Bob Rafelson
Cinque pezzi facili: luoghi e movimento
di Giovanna Dipalma
Noi spettatori dell'America conosciamo soprattutto quei luoghi che il cinema ha saputo o voluto trasmetterci, offrendoceli molto più che come una semplice indicazione geografica.
Risale in superficie il significato letterale della parola topos, che è innanzitutto, appunto, un luogo, e che solo in un secondo momento diventa un luogo comune, una figura riconoscibile e fortemente connotata che riconduce ogni immagine alla propria tradizione. Il cinema è avvezzo ad adoperare il concetto di cronotopo, un apparato spazio-temporale legato in modo indissolubile alle vicende narrate, in cui lo sfondo diventa protagonista di una storia, al pari degli attori, e le caratteristiche dell'uno si trasferiscono agli altri. E viceversa. È il caso degli spazi ostili in cui si muovono gli uomini duri e disperati dei western o delle superfici lucide e mobili che costituiscono le città in cui si sviluppano le tragiche vite dei personaggi dei noir.
Negli anni Sessanta il luogo per eccellenza è rappresentato dalla strada. Con la pubblicazione, nel 1957, di On the road di Jack Kerouac, prende avvio la produzione di libri, film, canzoni che hanno proprio il viaggio come fulcro narrativo. Con la nascita della beat generation vede la luce anche una generazione desiderosa di un incessante movimento. Alla stessa genia appartiene Robert Eroica Dupea, il protagonista di Cinque pezzi facili. La sua famiglia, di origine alto-borghese, vive su di un'isola silenziosa e separata dal resto del continente, ed è interamente dedita alla musica. Robert ha abbandonato una promettente carriera di pianista e la sua ricca casa in cerca di qualcosa d'altro. La sua ribellione è quella di un'intera generazione che ha scelto di non poter più continuare ad ignorare la realtà, di considerare mortifero il dorato isolamento assicurato dalla propria nascita. Per molti giovani di quegli anni, il contatto con un modello di vita alternativo fu offerto dalla partecipazione alle contestazioni studentesche. Per Robert è invece costituito dalla scelta, consapevole, di un lavoro umile, da operaio, e dalla convivenza in uno squallido motel con una cameriera vacua e triste. Ma egli, tuttavia, si scopre insofferente anche a questo sistema di vita. Non riesce a riconoscersi in nessuna delle persone che lo circondano, quale che ne sia la classe sociale di appartenenza, e con nessuno riesce a comunicare, sebbene il suo essere legato contemporaneamente a due mondi diversi gli fornisca una molteplicità di codici. Non c'è condivisione di sentimenti nel rumore o nella musica, nel silenzio o nelle parole che rivolge a tutti coloro che incontra sulla propria strada.

Cinque pezzi facili, come altri film dell'epoca d'altronde, è stato attaccato dalla critica cinematografica di sinistra, italiana ed europea. Un atteggiamento, questo, dovuto all'incapacità di comprendere che la ribellione giovanile ha avuto origini e sviluppi diversi in Europa e negli Stati Uniti. Di stampo politico e sociale nel primo caso, strettamente legata all'individuo nel secondo. Tutto ciò di cui si va alla ricerca, in quella che usa autodefinirsi la terra della libertà, è proprio l'essere liberi: la possibilità di seguire un impulso, abbandonare l'automobile in cui si è prigionieri del traffico, salire su un camion per traslochi di cui non si conosce la destinazione, sedersi ad un pianoforte polveroso, suonare in modo sublime tra clacson e grida andando incontro all'orizzonte.
La decisione è lasciata alla discrezione dello spettatore: la strada è il segno di una rivoluzione fallita, e dell'alienazione che ha generato, o dell'impossibilità di smettere di ribellarsi?
CINQUE PEZZI FACILI
(USA, 1970)
Regia
Bob Rafelson
Sceneggiatura
Bob Rafelson, Carole Eastman
Montaggio
Christopher Holmes, Gerald Shepard
Fotografia
László Kovács
Durata
96 min