Lawrence Kasdan
Il grande freddo
di Giovanna Dipalma
Il grande freddo scatta una nitida fotografia degli anni '80, del culto del corpo, dell'immagine, del sogno americano che si trasforma in rampantismo, del vuoto di valori, di idee, di sentimenti. Ogni decennio ha una sua generazione: negli anni '80 i volti che il cinema offre, e che la memoria collettiva ricorda, sono soprattutto quelli dei quarantenni. Una generazione sospesa, per così dire, con alle spalle un vissuto molto intenso, ma che ancora non sente il problema, né l'urgenza, di tracciare un bilancio.
Gli splendidi quarantenni de Il grande freddo hanno raggiunto il successo nella vita professionale, conducono vite agiate in cui serpeggiano, in modo ovattato, delle inquietudini - un lavoro che non porta soddisfazioni, la tossicodipendenza, un marito che non si ama più, un figlio e una famiglia desiderati e mai arrivati, o avuti e poi perduti, un corpo vissuto come un dolore -, ma in cui i problemi, tuttavia, vengono vissuti sempre con un'apparente leggerezza, un ironico e "feroce" distacco. I quarantenni degli anni '80 sono i ragazzi del '68. La rivoluzione, per il gruppo di amici protagonista del film, è stata rappresentata dal sentimento forte che li aveva legati e che è via via sbiadito, così come sbiadito è l'"antico" desiderio di cambiare il mondo. C'è chi è diventato imprenditore, chi medico, chi avvocato, chi, addirittura, esperto di comunicazione: ma tutti, ugualmente, hanno perso l'attitudine al confronto, hanno smesso di parlare gli uni con gli altri. Un solo componente della vecchia comitiva ha scelto di abbandonare questo modo di vivere, con il cuore rivolto al passato e il cervello al presente, ed è l'unico a soccombere. Per tutti gli altri, la vita può continuare nella gabbia di ciò che è già accaduto e nella nostalgia delle canzoni che ne sono state la colonna sonora, nel ricordo romantico di essere stato il tipo di persona che non era possibile non piacesse a se stessa e agli altri, in un quotidiano monotono e prevedibile, fatto di piccole e grandi ipocrisie, e di speranze di uguale grandezza.
Questa nostalgia per un passato che ha le connotazioni del mito non appartiene all'atteggiamento di una sola generazione, ma investe una realta piu ampia, che il cinema postmoderno sembra aver assunto fra i suoi oggetti d'indagine preferiti. In un momento storico in cui il presente si contrae per la velocità dell'invecchiamento, il passato sembra sempre più lontano, mitico, come il presente non potrà mai essere. La tendenza è ad alludere a ciò che è stato nella realtà - e soprattutto nel cinema -, sottilmente e continuamente, fino a creare una nuova immagine che sovrappone le due dimensioni temporali, senza poter più distinguere l'una dall'altra. Il cinema decide di ripiegarsi su se stesso anche per resistere all'assalto della televisione, il medium che Marshall McLuhan etichetta come freddo, e che dice essere dotato di una comunicazione a bassa definizione che avrebbe bisogno di un'interazione dello spettatore per dare un senso all'informazione che trasmette. Un medium che non può vantare una tradizione "mitica" come quella del cinema. Il compito preposto al piccolo schermo è di restituire (o meglio ricostruire…) la realtà: una telecamera e un videoregistratore diventano i compagni ideali per i protagonisti de Il grande freddo, che possono così presentare o recitare se stessi, brillanti o patetici, ma sempre e comunque tristi. In una posizione diametralmente opposta rispetto a quella di colui che ha scelto di restare per sempre tra le mura di una casa, di un set (gli interni de Il grande freddo avevano ospitato le riprese de Il grande Santini di Lewis John Carlino), sfuggendo così ad una vita pronta ad essere consegnata ad uno studio televisivo.
La scelta di chi resta come fantasma.
IL GRANDE FREDDO
(USA, 1983)
Regia
Lawrence Kasdan
Sceneggiatura
Barbara Benedek, Lawrence Kasdan
Montaggio
Carol Littleton
Fotografia
John Bailey
Durata
105 min