Jean-Luc Godard
A Bout de Souffle: il cinema allo specchio
di Luigi Virgolin
"Non bisogna mai frenare. Come diceva il vecchio Bugatti,
le macchine sono fatte per correre, non per star ferme"
Nella realizzazione del suo primo lungometraggio Godard deve aver avuto ben presente alla mente quel aforisma abbagliante di Pessoa sulla natura della verità e dell'artificio: "Il poeta è un fingitore,/ Egli finge così completamente/ Che arriva a fingere che è dolore/ Il dolore che davvero sente". Le maschere di cui si fa schermo Michel Poiccard (Belmondo) nel corso della pellicola e che indossa con piglio disinvolto – maschere del corpo, esistenziali, di memoria cinematografica – non impediscono, a lui ma soprattutto allo spettatore, di avvertire la tragicità del dramma incombente, anzi ne accelerano la venuta e intensificano l'ineluttabilità.
Più persona teatrale che carattere a tutto tondo, più feticcio già al suo nascere che creatura ex novo, il protagonista trova nella caricatura di se stesso intessuta di gesti citazioni omaggi al cinema amato la sola maniera di essere autentico, e d'improvviso il cinema si svecchia (siamo nel 1959) nella nouvelle vague, abbandona gli stilemi classici re-inventandoli in un caleidoscopio di forme inedite, un orizzonte ricchissimo di idee, un'esplosione di prospettive e linguaggi ancor oggi intatti nella loro freschezza. Da questo momento in avanti la modernità sul grande schermo non potrà più fare a meno di mettere radicalmente in questione il proprio personale rapporto con la tradizione: la vita si consuma e si nutre di maschere (vere) affacciate sul passato.
Che cos'è in fin dei conti Fino all'ultimo respiro? Un noir, un manifesto di poetica, un esperimento d'avanguardia, un fumetto, un saggio sulla natura dell'uomo, un dramma in cui spesso si ride soddisfatti? Tutto ciò a un tempo, perché Godard pone al cuore della propria scrittura un principio di ecletticità generalizzata, come si evince dalle sue dichiarazioni: "qualsiasi cosa poteva essere integrata al film… facciamo vedere che tutto è permesso" (1). La commistione di generi si traduce in un flusso eterogeneo della materia nel quale confluiscono spontaneamente con grazia mozartiana – non a caso risuonano le note del Concerto per clarinetto e orchestra KV 622 – foto da rivista, titoli di romanzi, vecchie pellicole, giornali – Patricia (Jean Seberg) se ne va in giro sugli Champs Elysées a vendere il New York Herald Tribune – riproduzioni di quadri e cartelloni pubblicitari, tutti elementi trattati non come dettagli minori ma alla stregua di vettori altamente significanti, tanto che una locandina di strada (Vivre dangereusement jusqu'au bout!) dà il titolo al film.
In questo senso è un cinema che osa tutto e non esita a inglobare in sé la polimorfia della vita, ripudiando la viltà – tecnica ed estetica – come il peggiore dei difetti possibili in cui incappare. Il montaggio intenzionalmente ardito, frenetico, costruito su falsi raccordi traduce questa ricerca temporale che non può essere in alcun modo lineare, non nell'accezione tradizionale perlomeno, perché risponde alla logica della vita, del sentimento, dei cortocircuiti tra il cuore e la mente. Il battito sincopato, il beat esistenziale, sottolineato dal jazz controllato e sapiente di Martial Solal, è l'unità di misura di una scrittura filmica fatta di velocità, cosicché le parole di Michel sulle "macchine fatte per correre" poste in esergo suonano come una dichiarazione di poetica tout court.
