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					  Doppio sogno. Vale 
                        a dire sogno rivelatore di verità sotterranee e 
                        realtà attraversata, spiata come in sogno. Occhi 
                        chiusi, per accogliere il sogno. Occhi aperti, per in 
                        quel sogno perdersi, accecarsi. Spalancati dall'incredulità, 
                        ma altrettanto incapaci di "guardare". Sono 
                        quelli del dottor Fridolin, protagonista del romanzo di 
                        Arthur Schnitzler, come quelli del dottor William Harford, 
                        suo alter-ego cinematografico nel testamentario Eyes 
                        wide shut di Stanley Kubrick. Entrambi parimenti all'oscuro 
                        delle ambigue insenature celate nella quotidianità, 
                        delle arcaiche spelonche in cui si smarrisce l'animo umano, 
                        della straordinaria facilità e frequenza con cui 
                        questo capita, di quelle dinamiche credute fino ad un 
                        attimo prima così familiari. Entrambi ostinatamente, 
                        per tutta la durata della loro esistenza sotto il nostro 
                        sguardo, con gli occhi inutilmente aperti, a segnalare 
                        uno stato perenne (e quindi già di per sé 
                        innaturale) di veglia.  
                      A controbilanciare tale condizione, 
                        che connota di per sé i protagonisti maschili, 
                        ponendoli junghianamente dalla parte di uno sguardo raziocinante 
                        e ordinatore di una realtà che va annebbiandosi, 
                        salta subito agli occhi la diversità delle loro 
                        partner: quanto i mariti si dimostrano iperattivi e immuni 
                        al sonno, tanto le mogli se ne stanno inoperose e per 
                        lo più dormienti; quanto i primi si aggrappano 
                        al vano raziocinio tanto loro sognano, lasciando campo 
                        libero all'espressione potente e devastante dell'inconscio, 
                        e trovano una connotazione più che altro fisica, 
                        sensuale (basti pensare all'esposizione del corpo della 
                        Kidman); quanto gli uomini passano la maggior parte del 
                        tempo fuori di casa (per lavoro, per ansia omerica di 
                        fuga, conoscenza, avventura, imprevisto) e si trovano 
                        ad affrontare situazioni che deragliano dai binari della 
                        routine, tanto le rispettive compagne vivono una dimensione 
                        prettamente domestica e quotidiana, ordinaria. Occhi chiusi 
                        i loro. Ma muniti di una possibilità di visione 
                        (anche della realtà che a loro sarebbe negata in 
                        quanto assenti) e di una capacità di pre-visione. 
                        Addirittura chiaroveggenti. Non a caso sono loro ad "aprire" 
                        quelli dei mariti, al termine di una discussione cominciata 
                        quasi per gioco che è un lento sprofondare nel 
                        dubbio, nella vergogna di un'inattesa nudità di 
                        fronte al sospetto, ad una sconosciuta sensazione di estraneità. 
                        "Ah, se sapeste!" sibila Albertine, ed è 
                        uno squarcio, uno strappo difficilmente ricucibile. Perché 
                        se una creazione inconscia introduce il timore dell'incertezza 
                        (dato che "nessun sogno è interamente sogno"), 
                        il ricordo (e il vago rimpianto, e la minaccia) di un 
                        desiderio anche solo accennato scatena il terrore dell'evidenza, 
                        il collasso dei pianeti. E, finalmente, anche per gli 
                        ottusi Fridolin e Harford, un processo di autocoscienza. 
                      Detto ciò, risulta quindi 
                        chiaro come Eyes wide shut non avrebbe potuto essere 
                        trasposizione più fedele del romanzo psicanalitico 
                        di Schnitzler, almeno nel suo senso più profondo. 
                        Senza contare che la vicenda del dottor Fridolin è 
                        principalmente la storia di una progressiva perdita d'identità, 
                        e in ciò perfettamente collimante con l'universo 
                        narrativo di Kubrick (basti citare Il dottor Stranamore, 
                        2001: Odissea nello spazio, Arancia meccanica, 
                        Shining, Full Metal Jacket), costantemente 
                        concentrato sugli smarrimenti, le moltiplicazioni, i transiti 
                        e le ri-costruzioni identitarie. E in quest'ottica appare 
                        decisiva la quantità di volte in cui Harford fa 
                        appello alla propria dimensione professionale (esibendo 
                        ossessivamente il tesserino di medico) e di conseguenza 
                        a quella sociale ed economica (sborsando continuamente 
                        ingenti somme di denaro) per rintracciarvi le certezze 
                        dimenticate e ricavarvi la sicurezza necessaria per relazionarsi 
                        agli altri. Oppure osservare la sua reazione, al vedere 
                        la maschera che Alice ha trovato e (subdolamente forse, 
                        più probabilmente in modo inconscio) ha adagiato 
                        accanto a sé, sul cuscino del marito: ormai egli 
                        è nient'altro che una maschera svuotata, senza 
                        la possibilità di riconoscersi, né di essere 
                        riconosciuto dalla moglie.  
