| 
                      Dogville è 
                        un film insolito, che ostruisce il dilagare del naturale 
                        divismo della protagonista in uno spazio teatralizzato, 
                        reso artificiale e meccanico. Un'enorme sala-capannone 
                        che radicalizza, con i teloni che la racchiudono, l'opposizione 
                        tra il bianco e il nero, le tenebre e la luce, che scandiscono 
                        incalzanti la struttura narrativa. Nonostante la singolare 
                        durata - comunque limitata se si pensa ai 40 minuti tagliati 
                        nella versione italiana - la scansione in capitoli spezza 
                        la vaga aspettativa di "lentezza", recintando 
                        convulsamente la storia. Storia normale, quasi banale, 
                        di una sconosciuta che arriva in una cittadina in cui 
                        le pareti delle case camuffano - nella loro trasparenza 
                        illusoria - la solidità greve e infrangibile avvertita 
                        da chi vi abita, nonché le cose, gli animali e 
                        le persone additate e dipinte dalle indicazioni in stampatello 
                        bianco sul pavimento. 
                      Nettezza e crudezza nel delineare 
                        i tratti di gente ordinaria, senza rilievi o eccessi di 
                        colore nella voce e nei lineamenti, eppure sempre più 
                        strana e grottesca agli occhi sgranati di un ipotetico 
                        spettatore, veicolati dallo sguardo dell'eterea sconosciuta. 
                        L'accensione esasperata delle nuànces fredde 
                        della figura portano Grace prepotentemente al centro del 
                        pensiero, nonostante la narrazione - che presto scopriremo 
                        subdola e falsamente oggettiva - del co-protagonista Tom 
                        (Paul Bettany, l'allucinato amico immaginario di Nash 
                        in A Beautiful Mind), giovane scrittore di poche 
                        speranze che si avventa sulla donna con tutto il suo interesse 
                        descrittivo ed investigativo, restandone attratto per 
                        gran parte della storia e inventando con la sua frammentaria 
                        vitalità creativa l'amore per "la straniera" 
                        (il diverso), per poi finire a desiderare da lei nient'altro 
                        che "il racconto", l'unico della sua carriera. 
                        Grace è investita dal regista di una grazia generosa 
                        e tirannica insita nel suo stesso nome, nella volontà 
                        sconfinata di scoprire miniere d'umanità nella 
                        pochezza di un paesino perso nelle montagne rocciose. 
                        Quella stessa volontà che è alla base della 
                        sua iniziale intenzione di costruire la fiducia impossibile 
                        delle nuove persone che la circondano, di scavare nei 
                        loro volti di pietra e nell'elementare e assurda economia 
                        del posto, di rendere la sua integrazione materica, attraverso 
                        l'innamoramento per le statuine malamente pitturate dell'unico 
                        negozio locale. 
                      Grace è fuggita da qualcosa 
                        e qualcuno, dal potere raffinatosi nel tempo, letale e 
                        stretto attorno a lei come una morsa affettiva. Il regista 
                        ci pone di fronte alla sua creatura solo in parte umana, 
                        personificazione vivente di un'ingenuità sopravvissuta 
                        e scaturita dal male. È figlia di un boss, scopriremo 
                        alla fine, da cui due volte si nasconde scappando in una 
                        grotta che in realtà non esiste. È ricercata, 
                        ma non da un'autorità meccanica e generica, ma 
                        da quella del suo stesso padre. L'elemento di prigionia 
                        forzata, la fragilità apparente e l'illusione di 
                        invulnerabilità accrescono il piacere sadico degli 
                        abitanti di Dogville nei suoi confronti. È la sua 
                        bontà a vacillare, a farsi insinuante e difensiva, 
                        mentre cresce attorno a lei il pretesto generale di sfiducia, 
                        che inaugura il rito - collettivo ma non dichiarato tale 
                        - della violenza.  
                      Gli abitanti si riuniscono in una 
                        sorta di consiglio, una trafila di facce pietrose e squadrate. 
                        Tra i volti quello di Lauren Bacall, la proprietaria del 
                        negozio - più sospettosa fin dall'inizio - il vecchio 
                        cieco, l'aiutante del negozio, suo marito. È da 
                        quest'ultimo che si innesca il lungo processo di angoscia, 
                        di solidale stoltezza e fragile connivenza tra gli abitanti. 
                        Come per tutti gli altri, Grace fa "qualcosa per 
                        lui", qualcosa di cui l'uomo inizialmente non avrebbe 
                        avuto bisogno: un'"invenzione collaborativa" 
                        che finisce per essere necessaria al nuovo equilibrio 
                        di Dogville. Lo aiuta nella raccolta delle mele. Ma l'uomo 
                        si rivela ben presto una perfetta creatura del recinto 
                        umano: il più ostile a Grace fin dall'inizio, brama 
                        fortemente un contatto estremo con l'ospite, una congiunzione 
                        paritaria che poi diventa, improvvisamente, prevaricatoria. 
                        Al lieve rifiuto, scatta la trappola: il primo stupro, 
                        in un angolo tra la legna raccolta. Sarà il primo 
                        di una serie. La moglie crederà di proposito alla 
                        versione del coniuge. Il bambino più insidioso 
                        del posto, introiettatore dell'ottusità forzata 
                        e deformata della coppia, condurrà con Grace - 
                        diventata intanto la sua bambinaia - un singolare gioco: 
                        la provocherà ad inveire contro di lui, a uscire 
                        fuori di sé, a picchiarlo. Le mansioni al negozio 
                        diverranno sempre più assurde e surreali. Le statuine 
                        cadranno. Il vecchio uomo cieco non vorrà più 
                        solo la voce di Grace, ma infastidito dai suoi racconti 
                        e disperato per non possedere la luce che essi evocano, 
                        vorrà anche lui un contatto con la donna.  
