Dietro la Storia: il Novecento di Aleksandr
Sokurov
di Aldo Spiniello
È un mondo complesso quello di Alexandr
Sokurov. Nato a Irkutsk, in Siberia, nel 1951, in quasi trent'anni
di attività, dal 1978 ad oggi, ha realizzato ben 15 lungometraggi
e quasi trenta documentari. Una produzione ricca, che per lungo
tempo è stata censurata in patria ed è rimasta
sconosciuta al pubblico occidentale. Ma grazie all'interessamento
del grande Andrej Tarkovskij, all'acume di critici italiani
come Ghezzi e Marco Müller, ai crescenti favori riscontrati
in Giappone, oggi Sokurov è considerato il maggior regista
russo vivente. E questo impone una certa cautela ed attenzione
nell'accostarsi alla sua opera. Notoriamente conservatore, appassionato
d'arte, classica e neoclassica in particolare (si vedano Robert,
una vita fortunata e Dialoghi con Solzhenitsyn),
di posizioni spesso discutibili, ha sperimentato l'uso del digitale
e ha progressivamente affinato uno stile lento e contemplativo,
in cui il pittoricismo delle immagini si accompagna ad atmosfere
oniriche e fumose e in cui la messa in scena diviene un valore
assoluto, perseguito con maniacale precisione. Il mondo poetico
di Sokurov dibatte di temi come l'arte, il bello, il potere,
la follia, la morte, la storia, la contrapposizione tra antico
e moderno, la fragile delicatezza dei rapporti umani. E tutto
ciò viene affrontato con mezzi puramente cinematografici,
affidando alla pura forza evocativa delle immagini, ai sottili
rapporti tra parole, silenzi e musiche, il compito di produrre
senso.
Ma della sua copiosa produzione, ciò
che qui a noi preme analizzare è l'interessante ritratto
che Sokurov dà di alcune figure cruciali della storia
del Novecento. Infatti, il suo ultimo lungometraggio Il sole,
presentato al Festival di Berlino e, in anteprima in Italia,
al Torino Film Festival, costituisce, dopo Moloch e Taurus,
il terzo capitolo di una tetralogia del potere, che dovrebbe
concludersi con un film sul Faust di Goethe. Dunque,
dopo Hitler e Lenin, il cinema di Sokurov affronta la figura
dell'imperatore giapponese Hirohito, venendo a delineare progressivamente
un discorso unitario. "Hitler in Moloch trascina
con sé molte vite alla non-esistenza, Lenin in Taurus
si oppone alla non-esistenza, alla morte, Hirohito è
invece simbolo di un'apertura alla vita". Ecco, secondo
le parole dello stesso Sokurov, il filo rosso che collega i
tre film: un percorso dalla morte alla vita, un percorso lento
e costante, colto tra le pieghe nascoste della storia.
In Moloch, vediamo Hitler (Leonid
Mosgovoi) che si reca, insieme a Goebbles e a Martin Bormann,
a far visita ad Eva Braun in un castello sulle Alpi Bavaresi.
Le notizie che vengono dal fronte sono tutt'altro che confortanti
e comincia a farsi strada lo spettro della sconfitta. In questo
primo atto, Sokurov, senza raccontare apparentemente nessuna
storia, sembra cogliere le radici culturali stesse del nazismo
(il decadentismo, le derive nietzschane e superomistiche, il
razzismo) e descrivere la figura di un uomo che cerca di superare
la sua paura della morte con la morte stessa. Hitler, nelle
mani del regista russo, diventa un piccolo uomo, vecchio e ipocondriaco,
ossessionato dall'idea della malattia e della corruzione (il
suo salutismo estremo è solo l'espressione di una paura
ancestrale), un essere dispotico, ma incapace di dominare appieno
il corso degli eventi. Se, infatti, egli può dispensare
morte ai propri sottoposti, seppure può mandare un intero
popolo al massacro in una guerra disperata, non può vincere
la decadenza che lo logora a poco a poco. Si atteggia a padrone
dei destini, ma, nei fatti, è un semplice "strumento"
di morte, un fantoccio nelle mani di un'entità più
grande, sia essa il Tempo o il Fato (folgorante l'affermazione
finale di Eva Braun/Elena Rufanova: "Adi come puoi dire
una cosa simile...la morte è la morte, non la si può
dominare"). E tutto nel film, contribuisce a creare un
senso di fine incombente: dalla fotografia fredda e glaciale,
al pumbleo colore verde, che domina in ogni immagine, dalla
nebbia opalescente e mortifera che avvolge ogni cosa alle spettrali
deformazioni degli spazi, dall'imponenza paralizzante delle
architetture alla stanca e marionettistica mobilità dei
personaggi. Solo Eva Braun sembra emergere come vero e proprio
"controcanto" e presentarsi dunque come presenza fisica,
corpo sano, istintivo e vitale, che si oppone alla lugubre e
flaccida pesantezza del Führer e all'incorporeità
fantasmatica dei soldati. Ed è ancora più emblematico
che sia proprio lei, nonostante l'apparente vacuità,
a mostrarsi come l'unica persona del gruppo effettivamente consapevole
della realtà delle cose. Qui in Moloch, il Potere
viene descritto come illusione d'immortalità, fallimentare
esorcismo contro la Morte.
