Uomo e natura nei film di Franco Piavoli
di Claudio Cinus
Per ammissione dell'autore stesso, il cinema di Franco Piavoli, cineasta totalmente indipendente e pressoché sconosciuto al grande pubblico, va visto e fruito come un concerto. Nei suoi film confluiscono, con la medesima importanza, immagini, luci, suoni, musiche, che combinati tra loro portano, più che a una semplice visione, a vivere un'esperienza artistica in cui la comprensione di una trama è sostituita piuttosto da un susseguirsi di sentimenti che lo spettatore è tenuto a cercare non solo in ciò che vede, ma anche dentro di sé, in base alla propria personale sensibilità. I temi proposti nelle sue opere sono così vasti, e lasciati al desiderio dello spettatore di coglierli, che si possono scovare molteplici percorsi e rimandi: la maniera in cui il regista ha ritratto la natura è un affascinante sentiero che percorre buona parte della sua attività.
Nei suoi "invisibili" corti degli anni '60, Piavoli si è concentrato soprattutto sulle persone, sui primi piani di gente comune, sui loro corpi in continuo movimento, sui rumori che li circondano, senza usare dialoghi: in Domenica sera uomini e donne avvinghiati nelle danze di una balera paesana; in Emigranti la fatica e la sofferenza in una stazione che è crocevia di arrivi e partenze verso una nuova vita; in Evasi un ritratto veritiero, e perciò quasi impietoso, dei tifosi di una partita di calcio, che palesano sui propri volti sfatti emozioni incontrollabili, costrette ad emergere solo nella particolare situazione dello stadio.
In questi corti c'è più un intento indagatore, da scrutatore attento di varie realtà che all'occhio comune sembrano banali e poco interessanti, che non una critica nei confronti della società; ma a mettere bene in luce alcuni aspetti dell'umanità rappresentata, ci sono alcuni brevi lampi in cui il mondo circostante fa la sua comparsa, come momento di stacco, come istante di quiete in contrasto con la frenesia del genere umano. La "domenica sera" di una coppia finisce, infatti, sulle rive di un laghetto, dove poter finalmente trovare quella pace e quella dovuta solitudine che nelle ristrettezze della piazza paesana, colma di coppie improbabili e di suoni infiniti, non era possibile ottenere; e la serenità del luogo, i suoi rumori così distanti dall'insistente musica dell'inizio della giornata, anticipa suggestioni che faranno parte dei futuri lungometraggi del regista. Ancora più bello, e poetico, é lo sguardo che una ragazzina rivolge al cielo nel bel mezzo di "Evasi"; una bambina ben poco attratta dal campo da gioco, che è precluso a noi dalla scelta del regista e a lei da un totale disinteresse, alza gli occhi al cielo al passaggio di un aeroplano, come a cercare qualcosa di più bello e importante dello spettacolo che si trova costretta a subire; nel cielo, ecco che compare la luna, placida e immobile, che sembra emanare grande serenità sopra il continuo tumulto di urla e corpi che caratterizza gli spalti di uno stadio per una qualunque partita di calcio che si svolge quaggiù. Piavoli non voleva condannare il tifo calcistico, che certo non disprezza, ma questa breve apparizione dell'astro, così come la pacatezza dell'ambiente su cui si chiudeva Domenica sera, mostrano in nuce l'idea di una certa superiorità della natura rispetto all'uomo, se non altro per la possibilità che essa ha di rigenerarsi e di continuare a vivere senza farsi consumare dalle passioni che bruciano l'animo umano.
Piavoli esordì nel lungometraggio nel 1984 con Il pianeta azzurro, titolo che ricorda l'aspetto della terra vista dallo spazio. In questo suo primo film la diversità tra l'ambiente e gli uomini diventa centrale. Tutta la prima parte è dedicata all'osservazione di un microcosmo fatto di particelle d'acqua, insetti, piante, vento. Niente in comune con tanti documentari che cercano, nell'osservazione al microscopio, una visione spettacolare o antropomorfa dell'universo naturale, ma una sorta di rivisitazione dell'alba della vita, attraverso l'esplorazione di piccolissimi angoli del pianeta che da secoli si rinnovano, come se il nostro pianeta rinascesse ogni giorno; per dirla come Tarkovskj, un "vero e proprio anti Disney" nella maniera di concepire il disvelamento di un habitat. La prima parte della pellicola è caratterizzata dall'assenza della specie umana, distante da questo miracolo della vita e, in fondo, quasi mai spettatrice.
