmente tutta la filmografia del regista, ma potrebbe costituirne, a ben vedere, la più "sensata" chiave di lettura.
È il cinema tout court, in questa sua ultima fase di vita risucchiata dal digitale, a tentare di riappropriarsi di una dimensione "pluri-sensoriale" che prima era affidata esclusivamente alla vista. Il medium cinematografico, come la cultura (veicolata sempre più massicciamente dalla super-macchina multimediale che è il computer), diventa nell'era della simulazione, della realtà virtuale, della clonazione, un'esperienza di "immersione". Immersione in un tessuto audio-visivo capace di coinvolgere attivamente lo spettatore, di percepire e far percepire con l'uso sapiente di entrambe queste componenti, oltre che del montaggio. E se poi si ripensa, tornando al nostro Infascelli, all'influenza delle visioni debordanti di Francis Bacon (per sua stessa ammissione), e a quelle di un regista ancor più debordante ed eccessivo come David Lynch, si può iniziare a comprendere il talento di un giovane esordiente del new cinema italiano che si è formato in territorio americano. Ciò che qui si tenta di creare è una personale suggestione sensoriale mirata a disarmare lo spettatore attraverso una storia aperta (il film terminerà in una clinica psichiatrica con l'inquadratura dell'assassino che guarda fisso la camera, aprendo lentamente le braccia come per librarsi in volo), i cui tratti semantici rimangono indefiniti, oscuri. Unico filo rosso lo "spaesamento" di una mente altra, persa in un altrove incomprensibile in cui il motivo di Chet Baker cantato da Costello fa da perfetto sottofondo.
Il siero della vanità, secondo lungometraggio del regista, è un'opera ancora più bistrattata. A intervenire sul risultato una potente produzione, un cast già deciso, e una serie di scelte non dipese direttamente dall'autore. Tralasciando i motivi produttivi castranti (che tuttavia non rassicurano chi è intenzionato a fare cinema in Italia), il film presenta tratti non dissimili dall'opera prima: la denuncia sociale è più forte e l'oggetto in questione - come biasimarlo - la televisione. Un gruppo di personaggi di spettacolo che hanno partecipato al famoso show televisivo "Sonia Norton Show" scompare. Cominciano le ricerche della polizia, che si mette sulle tracce di un altro uomo presente alla trasmissione, e che si rivelerà implicato nei rapimenti. Meno crudo del primo, il film è anche decisamente meno incisivo. Eppure, alla base, ritroviamo la medesima operazione autoriale, che riuscirà a realizzarsi pienamente con H2Odio. Le "sensazioni", sempre intense e trascinanti, guidano lo spettatore verso una percezione globale delle immagini: se nel primo film la linea emotiva portante era quella del delirio psichico, ora a prevalere è un sentimento di ingiustizia sociale (focalizzato nell'ambiente massmediatico) e di evanescenza morale di tutti gli attanti in gioco. La stessa Azzurra (Barbara Bobulova), pur mostrandosi l'unica a preoccuparsi della sorte del sequestratore, cade, alla fine del film, acconsentendo a girare la puntata della Norton con annesso il cadavere di quest'ultimo. Malgrado le incongruenze, l'intenzionalità poetica resta, e riconferma l'attitudine di Infascelli a disegnare situazioni, emozioni, umori attraverso l'uso consapevole di una colonna sonoro-visiva che lascia allo spettatore piena facoltà decisionale sulla suggestione da seguire. L'opera è aperta e ancora ibrida, mostrando un sostrato parodistico attraversato da incursioni noir, poliziesche e tragico-melodrammatiche. Si aggiunge la riflessione meta-dicorsiva sul medium televisivo, macchina divoratrice di anime ed entità plasmante di società succubi di show e percorsi guidati, quanto malsani (quello stesso "mostrare" predigerito che il regista combatte).
