Frank Miller, Robert Rodriguez
Sin City: realismo fumettaro
di Mario Pistacchio
Noleggio Sin City nel penultimo giorno d'inverno. Due ore e sei minuti dopo, con quel senso del meraviglioso tutto cinematografico ancora negli occhi, sono lì che mi domando: ma com'è possibile che Bruce Willis, ogni volta che sente nell'aria l'odore di Tarantino & C., reciti da Dio? Okay, il Butch di Pulp Fiction ce lo ricordiamo tutti: immaginatevi, ora, quella stessa faccia sapientemente invecchiata di qualche anno, mettetegli addosso un impermeabile da giustiziere, lasciate che si aggiri in una notte senza fine, tagliente e con tutti i sintomi dell'ultima spiaggia, e avrete John Hartigan, hammettiano poliziotto hard boiled malato di cuore e a un passo dalla pensione anticipata. La sua ossessione: inchiodare il maniaco Roark Junior, unico figlio dell'onnipotente senatore Roark. Sin City inizia con questa prima storia, tutta voce off, dettaglio e azione, che si interrompe sul molo, in una notte uggiosa, dove si consuma il rito della punizione, del tradimento e del sacrificio.
Portando un fumetto sullo schermo, la tendenza, spesso, è quella di costruire una storia a più voci. Un esempio nostrano di questa architettura frammentata è Paz!, che condivide lo stesso presupposto di Sin City: prendere i vari protagonisti dell'Autore e farli incontrare dentro un'unica grande storia, che è fumetto, ma anche cinema nell'accezione più meliesiana del termine. Risultato: una storia nella quale tutto può succedere. Come a dire che la prima regola è che non c'è nessuna regola.
E allora ci sta che, lasciato Hartigan moribondo sul molo, si venga repentinamente catapultati nella paranoia dell'inossidabile killer Marv-redivivo-Rourke. Marv, in una lurida stanza di una lurida città, incontra la Donna Perfetta, della quale non tarda ad innamorarsi. Lei gli regala la notte della sua vita, ma poi viene uccisa. Irriconoscibile, di poche parole e dai modi spicci, Marv ha un unico motore impiantato nel suo organismo anfetaminico e allucinato: la vendetta. La bella e biondissima Goldie, oltre a quella notte magica, gli ha dato anche un buon motivo per svegliarsi la mattina dopo: trovare i suoi assassini e ucciderli. Questa strana forma di predestinazione corrisponde d'altronde alla definizione che lo stesso Rodriguez dà della sua Sin City: un luogo a cui si arriva, o meglio si torna, con un unico preciso scopo, la città nella quale, se imboccate il vicolo giusto, potete trovare qualunque cosa. E così, allo stesso modo, può anche succedere qualsiasi cosa, come nel migliore stile di Rodriguez che, partendo dal pulp e pescando dal western, dal crime movie, dai classici e dallo sterminato patrimonio visivo di Frank Miller, costruisce un film senza compromessi, anzi, tutto eccessi.

Gli aspiranti "buoni" di Sin City sono come segugi lanciati sulle tracce della loro ossessione personale (vendetta, giustizia, soccorso…) e tra loro, leggendo l'ottimo cast, mi aspettavo di trovare anche Benicio Del Toro. Niente da fare. Troppo facile. L'outsider Benicio è Jackie Boy, il cattivo tenente, gonfio e sordido come un rospo. Lo vediamo bussare alla porta di un appartamento da quattro soldi. La porta è chiusa con un'esile catenella. Dall'altra parte la cameriera Shellei e Dwight, un personaggio a cui non dareste una lira. Dwight, cioè Clive Owen, ha la faccia del bravo ragazzo, non ha le bianche cicatrici in rilevo di Hartigan, né la maschera feroce di Marv. Sembra del tutto naturale pensare che Jackie Boy farà di lui carne da macello. E, invece, Miller e Rodriguez ribaltano l'ordine della catena alimentare: una punizione dantesca aspetta Jackie Boy dietro l'angolo, perché sotto la faccia nuova di Dwight si nasconde un pericoloso assassino, anche se ai piedi porta delle innocue Converse rosse.