                      Ma se da un regista del calibro di 
                        Kubrick è lecito attendersi naturalmente un apporto 
                        personale, una rielaborazione geniale, ecco che a intervenire 
                        è proprio ciò che distingue l'"autore" 
                        dal semplice "esecutore": il possesso di un 
                        preciso, riconoscibile "stile". Che, in questo 
                        caso, si rivela esattamente come richiesto dallo specifico 
                        cinematografico: visivamente e auditivamente. Se l'utilizzo 
                        in colonna sonora delle misteriose sonorità di 
                        Ligeti rimanda alla tradizione kubrickiana e crea cortocircuiti 
                        di senso con spazi e tempi lontanissimi dalla lussuosa 
                        villa newyorkese (l'orgia come trasposizione rituale moderna 
                        del girotondo ancestrale degli scimmioni intorno al monolite?), 
                        il valzer di Sostakovic, tanto sinuoso quanto "insinuante", 
                        è talmente funzionale alla mobilità della 
                        messa in scena da risultare ormai inutilizzabile per qualunque 
                        altro cimento cinematografico (quello che è successo 
                        un po' per tutte le scelte musicali di Kubrick, assolute 
                        e definitive).  
                      Ma a giocare un ruolo fortemente 
                        concettuale nel film è una fotografia che punta 
                        tutto sulla contaminazione simbolica dei colori - con 
                        il viola ad esempio, tinta funebre per eccellenza, ad 
                        ammantare le lenzuola della coppia e a macchiare tutte 
                        le donne incontrate da Harford nella notte le quali, in 
                        un modo o nell'altro, hanno sistematicamente a che fare 
                        con la morte: Marianne ha appena perso il padre, Domino 
                        si scopre sieropositiva, Amanda paga con la vita - e sulla 
                        contrapposizione violenta di tonalità calde e fredde, 
                        capace da sola di supportare visivamente tutta la serie 
                        di coppie antitetiche di cui si costruisce il romanzo 
                        (nonché il film): sogno/veglia, interno/esterno, 
                        certezza/dubbio, maschile/femminile, presente/passato, 
                        dovere/piacere, e così via. Ad esempio quando marito 
                        e moglie sono ancora ignari del tormentato percorso che 
                        li attende, entrambi si trovano in una camera da letto 
                        immersa in una rassicurante luce calda. Per spalancare 
                        la porta dell'abisso, richiamando una tentazione mai confessata, 
                        però, Alice va a sedersi a terra, proprio sotto 
                        una finestra da cui irrompe una raggelante, inquietante 
                        luce bluastra. Mano a mano che la situazione precipita 
                        anche la presenza di tale tonalità aumenta: ora 
                        interi ambienti della casa ne sono inondati. Quando Harford 
                        scoppia in lacrime davanti alla maschera, ormai marito 
                        e moglie hanno perduto il loro rapporto, la fiducia reciproca 
                        (segue la confessione delle avventure notturne del primo), 
                        annegati in un blu ormai ghiacciatosi, assoluto e spettrale. 
                        Nella sequenza immediatamente successiva li ritroviamo 
                        al centro commerciale, intenti a scegliere i regali natalizi 
                        per la loro bambina: la luce è calda, di nuovo 
                        confortevole sulla loro riconciliazione. Ma, a differenza 
                        dell'inizio, è una luce falsa, artificiale rispetto 
                        a quella di un interno domestico, a riflettere un riavvicinamento 
                        problematico, probabilmente impossibile, dettato più 
                        dai molteplici e ingombranti doveri comuni (la bambina 
                        per esempio) che da un reale sentimento.  
                      E se è vero che il film di 
                        Kubrick ripercorre ossequioso il senso del testo di Schnitzler, 
                        proprio sull'ultima nota, all'ultima riga, dentro l'ultimo 
                        fotogramma si sprigiona una lettura nuova, personale, 
                        la rielaborazione geniale. Se la coppia di Schnitzler, 
                        sfinita, ricordando un po' quella di Aurora di 
                        Murnau, si ritrovava ancora insieme ("sonnecchiando 
                        anche, l'una vicino all'altro, ma senza sognare") 
                        sul "vittorioso raggio di luce" che annuncia 
                        il nuovo giorno, William e Alice non sono in casa, in 
                        una camera tornata familiare, ma in un centro commerciale 
                        (nuova straniante dimensione "domestica"). Lui 
                        domanda qual è, secondo lei, la prima cosa da fare. 