H2Odio arriva al momento giusto per confermare la maturità di uno stile in fieri, affatto stanco di sperimentare l'oggetto filmico nelle sue molteplici componenti. Importante anche perché inaugura un nuovo modo di distribuire e fruire l'opera cinematografica (nuovo si fa per dire, in America è una modalità già rodata da tempo). Non più la sala, ma prima il pubblico (chi è davvero interessato e curioso del risultato) e solo in un secondo momento la grande distribuzione (questa volta senza tagli o compromessi). In un momento storico in cui le sorti del cinema sono in mano a chi gestisce e amministra i bisogni e i desideri delle masse (situazione doppiamente precaria in Italia, dove la decretata crisi del cinema internazionale tocca picchi ancora più elevati) è da valutare come fattore positivo la mossa di un giovane cineasta che affida la propria pellicola non al beffardo mercato cinematografico, ma a quello forse più serio dell'editoria. Comprare un DVD eviterà al suo spettatore di godere di uno spettacolo collettivo in cui l'esperienza illusoria risulta più fruibile e consona alla "totale immersione", ma allo stesso tempo gli permetterà di reiterare la sua visione nel tempo, liberando lo stesso autore dai costi insormontabili e di politiche di compromesso dannose per l'integrità e, spesso, per la stessa esistenza della propria opera. H2Odio è un film forte, pericolosamente emotivo, in cui ritroviamo molte delle suggestioni già presenti nei film precedenti, rese stavolta in modo più organico e totalizzante. Cinque donne chiuse in una casa su un'isola: vogliono nutrirsi solo di H2O per sette giorni, allo scopo di depurarsi da qualcosa che attanaglia le loro anime inquiete. Nessuna di loro però è realmente consapevole di ciò che sta facendo, nessuna in fondo è spinta da motivi reali per combattere i propri fantasmi, forse perché nessuna riesce a vederli davvero. Nessuna tranne Olivia (Chiara Conti), che li vede così bene da esserne ferita fisicamente, da portare in corpo il dente di uno di loro. Sua madre si era tolta la vita in quella casa, mentre la piccola Olivia sentiva di aver ucciso la sua gemella Helena ancora nell'utero di lei. Ciò che vuole lavarsi di dosso, allora, è proprio questo senso di colpa. Le altre ragazze non riescono a comprendere il suo comportamento, incapaci di riconoscere le loro stesse ombre. E quando la fame incalza, mangiano. Ma nel momento in cui Olivia lo scopre, quei fantasmi tornano reali e violenti.
Il film comincia come una lenta discesa all'inferno, un luogo anti-edenico dove la natura ingloba i misteri dell'esistenza (la scritta incompiuta di una delle donne "HEL" è evidentemente una richiesta d'aiuto, oppure la presa di coscienza del cambiamento di stato di quel paradiso terrestre in HELL), un non-luogo la cui ubicazione imprecisa può essere ovunque o solo nella mente delle protagoniste. Attraverso i frammenti di memoria di Olivia ricostruiamo il suo passato e il motivo delle sue turbe. Il surplus di senso e sensorialità si realizza in maniera compiuta: i ritratti delle donne, solo abbozzati, le dinamiche dei rapporti interpersonali femminili, beffardi e infidi come quelli di un fanta-reality, il delirio crescente di Olivia, tutto emerge come una serie di tableaux vivants di emozioni. Odio profondo, ma anche dolore esistenziale per aver ucciso quella parte di lei che ora riaffiora in un dentino seppellito in una spalla, in un diario, in alcune foto dimenticate. Il turbine percettivo è in continuo divenire, la metamorfosi di Olivia in Helena è vorticosa, dopo la scoperta del tradimento delle amiche, e anche la natura diviene complice di questo cambiamento. Nessuna di loro sopravviverà a Olivia e alla sua ombra. Pur essendo quello del doppio uno dei motivi più perturbanti e analizzati, in psicanalisi come in letteratura, il film riesce a disarmare fino in fondo. Jekill e Hyde si reincarnano in questa giovane donna, con in dosso un fardello più pesante per un secolo in più di alienazioni. I limiti dello schermo si sfaldano, come quelli di un genere che si definisce solo come "mystery drama", come ha fatto notare lo stesso Infascelli. Lynch e il suo inconscio sono ravvisabili, così come Bergman ed Altman, ma viene anche in mente il Picnic ad Hanging Rock di Peter Weir, con la sua natura carica di senso e di mistero. E poi la pittura di Magritte, ombre e colori forti, e di nuovo la disperazione amorfa, ma umana, di Bacon, il tutto non chiuso in un gioco citazionistico da cinefilo intellettuale, ma aperto nel flusso vitale di chi fonde immagini proprie a quelle già viste e interiorizzate, immagini di immagini, percezioni di percezioni. E percezioni perturbanti sono i non detti, i non luoghi, i non visti ma "sentiti", i rumori, le urla mai pronunciate, soffocate, i sottintesi e i corpi morti e imbalsamati come mummie. In fondo perturbante non è che qualcosa di talmente profondo da non riuscire ad affiorare in superficie, come un complesso rimosso che rimane inconoscibile fino alla fine. A metà strada tra sublime e terrore. La natura dell'isola, la vegetazione rigogliosa si carica di simboli atavici, di tensioni mai espresse ed inesprimibili, eppur tangibili come un bacio saffico mai dato alla propria madre o come una sorella mai nata, ma percepibile sotto la pelle. Un demone vivo e vegeto dentro di sé. Il cromatismo eccessivo aderisce perfettamente ai contenuti, con i suoi tramonti sfumati, il mare grigio e il verde dell'ambiente circostante. Il verde, come in Almost Blue, torna ad essere un colore disturbato, una voce stretta, sintomo di qualcosa di nascosto, impregnato di follia. La partitura musicale fa tutto il resto, volgendo in sonorità quello che le immagini possono solo mostrare.
Il cinema di Infascelli, allora, sembra fatto essenzialmente di "sensazione", e la sensazione non ha genere, né sesso, né una ragione specifica. Esiste e basta. E questa dovrebbe essere l'aspirazione ultima del cinema: produrre sensazioni, non vuoti simulacri di vita reale.