L’ultima corsa verso la liberta’: il cinema di Gabriele Muccino
di Alessio Gradogna
Amato e odiato, vezzeggiato dal pubblico e snobbato dalla critica, accusato di esasperato formalismo e di superficialità ma premiato dagli incassi record dei suoi film, Gabriele Muccino è un regista che divide, che fa parlare di sé, che ha saputo negli anni creare un proprio stile, utile a renderlo immediatamente conoscibile anche agli occhi dello spettatore medio.
Muccino nasce a Roma nel 1967, e dopo il diploma si iscrive a La Sapienza salvo poi abbandonare per entrare nel mondo del cinema con il ruolo di assistente alla regia per Marco Risi e Pupi Avati. Frequenta il Centro Sperimentale di Cinematografia, e realizza spot pubblicitari e piccoli documentari per la Rai. Nel 1998 l'esordio nel lungometraggio. Ecco fatto (che gli fa vincere il premio ANEC come miglior regista esordiente dell'anno), Come te nessuno mai (candidato agli European Film Awards), L'ultimo bacio (campione d'incassi, vincitore di 5 David di Donatello tra cui quello per la miglior regia e distribuito con grande successo anche negli States), Ricordati di me (nuovamente pluricandidato ai David): quattro film, quattro storie ramificate in decine di ulteriori microstorie incasellate all'interno di esse, e una corsa sfrenata verso il successo, la notorietà, e l'approdo al porsi come uno dei principali artefici della rinascita, almeno a livello di incassi, del cinema italiano.
I personaggi di Muccino vivono all'interno delle loro personalità intensi drammi, sconvolgimenti emotivi causati dal fato avverso o molto più frequentemente dal proprio coscienzioso volere, si muovono come eroi da videoclip in sfrenate battaglie che conducono talvolta alla vittoria (di rado) talvolta alla sconfitta (quasi sempre), imprimono nei loro volti echi letterari non lontani dalle suggestioni moderne e al contempo classicheggianti di autori di culto del popolo giovanile come Andrea De Carlo (in alcuni personaggi mucciniani ribelli, confusi, ebbri di vita ma anche di timori, non è difficile trovare punti di contatto ad esempio con il Guido Laremi di Due di Due) ed Enrico Brizzi, e permettono al pubblico di subire un'inconscia identificazione con la materia narrata.
Muccino recupera la tradizione della commedia all'italiana permeata di nostalgia e di connotazioni sociologiche di un Monicelli o di un Dino Risi, la filtra con i tempi e le esigenze del cinema moderno, evidenzia il tutto con uno strato di pessimismo piuttosto accentuato, e pur rischiando più di una volta di scivolare nel calligrafismo, sottolineando la forma a discapito della profondità dei contenuti, sa cogliere la voglia degli spettatori di sentirsi raccontare storie: lievi e difficili, comprensibili ma non inutili, soprattutto e semplicemente storie in cui ritrovare se stessi e le difficoltà del quotidiano.
Negli eroi (o anti-eroi) mucciniani la platea vede come in uno specchio la propria immagine riflessa, i turbamenti di generazioni confuse e disperse nel marasma socio-politico postmoderno, i dubbi e le angosce di chi ancora non ha ben compreso cosa fare della propria vita, la follia insita nella natura di ogni uomo e pronta ad esplodere al primo soffio di vento recante in sé orizzonti vuoti e possibilità di evasione.
Muccino ha negli anni compiuto un personalissimo percorso ideologico, partendo dall'analisi di paure e turbamenti del mondo adolescenziale (in particolar modo in Come te Nessuno mai), svoltando verso l'indecifrabile generazione dei trentenni (nell'Ultimo Bacio) e approdando alla devastazione psicologica dell'apparentemente innocuo universo dei quarantenni (in Ricordati di Me). E' cresciuto di pari passo con le sue storie, riuscendo peraltro a creare notevoli punti di sutura tra una pellicola e l'altra, costruendo uno strato narrativo ben determinato che pone in essere i suoi lavori senza soluzione di continuità: a ben vedere, infatti, i problemi dei sedicenni (i primi amori, la ribellione nei confronti dell'intero universo nemico, l'insofferenza verso la scuola, la voglia di evadere e di spiegare le ali della libertà verso un terreno infinito in cui sfogare la propria voglia di vita) non sono poi tanto dissimili da quelli dei trenta-quarantenni (amori finiti e ritrovati, tradimenti veri o presunti, voglia di abbandonare restrittive occupazioni e grigie vite familiari, desiderio di partire, viaggiare, scoprire, e mai più tornare).