                        Se la risposta è il celeberrimo "scopare" 
                        risulta chiaro il capovolgimento vertiginoso, proprio 
                        perché fuori tempo massimo, dell'ottica schnitzleriana. 
                        Quanto essa lasciava posto ad una, seppur tiepida e incerta, 
                        speranza di palingenesi del rapporto, tanto questa risposta, 
                        quest'unica parola, spazza ogni residua possibilità 
                        di un paziente lavoro di ricostruzione e recupero, e anche 
                        di un'eventuale finzione, atta a proiettare quanto meno 
                        il simulacro di quanto perduto. Se "scopare" 
                        è ciò che resta da fare, ciò non 
                        può essere tradotto come entusiastico sussulto 
                        di una passione dimenticata, come ritorno alle origini, 
                        bensì come la disperata consapevolezza che dal 
                        naufragio a salvarsi è stato un singolo elemento: 
                        l'attrazione fisica tra marito e moglie. Base invidiabile 
                        sulla quale costruire, ma, in totale mancanza di un'idea 
                        architettonica e di qualsivoglia materiale da costruzione, 
                        ben poco. Perché destinata, presto o tardi, ad 
                        estinguersi, oltre che ammissione incondizionata di sconfitta 
                        sul piano del logos e trasferimento su quello dell'eros, 
                        di cui Alice si fa portatrice sin dall'inizio. 
                      Se la famosa risposta conclusiva 
                        costituisce senza dubbio la differenza concettualmente 
                        più rilevante rispetto all'originale letterario, 
                        facendosi portavoce di tutta l'amarezza esistenziale dell'autore 
                        Kubrick, tuttavia sono riscontrabili una serie di altri 
                        elementi di disparità. Da quelli trascurabili in 
                        quanto attribuibili per lo più all'operazione di 
                        trasposizione (lo spostamento da Vienna a New York, l'ambientazione 
                        nel periodo di Natale invece che di Carnevale) a quelli 
                        più significativi: ad esempio l'introduzione del 
                        personaggio di Victor (impersonato dal regista Sydney 
                        Pollack), assente nell'originale, o l'omissione del racconto 
                        della propria avventura estiva a cui Fridolin, nel romanzo, 
                        procede dopo aver appreso la tentazione di Albertine durante 
                        quella stessa vacanza. Dal punto di vista della "visualizzazione" 
                        una differenza rimarchevole è rappresentata dallo 
                        spazio (addirittura i primi 25 minuti) riservato dal film 
                        alla narrazione in sequenza della festa alla quale hanno 
                        partecipato i due protagonisti, i cui accadimenti principali 
                        nel romanzo sono semplicemente richiamati dal narratore 
                        extradiegetico quando già la coppia è rientrata 
                        in casa. Un ulteriore elemento introdotto dal film è 
                        l'attenzione simbolica per i nomi: William (Bill) è 
                        nome particolarmente comune che ben si adatta all'odissea 
                        di un uomo ordinario, per interpretare il quale Tom Cruise 
                        correttamente fa ricorso ad un'ostentata fissità 
                        dell'espressione (che ricorda un po' quella di Ryan O'Neal 
                        per Barry Lyndon); il percorso di autocoscienza 
                        di Alice non può non far pensare al viaggio di 
                        Alice nel paese delle meraviglie, ed è singolare 
                        notare come anche tale percorso abbia inizio con l'assunzione 
                        di droghe (tenendo presente la lettura in chiave lisergica 
                        del romanzo di Lewis Carroll); Amanda è "colei 
                        da amare" ("donna-angelo" per Harford); 
                        Domino, il nome della prostituta con cui Harford medita 
                        di "vendicarsi" della moglie, rimanda al nome 
                        della maschera stessa indossata dall'uomo, la quale, per 
                        l'appunto, è associata all'idea di vendetta. Nel 
                        complesso, comunque, la connotazione simbolica sembra 
                        costituire una cifra caratteristica del film (col rischio 
                        persino di appesantirlo eccessivamente): basti pensare 
                        alla parola d'ordine per entrare nella villa, quel "Fidelio" 
                        che è anche titolo di un'opera sul tema della fedeltà 
                        coniugale. 
                      Davanti allo specchio nudo del loro 
                        riflesso due corpi si stringono, familiari, sconosciuti. 
                        Lui ha gli occhi chiusi. Lei (addirittura, fino a un attimo 
                        prima, munita di occhiali per vedere "meglio") 
                        li tiene aperti. E' l'unico momento in cui nel film succederà. 
                        Lo sguardo di lui progressivamente si schiuderà 
                        sulla propria rovina. Quello di lei sceglierà di 
                        occultarsi a lungo, in un sonno insistito, funebre quasi. 
                        Occhi comunque destinati a non incontrarsi, sebbene o 
                        poiché ormai ri-velati. 
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