James Foley
Americani
di Marianna Marino
Glengarry Glen Ross è innanzitutto una pièce di successo di David Mamet, che debuttò a Londra nel 1983 per essere successivamente portata sulle scene di Chicago e Broadway nel 1984 (dopo aver conquistato anche i prestigiosi premi Pulitzer e Tony). Poco tempo dopo, i produttori Jerry Tokofsky e Stanley R. Zupnik proposero allo stesso Mamet di adattare il testo per il grande schermo, ma occorsero diversi anni perché tale progetto si concretizzasse. James Foley sottopose il testo ad Al Pacino (che interpreterà il personaggio di Ricky Roma) e, dopo aver riunito il cast all-star che lo compone, il film si realizzò abbastanza velocemente: 39 giorni a New York, che Ed Harris ricorda così: "There were five and six-page scenes we would shoot all at once. It was more like doing a play at times [when] you'd get the continuity going" (1). Malgrado il "ritardo" dell'adattamento cinematografico, il film conserva un'atmosfera anni Ottanta, su cui comunque viene gettato uno sguardo "postumo", reso evidente dal suo essere il ritratto di uno yuppismo in agonia, che si poggia sulle stampelle di una retorica sempre più gonfia e roboante (incarnata da Blake, il personaggio di Alec Baldwin, che Mamet ha ideato appositamente per la versione cinematografica della sua opera) e nell'esibizione di un cinismo basato su raffiche di fuck. Il turpiloquio costituisce peraltro una delle peculiarità della pellicola, come dimostrano le statistiche: in cento minuti, fuck è pronunciato 138 volte, shit "soltanto" 50. Il titolo italiano accentua l'aspetto di affresco sociale dell'opera, mentre quello originale cita insieme due proprietà di cui parlano i personaggi del film (Glengarry Highlands e Glen Ross Farms). Ma il titolo italiano svela anche un'altra caratteristica dell'opera, ovvero il suo essere "maschile plurale".
L'agenzia Premiere Properties rappresenta un'agonistica "società degli uomini", in cui la virilità sembra tuttavia esibita come mera autodifesa dal reale. Il che è evidente nei simboli ostentati da Blake: una BMW rosso sangue da perfetto predatore, un orologio d'oro e le più che icastiche brass balls, simbologia portatile che, insieme ai ridicoli acronimi "A-B-C" (Always Be Closing) e "A-I-D-A" (Attention – Interest – Decision – Action), costituiscono i suoi strumenti del mestiere. Sembrerebbero "uomini sull'orlo di una crisi di nervi", desiderosi di mascherare un'impotenza latente che emerge soltanto nel personaggio di James Lingk (Jonathan Pryce), acquirente sedotto da Roma che vuole recedere dal contratto per insistenza della moglie (è l'unico ad ammettere "I don't have the power"). Oltre a questo machismo pervasivo, occorre sottolineare un'assenza fondamentale, quella femminile: le donne sono soprattutto voci, foto sulla scrivania, comparse sfuggenti o figure nascoste dietro le quinte (come la guardarobiera del ristorante).
Trattandosi di un testo teatrale adattato da un uomo di teatro, il film è soprattutto "verbale". Anzi, potremmo dire persino vocale, lirico: Shelly "The machine" Levene (un immenso Jack Lemmon), infatti, modula la sua voce con lo stesso virtuosismo di un cantante d'opera. Preoccupato e ansioso per la figlia in ospedale, vellutato e mellifluo con i leads (i potenziali acquirenti), nervoso e sboccato coi colleghi. Anche gli spazi conservano l'aspetto artificiale di una scena teatrale: gli impiegati rimbalzano dall'ufficio al bar di fronte (fatta eccezione per qualche rara incursione in macchina o nella scena in cui Levene visita un lead). Questa caratteristica, insieme alla sostanziale limitazione temporale (dalla sera alla mattina) e al circolo chiuso dei personaggi, sembra indicare la volontà dell'autore di rispettare le unità aristoteliche. Quel che ne risulta è la sensazione claustrofobica di essere imprigionati in un acquario soffocante, accentuata dalla pioggia battente e dall'oscurità disegnata da luci al neon che caratterizzano il "primo atto" del film: un paesaggio infernale in cui i personaggi si muovono freneticamente, come nell'attesa della loro piccola apocalisse (il licenziamento). Una sensazione che deve molto anche alla magistrale fotografia di Juan Ruiz Anchía, che suddivide cromaticamente gli ambienti: rosso per il ristorante, blu per la strada in notturna, un grigio-verde livido per l'ufficio, rischiarato appena, nel "secondo atto", dalla luce del giorno. Una geometria teatrale che, a livello attoriale, corrisponde a un quadrilatero di dipendenti (Lemmon/Levene, Pacino/Roma, Ed Harris/Dave Moss, Alan Arkin/George Aaronow) capeggiati da un viscido capoufficio, John Williamson, interpretato da Kevin Spacey. A scatenare la tragedia è l'irruzione di Blake, messo di Mitch and Murray (capi supremi e duo del potere invisibile), che intima a tutti un ultimatum. Ne risulta una lotta darwiniana e primordiale fatta di colpi bassi e manovre nascoste, una lotta che sembra in qualche modo ricalcare quella (incruenta e di pura maestria) tra gli attori stessi.
In un'atmosfera così chiusa, anche le parole rimbalzano da un punto all'altro, accavallandosi. I dialoghi sono strutturati come ecolalie stremanti e ubriache: è il caso di Ricky Roma, con la sua suadente tecnica di convincimento a base di eloquenza e whisky, o di Moss e Aaronow, con i loro lamenti sovrapposti. Spesso si tratta, invece, di fiumi di parole unilaterali, dato che gli impiegati sono quasi continuamente appesi al telefono, a recitare con clienti recalcitranti o falsamente disponibili. Il rischio di ottenere un effetto da "teatro filmato" (tanto criticato da un artista del cinematografo quale è stato Bresson) è forte. Del resto Mamet è stato molto fedele a se stesso: come nella pièce, vi sono due atti e le sole innovazioni consistono, oltre che nella figura di Blake, nella scena in cui Levene fa visita a un cliente e in qualche conversazione telefonica. I dialoghi sono assolutamente "teatrali", ma nel film, poggiandosi spesso su primi piani, si trasformano in efficaci confronti/scontri di volti. Da sottolineare, dal punto di vista prettamente cinematografico, è la sequenza iniziale: un'introduzione graduale dei personaggi, che si "insinuano" uno ad uno nelle inquadrature.
La forza del film risiede principalmente negli attori, che recitano con lo stesso ritmo serrato dei salesmen che interpretano. Anche questo conferma la sostanziale teatralità del film, il che non è inevitabilmente un difetto, poiché "nell'adattamento dal teatro al cinema, la difficoltà sta nel fatto di non negare la specificità della scrittura teatrale, nella sua 'irrealtà', e nel trovare attraverso il cinema un mezzo per rivelarla" (2).
NOTE:
(1) Glengarry Glen Ross Production Notes, New Line Cinema Press Kit, 1992
(2) Frédéric Sabouraud, L’adattamento cinematografico, Lindau, Torino, 2007 (ed. originale: L’adaptation. Le cinéma a tant besoin d’histoires, Éditions Cahiers du Cinéma, 2006)
AMERICANI
(USA, 1992)
Regia
James Foley
Sceneggiatura
David Mamet
Montaggio
Howard E. Smith
Fotografia
Juan Ruiz Anchía
Musica
James Newton Howard
Durata
100 min