Eppure, i primi esseri umani che ci vengono mostrati sono completamente avvolti dal verde: due giovani che amoreggiano su un prato. Quando terminano, quel che rimane è solo uno spiazzo di erba schiacciata dove prima i fili erano alti. Questo "buco" è un'immagine molto significativa, che potrebbe avere senz'altro un valore positivo, come ad indicare il posto dove si è appena svolto un atto d'amore; ma quel prato calpestato dimostra che anche un atto d'amore, se compiuto dall'uomo, può risultare dannoso per il territorio. E quando Piavoli comincerà a mostrare, senza alcun accenno polemico, contadini che coltivano la terra, e che quindi ne cambiano l'assetto, ne modificano la sublime armonia che aveva caratterizzato l'inizio del film ma anche i primordi del pianeta, questo senso di invadenza dell'umanità non verrà mai meno. Le grandi macchine che i contadini adoperano hanno ben poco l'aspetto di strumenti del progresso, e ben più raffigurano strumenti di tortura per il suolo. Ma la forza della natura, sin dalle sue origini, sta proprio nel suo sapersi rigenerare, superando ogni difficoltà. Le immagini finali raffigurano la campagna, e i macchinari, avvolti dalla nebbia che occupa totalmente il paesaggio: lo scenario naturale ha ripreso il sopravvento, rendendo invisibile il lavoro e gli strumenti che l'hanno modificato.
Dopo questo confronto, nel successivo Nostos - Il ritorno non c'è più una marcata distanza tra uomo e natura perché essa assume un ruolo più attivo, di confronto, e quindi di guida e insegnamento. La trama prende spunto dall'Odissea: il viaggio di un eroe verso casa, un guerriero che affronta ostacoli e tentazioni prima di poter approdare alla dimora che pervade i suoi ricordi. È un'opera molto particolare, in cui il linguaggio, una rielaborazione di antiche lingue mediterranee, è utilizzato come pura sonorità; in questo modo il viaggio del protagonista non è la sua personale storia, ma tutte le storie che trattano di un ritorno, e del contrasto tra il fascino dell'ignoto e il bisogno di ciò che è familiare e costituisce le proprie radici. L'Ulisse di Piavoli, proprio come quello omerico, vuole varcare confini e placare la sua sete di sapere, prima di terminare il suo viaggio; imparerà anche la consapevolezza dei suoi limiti, per superare i quali invece era finito all'inferno l'Ulisse dantesco. Egli è un guerriero: con dolore, ricorda fiamme, stragi, morte; tutto ciò che di male può fare un individuo egli lo ha fatto; in maniera ben più feroce dei contadini di Il pianeta azzurro, anche lui ha violentato la terra, portando con sé la distruzione. Sarà la natura a porre un freno alla sua presunta onnipotenza; il grande Ulisse nulla può di fronte all'acqua, al mare, capace di ammaliarlo e bloccarlo con la bellezza dei suoi splendidi paesaggi, ma anche di distruggerlo. Un naufragio lo rende piccolo di fronte all'orizzonte; solo dopo essersi accettato come semplice essere umano, e aver imparato a quale posto è destinato, Ulisse sarà pronto per tornare a casa. Non prima però di aver effettuato un viaggio "immaginario" sulla luna, quello stesso astro che anche a lui conferisce pace e speranza come alla bambina che vi trovava silenzio in uno stadio che urlava di rabbia e passione.
Oggi sappiamo che l'uomo fa fatica a imparare questa lezione: l'eternamente rinviata messa in pratica del protocollo di Kyoto è la dimostrazione tangibile di come gran parte dell'umanità, ben rappresentata dai suoi governanti, non abbia ancora intuito che rispettare il pianeta vuol dire rispettare e salvare se stessi. Il recente ultimo lavoro di Piavoli, Al primo soffio di vento, sembra rispecchiare questo pessimismo. Ancora una volta i protagonisti sono immersi in uno scenario naturale, una villa campestre in cui una famiglia borghese trascorre un lento pomeriggio d'estate. I membri della famiglia sono malinconici e solitari, non c'è quasi contatto tra loro, vivono il pomeriggio in solitudine, ciascuno cercando a modo suo di capire perché non può o non vuole più comunicare con gli altri. Non c'è più nulla che la natura possa insegnare, né una sublime armonia da osservare: gli animali sdraiati, le balle di fieno immobili, sono segni di un luogo che non ha più alcun vincolo con i borghesi afflitti dai loro problemi esistenziali. Una ragazza va sulle rive di un fiume, e lì osserva qualcuno che nuota; non c'è rapporto, non c'è più neanche un prato su cui sdraiarsi assieme, rimane solo l'indifferenza di un fiume che scorre, l'acqua che scivola via. Il percorso del cinema di Piavoli sembra condurre a una nostalgica sfiducia nei confronti degli uomini; intanto c'è un universo che continua imperturbabile il suo ciclo. Le uniche risate, i soli suoni gioiosi, provengono da un gruppo di immigrati africani, ancora capaci di sentirsi in armonia con il mondo; fuori dalla finestra c'è ancora qualcosa capace di accendere la fantasia, mentre c'è chi rischia di prosciugarsi, usando male, per blandirsi o giustificarsi, il televisore e il computer. Un piccolo appunto finale, non necessariamente disfattista, su cui Piavoli, come suo solito, ci fa riflettere.