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Toni spenti e irreali decolorano la fortezza Bastiano.
Campiture vive non possono darsi in un contesto che trova
nell'attesa il suo unico senso. Già solo la fotografia
di Luciano Tovoli potrebbe spiegare l'enorme successo
di critica, pur rigato da qualche prevedibile eccezione,
che è stato riservato a Il deserto dei Tartari
di Valerio Zurlini.
Opera ultima del regista bolognese, a distanza di trent'anni
riesce ancora a folgorare per la sua capacità di
toccare le corde più profonde dell'affezione umana.
Forse è lo sforzo di respingere la pura astrazione
concettuale, forse la suggestiva qualità pittorica
dell'immagine, forse la bontà della recitazione
- così scarna eppure così rovente - o forse
ancora quella strana alchimia di rispetto/superamento
che lega il film al capolavoro di Dino Buzzati. In definitiva,
però, è il discorso sullo sguardo, troppe
volte sottovalutato, a fare de Il deserto dei Tartari
uno dei film più apprezzabili del cinema italiano
degli anni Settanta. Se è vero, infatti, che il
complesso intrecciarsi di routines comportamentali,
solitudine interiore e tetra illusione costituiscono l'ordito
tematico principale dell'opera, non si può d'altronde
non sottolineare l'originalità con cui il tema
dell'attesa è stato sviluppato. Esso, di fatto,
non è declinato esclusivamente in termini esistenziali,
quanto piuttosto indagato da una prospettiva nuova, che
arriva a toccare versanti estetici e metadiscorsivi.
L'attesa è in Zurlini tensione dello sguardo, volontà
di comprendere, anelito all'azione. Durante tutto il film
i personaggi non fanno che guardare e guardarsi: avvistano
un cavallo, vedono delle luci, si servono di binocoli,
scorgono nemici che non ci sono, osservano un paesaggio
di cui non comprendono la forza. Guardare è ciò
che li tiene in vita, che li spinge a continuare la loro
recita traboccante di regole vuote e portatrici di morte.
Ma questo sguardo che dà loro vita è un
atto pulsionale, irriflesso, semplicemente strumentale.
L'attenzione è rivolta a fate morgane caricate
di un significato che in realtà non hanno. Il vero
sguardo, sembra dirci Zurlini, è quello che ci
avvicina a qualche verità, ancorché parziale,
non quello che accarezza illusioni e autogiustificazioni.
L'orizzonte verso il quale tendono Drogo, Hortiz, Mattis
e gli altri ufficiali dell'esercito imperiale non è
altro che un artefatto carico di abbagli che li distoglie
dal pensiero sul proprio immobilismo e sull'insensatezza
della loro vita. Lo sguardo del regista invece percorre
una strada diversa, solcata da chiaroscuri contrastati,
ma diretta verso la scoperta. Scoperta dell'assurdità
dei rituali, della distanza che separa gli uomini, della
solitudine interiore che accompagna la vita, della doppia
valenza di sottomissione/protezione, così tipica
dei rapporti gerarchici. E lo fa con uno stile duro ed
evocativo, fatto di attenzione maniacale alla costruzione
dell'inquadratura, montaggio orientato alla continuità,
prevalenza di campi lunghi e uso di quegli straordinari
primi piani che Gilles Deleuze avrebbe chiamato "riflessivi".
Ma l'elemento formale che ne Il deserto dei Tartari
trova una delle sue più geniali applicazioni è
il fuori campo. È come se una dimensione "altra",
inconoscibile, accompagnasse costantemente i personaggi
costringendo lo spettatore a prendere coscienza di uno
buco nero che attrae lo sguardo senza appagarlo mai fino
in fondo.
La ricerca dell'immagine approda così ad una dimensione metafisica, sospesa a metà strada tra crudo realismo e trascendenza: il mondo visto dal basso - da una m.d.p. più vicina al terreno - o visto da lontano - nel quadro zurliniano l'ambiente è sempre motore di senso - si popola di funerei feticci. E l'immagine non può che essere abitata dalla morte.
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