In Taurus, Sokurov compie un passo
ulteriore, ponendo invece il Potere direttamente di fronte
alla Morte. Il Lenin vecchio e malato (interpretato sempre dal
grandissimo Leonid Mosgovoi) è un essere meschino ed
egoista, che cerca di aggrapparsi disperatamente alle sue ultime
energie, alla sua residua ed illusoria autorità, pur
di rinviare l'appuntamento con la fine. La memoria della passata
grandezza si traduce nell'arroganza con cui il despota tratta
gli altri, ma è un'arroganza inutile, sterile, che cozza
con la strafottenza e il sarcasmo della servitù. Lenin
non è già più come l'Hitler di Moloch:
minaccia punizioni e frustate, ma il suo è il grido impotente
di chi non vuole accettare la propria estrema sconfitta. È
come se il vecchio venisse trattato da bambino: lo si lascia
sbraitare e far i capricci, ma non gli si dà per nulla
ascolto. Al massimo, gli si mente pietosamente. E così,
quando chiede perchè mai non arrivino telefonate dal
comitato centrale, gli altri replicano che probabilmente le
linee sono saltate. Persino la verità viene negata, nascosta,
come se non ce ne fosse più bisogno. La nebbia verde
e esiziale ricopre tutto, riducendo i corpi ad apparenze spettrali.
Il Potere crolla di fronte alla Morte. L'unica cosa che esso
può fare è "migrare", transustanziarsi
in un altro corpo e in un'altra esistenza. Lo Stalin che si
reca a colloquio col maestro è già il nuovo involucro
carnale dell'entità metafisica del Potere: si muove con
l'arroganza e la sicurezza che gli assicura il suo nuovo status,
attento solo a mantenere una parvenza di "sottomissione",
che è di un'ipocrisia agghiacciante. Il punto è
che, sebbene Sokurov non ce lo mostri direttamente, s'incomincia
a far strada l'idea che il ciclo si compia continuamente: che
anche quel nuovo corpo sarà logorato dal tempo e sarà
costretto a cedere il suo scettro ad un corpo nuovo. È
solo nel suo essere fluido e proteiforme che il Potere può
garantirsi una sopravvivenza. Ai corpi abbandonati dal mostruoso
Leviatano non resta che rassegnarsi alla propria "umanità",
farsi cullare (incoscienti?) negli ultimi giorni da qualche
presenza affettuosa, sino a che nel finale le nebbie si diradano
e un tenue sorriso può illuminare il volto. È
un epilogo più speranzoso quello di Taurus: sembra
dirci che, privata della tragica maschera del potere, la fragilità
umana è comunque degna di commiserazione.
Questa debole luce sembra preparare l'avvento
de Il sole. Allo sguardo di Sokurov, il piccolo imperatore
Hirohito (interpretato dall'attore giapponese Issey Ogata) si
riveste di un'umanità negata, almeno in parte, agli altri
due dittatori. Ultimi scampoli di Seconda Guerra Mondiale. Il
Giappone è allo sbando. L'attacco atomico a Hiroshima
e Nagasaki ha messo in ginocchio l'impero del Sole. In tutto
questo Hirohito sembra un eremita estraneo, tutto dedito ai
suoi studi di idrobiologia e ai componimenti haiku, apparentemente
imperturbabile nella sue eleganza e cortesia. L'imperatore sembra
totalmente inconsapevole dei disastri che hanno colpito il suo
popolo e incosciente delle sue gravi responsabilità.
Quando per la prima volta mette piede fuori dal suo splendido
rifugio per andare a parlare col generale americano MacArthur
è meravigliato delle macerie che incontra sul suo cammino.
Eppure non è uno stupido: si avvertono, dietro i suoi
modi affettati, sottili fremiti e inquietudini. Lo sguardo dei
suoi servi, che lo spiano dalle porte, non è più
quello impaurito dei soldati Hitler o quello sinistro e sarcastico
dei sottoposti di Lenin. È, da un lato, lo sguardo riverente
di chi segue il proprio dio, ma soprattutto è lo sguardo
di chi assiste preoccupato allo smarrimento di un figlio (o
di un padre). Lo stesso pragmatico generale McArthur, incapace
di capire quest'uomo per il quale un intero popolo sarebbe disposto
a morire, l'osserva a suo modo affascinato dai modi gentili.
E anche noi siamo sorpresi da una certa tenerezza nei confronti
di questo Charlie Chaplin giapponese, all'apparenza così
goffo e impacciato. È una tenerezza che lo stesso Sokurov
ricrea con una fotografia non più livida e plumbea, ma
giocata su tonalità marroni, più calde e luminose.
Ed è nelle sue scelte che Hirohito si mostra degno di
questa tenerezza, nel suo saper accettare le resa e risparmiare
ulteriori orrori al suo popolo, nel suo rinunciare alla propria
natura divina e così far crollare dalle fondamenta le
basi secolari su cui si fonda il suo potere. Hirohito rinuncia
al suo status per riscoprirsi umano. Accetta la morte del suo
potere, per restituire la vita al suo popolo e alla sua persona
(non a caso verrà risparmiato da McArthur) e riscoprire
una sorta di autorità morale. Sokurov riesce nel suo
obiettivo, quello di fare di Hirohito il "simbolo di un'apertura
alla vita". E poco importa se sembra sorvolare sulle gravi
responsabilità del suo protagonista.
Il cinema di Sokurov non si pone l'obiettivo
di dare un'interpretazione storiografica degli avvenimenti.
Il suo cinema cerca di comprendere l'essenza stessa della Storia,
svincolandola dal suo svolgimento temporale e proiettandola
in una dimensione universale, in un'ottica esistenziale in cui
viene ad essere la risultante di opposte forze e tensioni: la
vita, la morte, il potere, l'umanità.