                      Seguiranno minacce, angherie sessuali 
                        e psicologiche, stupri, nei confronti dei quali le pareti 
                        immaginarie si apriranno in una sorta di comunione cieca 
                        e sorda. E seguirà una rivelazione: anche Tom, 
                        unico "amico" di Grace, ridotta ad una salma 
                        di sé stessa e legata ad una massiccia catena d'invenzione 
                        dell'amico di scarsa intelligenza, rivelerà, dopo 
                        una fuga fallita, la volontà di distaccarsi dalla 
                        donna. Non l'aveva mai realmente aiutata, e, pur essendo 
                        stato l'unico ad amarla di un amore idilliaco, non aveva 
                        saputo resistere al potenziale informativo e demoniaco 
                        del biglietto che due uomini eleganti in un auto nera 
                        gli avevano lasciato. Ma gli uomini che cercavano Grace 
                        non volevano ciò che i Dogvilliani si aspettavano. 
                        Illusi di farsi complici di una giustizia netta e fagocitante, 
                        i vari personaggi porgono Grace di fronte agli stranieri 
                        come fosse una preda braccata, un male svilito. Il padre 
                        della ragazza, ridotta a larvale proiezione della sua 
                        bontà, la mette di fronte ad una scelta: restare 
                        lì, fondendosi al nulla e aspettando una morte 
                        lenta e faticosa, o andare via con lui. Grace sceglie 
                        ciò che ogni spettatore si augurerebbe, senza poterlo 
                        ammettere. Di annientare la chiusura, la grettezza, la 
                        stupidità sbandierata dal giovane inventore, nel 
                        più plateale e assoluto dei modi. Si rende conto 
                        dalle parole del padre, portatore di una giustizia parziale, 
                        arbitraria e perciò devastante, che la sua "grazia" 
                        non era null'altro che una superba, suprema castrazione 
                        dell'altro: concedendo il perdono ai "cani" 
                        della cittadina aveva precluso loro ogni possibilità 
                        di scelta, impedendo uno svincolamento dall'insensatezza 
                        gratuita del loro desiderio di sopraffazione. Si era eletta 
                        a giudice universale, contrapponendo il suo muro rosato 
                        e iridato di santificatoria accettazione alle menti tarate 
                        e animali della "povera gente". 
                      La scena finale, in una splendente 
                        raffica di mitra contro il fondale rosso, risparmia solo 
                        l'essenza del luogo: un cane rabbioso, immobile osservatore 
                        delle insopportabili e minute torture accumulatesi in 
                        un crescendo d'odio. Un'esecuzione fredda, quasi dovuta, 
                        funzionale alla struttura senz'uscita della storia. Oppure 
                        un coinvolgente, adirato atto finale, che offre a ogni 
                        singolo spettatore la possibilità di liberarsi, 
                        come accade alla protagonista, di ogni ipocrisia liberale 
                        o falsamente conciliante. Uno sbocco per la violenza repressa, 
                        che redime chi guarda dalla squallida cattiveria, dal 
                        vuoto (apparentemente) ferino delle menti di un piccolo 
                        luogo che si fa simbolo dell'America, faro sulle origini 
                        del mondo occidentale. Ma che investe, invece, del potere 
                        più raffinato, quello di dare la morte. Uccidere 
                        la gente di Dogville non lascia indifferenti. Possiamo 
                        immaginarli come zombie, mostri generati da un 
                        suolo informe, ineducati, dalla volontà utilitaria 
                        e passionale di esistere, di deambulare affermando la 
                        propria natura di uomini "semplici". A Dogville 
                        non c'è spazio per il sapere autentico, per la 
                        conoscenza dell'altro, nonostante le dissertazioni del 
                        giovane scrittore codardo. L'apertura è uno spettro, 
                        una rinuncia, un timore di riflettersi per i "cittadini" 
                        nella propria inferiorità morale, intellettuale, 
                        storica. 
                      Il nome emblematico estrae dalla 
                        parola "cane" la sua radice più antica 
                        e impietosa. Cane come cinismo, assenza di cultura, natura 
                        allo stato brado, incapace di far proprie le "aggressioni" 
                        del progresso occidentale, ma pronta ad essere inglobata 
                        da ciò che di immutabile è racchiuso in 
                        queste aggressioni: il piacere fine a sé stesso, 
                        il nuovo piacere dato dai piccoli poteri, dalle piccole 
                        possessioni. Non c'è nulla di nobile nella semplicità 
                        cui la figlia del gangster anela: il semplice è 
                        "sempliciotto" e nell'ignoranza, voluta o non 
                        voluta, si celano raffinazioni inconsce, esplosioni di 
                        frustrazione e malvagità. L'esclusione dal mondo 
                        esterno, la relegazione del recinto disegnato della scena 
                        è avvertita dai personaggi. Di quest'emarginazione 
                        gli individui-cani fanno, senza saperlo fino in fondo, 
                        motivo di rivendicazione, e poi unico, fittizio amore. 
                        L'amore dell'essere esclusi. L'amore per l'unica perla 
                        di falsa saggezza che splende e ferisce attraverso i loro 
                        gesti, le loro parole, le loro sagome volutamente offuscate 
                        e scolorite da una regia impietosa.  
                      Ma l'animalizzazione non è 
                        una contaminazione per contatto diretto: è sorretta 
                        dalle grandi società che fingono di pensare in 
                        piccolo, di ritagliarsi sulle forme dell'individuo al 
                        quale soltanto apparentemente si asserviscono, schiacciandolo 
                        infine su di un fondale piatto e misero. Su tutto, le 
                        immagini di scarnificazione umana in bianco e nero del 
                        tema finale, cantato da David Bowie con scherno e potenza. 
                        |