Abel Ferrara
The Addiction: la tragedia assoluta
di Alessio Gradogna
The Addiction (di Abel Ferrara, 1995), è l'opera più dissacrante e mistificatoria di un regista abituato a confrontarsi con un cinema di rivolta e di squallori metropolitani spinti oltre il limite della decenza, un cinema sgraziato, sgradevole e radicale, un cinema di nefandezze e di assoluta maestria narrativa, coraggioso come raramente ormai si vede sul grande schermo (The Bad Lieutenant, Il cattivo tenente, del 1992, o The Funeral, Fratelli, del 1996, tra le sue opere più radicali e significative).
The Addiction è l'assoluta codificazione dell'orrore come parte di una civiltà urbana proletaria e ghettizzata, ingenua e insostenibile, marcia nel suo interno e corrotta nelle sua manifestazioni esteriori. Un film di rara bellezza ideologica e di rara complessità analitica, ben riassunta da Paolo Mereghetti: " nella visione di Ferrara e del suo sceneggiatore Nicholas St. John, l'uomo è per sua natura malvagio, ed estraneo ad un determinismo divino che non si sa se voglia redimerlo o precipitarlo definitivamente. Se struttura e iconografia sono (malgrado ellissi e salti vertiginosi) quelle di un horror metropolitano, i temi hanno risonanze metafisiche. Ma mescolando gli orrori veri (le immagini dei lager e di My Lai) a quelli della tradizione cinematografica, Ferrara cerca di condividere la consapevolezza dell'orrore della sua eroina, nella speranza di raggiungere alla fine una possibile catarsi" (1).
Un'esperienza che vive attraverso gli occhi ed il corpo devastato della bravissima Lili Taylor, morsa da una non morta in un buio angolo della metropoli notturna e costretta a subire una mutazione lenta e terribile, coniata dal dolore fisico mostrato e urlato al punto di trasferire la sofferenza al corpo dello stesso spettatore.
Una mutazione che investe ogni cellula corporea e che invade un poco alla volta la mente di una studentessa di filosofia che inizia ad accettare la propria condizione in quanto portatrice di una nuova e limpida vista che le permette di accorgersi finalmente della mediocrità di chi la circonda, e che contemporaneamente le permette di interrogarsi sulle verità ultime della razza umana e di un destino per lei irrimediabilmente segnato.
Ad inizio film vediamo la Taylor camminare per le strade confuse di New York, e seguiamo in soggettiva e con un taglio di ripresa semi-documentaristico il degrado che ne pervade ogni angolo e ogni marciapiede, tra rappers, falsi predicatori e automi che come soldati in miniatura corrono nella loro frenetica vita senza nemmeno accorgersi delle atrocità che accadono attorno a loro. La donna vampira che morde la Taylor perpetra con intento puramente egoistico il suo Male, unge la preda della propria peste con mal celata soddisfazione, e lascia alla vittima una possibilità di scelta soltanto teorica ma in realtà impraticabile (ella può essere scacciata soltanto se glielo si ordina con fermezza, concetto vago e indicibile per la mente terrorizzata dell'animale braccato).
La trasformazione è come detto lenta, lentissima, e Ferrara non desiste di fronte al desiderio forse autocompiaciuto ma di certo efficace dal punto di vista fàtico e simbolico di mostrarcela con lunghe e insostenibili scene in cui la Taylor si contorce su se stessa attanagliata da crampi e spasmi violenti e crudeli. La sofferenza atroce porta con sé effetti allucinogeni propri della tossicodipendenza, ad instaurare un apparentemente logico connubio vampirismo-droga che governerà tutta la messinscena, offrendo una nuova ed acuta significazione filmica al fenomeno del dono eterno e dei suoi effetti.
"La sofferenza per cercare il perdono e la libertà" sconvolge la consueta vita universitaria, instaura la paura di aver contratto l'Aids (ovvero il più forte e radicato significato contemporaneo dei concetti malattia-contagio), trascina al disgusto per il cibo e per le futili occupazioni di studio destinati ad una razza umana rimasta ad un grado inferiore di conoscenza e di consapevolezza di sé. L'umanità diviene per sinonimica analogia materialità, banalità, e lo sviluppo tecnologico della medicina affonda ironicamente nell'inutilità in quanto "la medicina non è che la metafora dell'onnipotenza".