La riflessione-ossessione sulla quale Godard ritorna con più insistenza e col maggior numero di varianti è il paradosso tra la fisicità dell'amore e l'opacità del sentimento. Mai come nel film in esame, e in pressoché tutta la novelle vague, il cinema è stato così vicino al corpo-oggetto, ha assunto la carne a suo campo d'indagine per eccellenza attraverso primissimi piani, e la macchina da presa si è fatta essa stessa corpo tra corpi, intima, sensuale, umana. Si pensi al miracolo di equilibrio stilistico, espressività attoriale e profondità di contenuti che sono quella ventina di minuti in cui Michel e Patricia si amano, ma varrebbe meglio dire esistono, nella stanza d'albergo di lei. L'equazione è esplicita: amore significa corpo, e il corpo è verità. Universale. "Perché sei venuto qui, Michel?... Io? Perché ho voglia di fare di nuovo l'amore con te… Non è un buon motivo direi…Invece sì, vuol dire che ti amo".
Oppure ancora in Bande à part (1964), sempre di Godard, quando Odile (Anna Karina) fonde la natura del pensiero con la concretezza del reale e del fenomenico "Quando i ragazzi pensano alle ragazze, pensano ai loro occhi, alle loro gambe e al loro seno. Le ragazze pensano ai ragazzi esattamente allo stesso modo". L'esterno è interno, e viceversa: in mezzo sta la terra del desiderio, un diaframma in perpetuo movimento.
Secondo la visione del cineasta tuttavia, assieme alla presenza tangibile e sensibile del corpo si dà pure, inscindibile, una sorta di assenza del sentimento, o meglio una sua opacità, quasi che una malformazione congenita dell'anima impedisca alle passioni di vivificare completamente il terreno dell'esistente. Di nuovo in Bande à part, Franz (Sami Frey) si ritrova a constatare amaramente al termine del colpo fallito: "Ha mai pensato che fosse strano che le persone non formassero un tutto? Che non si amalgamassero, che restassero separate…se ne vanno ognuna per conto proprio, diffidenti e tragiche".
Gli individui si comportano alla maniera di atomi isolati, cellule senza vere finestre sul mondo, illusi da un sogno di pienezza ma nella realtà incapaci di valicare quel passo invisibile verso il tutto tanto agognato. "Ci guardiamo fissi negli occhi, e non serve a niente" commenta sconsolata Patricia, avvertendo il vuoto pneumatico insito al fondo di ogni relazione umana. Forse che la natura dell'uomo è compromessa anche in un atto semplice e naturale quale il sonno? Così constata la donna, ed è un'altra resa incondizionata, confessata a mezza bocca: "è triste il sonno, si è costretti a separarsi… si dice dormire insieme e non è vero". Con le parole della poetessa polacca Szymborska si potrebbe dire che Godard denuncia malinconicamente nell'essere umano la mancanza del "senso del partecipare" (2), l'inadeguatezza a sentire il respiro profondo delle cose (per via di una coscienza anestetizzata?) tanto più beffarda quanto più a portata di mano sembra il soffio salvifico.
A bout de souffle infine è una appassionata riflessione sul cinema, un omaggio alla tradizione in particolar modo americana – su tutti, l'irresistibile strizzata d'occhio a Humphrey Bogart – al di fuori del quale non si coglierebbe il senso ultimo degli sguardi in macchina, dei tanti specchi disseminati qua e là come indizi. Semplicemente una simbiosi – un momento di grazia – tra lo spettatore, gli attori e l'idea di cinema che essi incarnano.
In fondo, consegnandosi gloriosamente alla storia del cinematografo come capolavoro assoluto e facendo morire il suo corpo-attore, il film non fa che riuscire nel proposito ventilato da Parvulesco, il celebre scrittore della pellicola che interrogato su quale sia la più grande ambizione della sua vita risponde sornione: "divenire immortale e poi… morire".
(1) Entretien avec Jean-Luc Godard, in Cahiers du Cinéma, n. 138 (dicembre 1962) [in Il cinema è il cinema, Garzanti, Milano, 1971, p. 167].
(2) Wislawa Szymborska, Vista con granello di sabbia, Adelphi, Milano, 2002, p. 50.
FINO ALL'ULTIMO RESPIRO
(Francia, 1960)
Regia
Jean-Luc Godard
Sceneggiatura
Jean-Luc Godard, François Truffaut
Montaggio
Cécile Decugis
Fotografia
Raoul Coutard
Musica
Martial Solal
Durata
90 min