Di pari passo con l'evoluzione anagrafica delle sue storie, Muccino ha ottimizzato fin dagli esordi e poi mantenuto costante uno stile tecnico-visivo che sfrutta le tendenze schizofreniche di tanto cinema contemporaneo per poi amalgamarsi con il concetto di regista factotum che modella e muove la macchina da presa come organismo e soggetto vivente nonché come proiezione del proprio campo visivo. Movimenti sinuosi e veloci, penetranti e scattanti, profondità di campo alternata a flou piuttosto marcati, macchina da presa sospinta in un perenne giostrare e roteare, dolly sparati a velocità estreme, una voglia irrefrenabile (che poi è la stessa dei suoi attori) di sfondare idealmente la quarta parete che divide schermo e platea per giungere ancora più in fretta (e ancora più in profondità) nelle coscienze e nei cuori degli spettatori.
Nei film di Muccino siamo bombardati da parole, immagini, discorsi, improperi, lacrime, sorrisi, storie parallele che si alternano in fase di montaggio e che si affastellano una sull'altra senza sosta, giungendo così ad una mescolanza estrema che va a configurarsi alla stregua di un rave party cinematografico che stordisce e atterrisce. Allo stesso modo gli attori dei film di Muccino sembrano portare sui loro corpi la sofferenza fisica causata dallo sfrenato realismo della messinscena del regista romano: essi urlano, sbraitano, piangono, tradiscono, fanno l'amore, subiscono i propri errori, si guardano attorno senza più riferimenti spazio-temporali, annegano in una tempesta dialettica e retorica, restano confusi e basiti di fronte a strade che si aprono improvvisamente di fronte a loro e a scelte che non sono in grado di compiere, tremano nei propri timori e nelle proprie insicurezze, e poi, come ultima e definitiva soluzione, corrono…Corrono verso l'amore perduto, corrono verso la salvezza, corrono verso la dannazione, corrono verso l'ignoto, corrono verso la libertà.
Lo scatto disperato di Martina Stella per recuperare il perduto amore di Stefano Accorsi, la fuga di Stefano Bentivoglio e di Monica Bellucci sulla spiaggia, adulti tornati fanciulli che nella felicità hanno cancellato il mondo intorno a loro, il volo di Silvio Muccino (evidente alter-ego del regista, un po' come il Jean-Pierre Leaud truffautiano) verso la vita e verso il mondo dopo aver sperimentato per la prima volta l'ebbrezza dell'amore fisico, sono tutte facce di una stessa medaglia: correre verso la luce, superare la siepe leopardiana dell'ignoto, inseguire un obiettivo forse impossibile, trascinare lo spettatore prendendolo idealmente per mano e portandolo anch'esso all'inseguimento di una realtà altra che forse nemmeno esiste.
I film di Muccino, forse presuntuosi, probabilmente eccessivi, presumibilmente sinceri, indubbiamente affascinanti, scagliano dal proprio arco una serie di frecce acuminate che vanno a colpire l'intero ordine sociale: l'esistenza misera e fasulla di una media borghesia senza apparenti sogni rinchiusa in una campana di vetro attraverso la quale ogni disobbedienza dall'intelaiatura collettiva è negata, la struttura arcaica e soffocante del concetto di vita familiare che stenta ad amalgamarsi con le esigenze d'indipendenza dei suoi membri, l'ipnotizzante potere mediatico della televisione che annebbia cuori e cervelli e che pone l'egoismo e l'opportunismo come centro focale di ogni evento, e la tendenza dell'uomo comune a chiudersi dentro al proprio bozzolo di misere certezze perdendo la voglia di scoprire e di imparare, e dimenticando la voglia di sognare. Ma in fondo, sommersi dai traumi delle sconfitte, assordati dalle urla isteriche di chi si ritrova solo e flagellato da un mondo ostile, risvegliati dal torpore in cui per troppo tempo erano caduti vittime del grigiore della quotidianità, i protagonisti mucciniani, colpevoli o innocenti, sinceri o approfittatori, realmente pentiti o pronti ad indossare una maschera che permetta loro di nascodere la propria espressione prima di immergersi in nuove scriteriate avventure, hanno comunque il merito di trovare la forza per provare a correre verso il traguardo più difficile: la libertà.