Nel frattempo lo schermo si riempie delle immagini e degli orrori di guerre che hanno devastato il genere umano (il servizio televisivo sulla strage compiuta dagli americani nel villaggio vietnamita di My Lai, la mostra sugli efferati omicidi compiuti dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, i cumuli di cadaveri risultato della guerra fratricida in Bosnia), offrendo legami meta-cinematografici atti a mettere in risalto la disperazione di un'umanità volta a ricercare una verità inconoscibile e soprattutto una tardiva e ormai impossibile salvezza dal Male, inteso nel senso supremo di dannazione e condanna.
La vita continua, la preparazione per la tesi di laurea diviene un peso privo di interesse, le teorie di Sartre, Heidegger e Husserl si mutano in concetti vuoti se considerati dall'alto della nuova vista vampirica, che permette di trascendere la realtà terrena per volgere i propri interessi verso una metafisica spiritualità d'ispirazione quasi divina, l'egotismo è condannato, i libri sono "viscidi offensivi epitaffi" su cui si posano le "mosche" umane alla ricerca di uno spiraglio per giungere alla propria salvazione, e la condizione di vampiro inizia ad essere apprezzata proprio in quanto dono che permette l'apertura di insperati orizzonti mentali e tendenzialmente onniscenti.
Non è più necessario vagare per le strade alla ricerca di sangue fresco, esso può essere assunto anche tramite una siringa in una vena (come già Nadja di Michael Almereyda ci aveva mostrato), la droga come sublimazione del vampirismo diviene pura normalità, così come i saltuari omicidi compiuti a tempo di rap, e Ferrara, che ha messo molto di autobiografico in questo film, non ha timore nel far dire a Kathleen-Lily "la dipendenza è una cosa meravigliosa", sia nel senso primario dell'assunzione della droga che in quello strettamente collegato della crescita mentale e della fame di sapere che non conosce soste e limiti.
L'animale vampiro si muove ora con assoluta disinvoltura tra le violenze ripetute delle strade di New York, padrone ormai a proprio agio in una realtà metropolitana devastata e destinata all'autodistruzione, e ogni concetto di pudore e legge sociale viene infranto in nome di una libertà spirituale che permette di vivere la propria vita senza preoccuparsi dell'opinione della gente e delle loro prevedibili e vuote reazioni dettate non dall'istinto ma da un mutevole e debole senso di sopravvivenza. Camminare per le strade significa per macabra analogia danzare sul ciglio di un Inferno in cui si può precipitare da un momento all'altro, e guardarsi in giro significa ritrovarsi attorniati da un nugolo di persone-automi, ognuna delle quali è possibile portatrice di morte e dannazione.
Intanto la mutazione e la rinascita continuano, "la malattia del vampirismo non è peggiore di quella che si aveva prima", l'omicidio è compiuto con l'indifferenza di chi è consapevole di essersi elevato ad un livello di evoluzione naturale superiore, mentre ciò che ancora può interessare il vampiro stanco da secoli di nutrimenti (e da decenni di fantasiose trasposizioni cinematografiche) è lo stupore che si legge dagli occhi della vittima prossima alla propria fine. Ogni vampiro potrebbe essere scacciato prima del morso, c'è sempre la possibilità della scelta, ma, come Kathleen non è stata in grado di allontanare la sua aguzzina, allo stesso modo nessuno ha la forza di allontanare lei, perché l'uomo è troppo debole e troppo facilmente incline al terrore e alla perdita di ogni dignità e razionalità.
Elementi nuovi, tasselli mancanti che Ferrara ha saputo scovare nella propria mente per teorizzare un vampiro mai così disperato ed allo stesso tempo mai così fiero della propria essenza e di una forza, soprattutto intellettiva, che pare inarrestabile.