Ma Sin City è anche la Città Vecchia, un regno post moderno di valchirie e amazzoni armate fino ai denti, tutte latex, guepiere, armi automatiche, tacchi a spillo e gatti a nove code. Nella Città Vecchia c'è posto per un sottile ammiccamento a Kill Bill, e soprattutto per la prima vera cosmogonia di Sin City. In città ci sono tre poteri: i fratelli Roark, la Mafia e le Signore. Se Roark è, sotto diversi aspetti, un problema di Hartigan e Marv, la Mafia è un problema di Dwight, che si lancia in una missione impossibile da gangster movie: far sparire un mucchio di cadaveri, tra cui quello di Jackie Boy. Sembra una buona idea gettarlo nei pozzi di catrame, anziché farne uno dei pilastri in cemento armato del ponte o infilarlo dentro un sacco e buttarlo nella Baia, come avrebbe forse potuto suggerire il Grande Chandler. Così Dwight, dopo aver fatto accomodare il vecchio Jackie Boy - con ancora il carrello della sua pistola conficcato in fronte - sul sedile del passeggero, parte in missione per conto delle Signore.
La struttura di Sin City è ellittica: al centro due blocchi narrativi, le storie di Marv e di Dwight, all'inizio e alla fine la storia di Hartigan, ma la rete di collegamenti tra le tre è fitta, gioca con la diegesi e con il tempo del racconto, crea suggestioni attraverso un sottilissimo gioco di richiami, anticipazioni e ammiccamenti (tenete a mente il nome Nancy), e si chiude riprendendo la scena iniziale di Hartigan e Junior-Yellow Bastard. Tante le scene da antologia, come quella dell'esilarante massacro di Jackie Boy e soci, che sa in parti uguali di Rabelais, Poe e Tarantino. Torrenziali i richiami: da Shakespeare (Dwight che parla con il cadavere di Jackie Boy nell'abitacolo della macchina) a Caligari (Hartigan in cella, in un crescendo micidiale di dilatazione spazio/temporale che sposta la definizione classica di quinta parete invisibile al soffitto), dalla fisiognomica lombrosiana (il colore giallo vi ricorda niente?) al cattolicesimo "alla Dreyer", dalla psicologia underground a Vertigo e Psycho (la spirale nella quale scivola Marv e la scena con il poliziotto di Dwight).
Due parole sull'immagine. Il cinema post-moderno ha abituato fin troppo bene il suo spettatore a ricostruzioni digitali perfette, a veri e propri paradisi artificiali binari, attraverso i quali suggerire o evidenziare determinati piani di significazione. Sin City si spinge ancora oltre, dettando nuove regole, soprattutto in riferimento all'uso del colore. In tal senso la coppia Miller/Rodriguez sembra infatti superare i difetti che appartengono all'estetica unilaterale di un Schindler's List: molto meglio, infatti, evidenziare il colore collegandolo all'azione (il sangue, in Sin City, che scorre a fiumi come conseguenza di un'azione umana o subumana, e che può essere rosso vivo oppure fangoso come pus), o alla caratterizzazione del personaggio (il giallo), oppure sfumarlo in un amalgama fangosa di fumo, oscurità, toni di grigio, colori smorti, senza una regola inderogabile, giocando piuttosto con le ombre e collegando così il colore/immagine ad una precisa risposta che lo spettatore è invitato ad estrarre in fase di visione e somministrazione del film. In quest'ottica la Cadillac rossa di Dwight ha un certo significato, così come il distintivo dorato di Jackie Boy, gli impermeabili feticcio di Marv, come l'eloquio dei tirapiedi di Junior o il superlativo gioco di esposizioni e contrasti del salvataggio di Dwight dalla pozza di catrame, perfezione artigianal/digitale, esemplare anello di congiunzione tra cinema e fumetto.
Insomma, sangue chiama sangue, per cui portate pure la virtù alla camera a gas. Sin City è un bestiario di abominio, perversione, un armamentario di exempla da manuale, catechismo del nuovo mondo ferino, o dei vecchi tempi che tornano, i tempi della violenza, come li chiama Marv. Imperfetto come può esserlo un fumetto d'autore e di culto, sanguinolento e grandguignolesco come un b-movie messicano (ma questa è una storia vecchia, un piatto riscaldato troppe volte), privo di pudore perché, parafrasando Marv e Hartigan, non c'era alcun motivo per fare questo film in silenzio.
"A Sin City le cose stanno così", dice Rodriguez, che, tra parentesi, è sempre più bravo.
SIN CITY
(USA, 2005)
Regia
Frank Miller, Robert Rodriguez
Sceneggiatura
Frank Miller, Robert Rodriguez
Montaggio
Robert Rodriguez
Fotografia
Robert Rodriguez
Musica
Robert Rodriguez, John Debney, Graeme Revell
Durata
126 min