Un vampiro che porta dentro di sé un cancro, terribile e spietato, che fa marcire i tessuti e le cellule celebrali, che provoca un'implosione esiziale e definitiva, ma è un cancro non dissimile da quello che gli uomini portano dentro a causa delle colpe insite nelle loro anime. "La colpa non si lava col tempo, è eterna", e per quanti disperati sforzi e infinite congetture si possano tentare "non si taglia dove il male ha origine".
L'origine primigenia che Ferrara ci mostra nei corpi ammassati, storpiati e carbonizzati di uomini uccisi sotto l'onda della guerra, nei lager mistificati come gabbie in cui persone ridotte ad un rango di infima bestialità hanno esalato la loro innocente dannazione, negli arti mancanti di chi ha letteralmente visto una parte (mentale e corporea allo stesso tempo) di se stesso dissolversi in frantumi per lo scoppio dell'ira e della sete di potere di chi si è arrogato il diritto di perpetrare la strage. Allo stesso modo in The Addiction il vampiro acquista autonomamente il diritto di espandere il contagio, di provocare la sofferenza e goderne, di studiare con assoluta leggerezza d'animo le reazioni di uomini-insetto incapaci di difendere se stessi oltre i confini della quotidiana realtà sociale.
Kathleen incontra poi Peina, anziano vampiro pronto ad aiutarla nella sua ancora non completata opera di iniziazione, ed il suo compito precipuo è, in linea con la tematica e con la simbiosi che permea l'intera narrazione, aiutare la novizia ad assumere la consapevolezza della propria essenza e una scaltrezza ancora a lei ignota (per essere un buon vampiro "bisogna sapersi mescolare"), e soprattutto trasportarla oltre i confini della sete di nutrimento, in modo da insegnarle l'astinenza, intesa sia come mancanza di sangue che (di stretta conseguenza) come privazione della droga, quotidiano approvigionamento del Male con cui inquinare il proprio marcescente corpo.
Ed è l'astinenza in sé a provocare altro dolore, altre privazioni, altra indicibile sofferenza fisica, tanto da costringere Kathleen alla fuga dalla prigione di Peina e allo svenimento per mancanza di forze in mezzo alla strada. Un passante cerca così di assisterla ed aiutarla, e viene immediatamente morso: nel mondo contemporaneo e nella realtà metropolitana infima e inclemente aiutare una donna sofferente significa contrarre il contagio, e mettere dunque a rischio la propria vita.
La calata nel vizio è così sempre più totale e radicale, diffondere il Male è l'unica ragione che possa arrecare anodino conforto, e, nella sempre più lucida riflessione di una mente ormai scevra di ogni razionalità terrena, "il vizio è l'unico sollievo all'esistenza che possiamo trovare".
Tutto il resto viene di conseguenza: la strage finale compiuta in un'orgia di brutalità, la bestialità panica, l'assuefazione al sangue che porta all'overdose, la morte dell'uomo come scomparsa e dissoluzione di un intero mondo che non sa esplorare ciò che viene oltre alla facciata della società, il Blood Feast (1) che ricorda gli smembramenti aristocratici in cui l'uomo sugge il proprio simile nell'ineguagliato Society di Brian Yuzna, e l'intossicazione che porta al ricovero in ospedale e al tentativo di suicidio grazie agli ormai insostenibili raggi di sole.
Un suicidio negato, una condizione da cui non è così facile trovare l'uscita, e, in un afflato religioso di speranza e redenzione, la confessione e il ritorno a Dio per assumere una volta per sempre l'accettazione della propria eterna condizione. Finale di speranza, finale di risposte forse trovate o forse almeno accennate, finale di pentimento, finale proiettato inesorabilmente in un futuro di corruzione e di peccato. In fondo, come Kathleen candidamente ammette, dedito ergo sum, pecco e dunque esisto.
THE ADDICTION
(Usa, 1995)
Regia
Abel Ferrara
Sceneggiatura
Nicholas St. John
Montaggio
Mayin Lo
Fotografia
Ken Kelsch
Musica
Joe Delia
Durata
82 min