Riccardo Sai
Shatter
di Roberto Donati
La sinossi ufficiale di Shatter è questa: "Una donna ha deciso di lasciare il marito. Il momento della vita segnerà il disintegrarsi definitivo della loro relazione, con un'alternarsi di rabbia paura e violenza".
Come ammicca il sottotitolo italiano (Frammenti), Shatter esplora l'ultimo frammento della vita coniugale di una coppia di giovani borghesi inglesi: lei, la moglie, da tempo ha un altro e lui, il marito, fino a oggi non sapeva probabilmente niente. Ma nel cortometraggio di Riccardo Sai (anche produttore per la Bradipo Film) non conta il passato né il futuro, ha importanza soltanto il presente, l'hic et nunc più stringente ed essenziale, e anche quello più doloroso e violento.
Shatter mostra la fine concreta di una relazione un tempo sicuramente felice, non la messinscena teorica della stessa o la sua elaborazione intima e personale: per questo a emergere non sono tanto le elucubrazioni personali o le riflessioni sul senso di amare, ma piuttosto la violenza, la rabbia e il rancore represso che animano due persone passate, via via, dall'amore all'indifferenza all'odio.
Il marito che scopre di punto in bianco l'esistenza di un amante della moglie diventa un frammento di esistenza insicuro, vacillante e pericoloso: il suo alternare momenti di parossismo fisico ad attimi di smarrimento affettivo corrispondono, invece, a una sicurezza femminile, una padronanza vagamente materna dell'ambiente casalingo-domestico. È la donna ad aver fatto le scelte cruciali e, quasi in una sorta di pena del contrappasso (ma noi non sapremo mai cosa il marito le ha mai combinato nei frammenti di vita precedente), è lei a chiamare l'amante a casa, un tempo la loro alcova, per venire a prenderla e portarla via.
Colpisce, nella messinscena orchestrata da Sai, il lucido realismo contrapposto a una vicenda ambigua, ingiudicabile e ricca di sfumature e di scarti umorali: il bianco e nero estremamente rigoroso conferisce sicuramente un'atmosfera da tragedia d'autore, subito smentito però da una predilezione per le riprese girate a mano, che danno in effetti un senso di instabilità (il marito dirà alla donna, con un fare solenne a nascondere l'insicura banalità delle sue frasi: "I can change. People change") e di nevrosi latente molto efficace e coinvolgente.
Lo sguardo di Sai appare pessimista – la difficoltà di relazionarsi sembra il vero male di vivere dei nostri tempi, e fra uomo e donna sembra non potersi raggiungere mai quella comunione di affetti e quel legame soltanto sperati – ma la fotografia nitida, invece, gioca volentieri sulle tonalità del bianco e dello scintillio, quasi a sottolineare, con la sovraesposizione, una luce divino-caravaggesca che non riesce a illuminare i fantasmi amorosi della gelosia e del tradimento, incupiti peraltro dalla sconfitta della ragione nei confronti della cieca passione e del materiale senso del possesso (fisico e non).
Lo scontro fra uomo e donna non si può compiere sul piano fisico senza che vi sia, realisticamente, la sottomissione di uno dei due contendenti, e il marito sembra essere proprio il primo a riconoscerlo, tanto che cerca sempre il chiarimento verbale, lo scontro dialettico: la sublimazione del rapporto di potere – dietro al quale pare intravedere la violenza intrusiva dell'atto sessuale – quindi si compie fra i due contendenti maschili nel giardinetto di fronte alla casa, in una sorta di lotta animalesca inscenata nel tentativo di non perdere il rispetto e il diritto al territorio conquistato (con tanto di annessi e connessi umani, come appunto la donna-moglie). Ma è una lotta impari e umanamente ridicola perché, ormai, è la donna ad aver scelto da che parte stare: logico, quindi, che il marito soccomba e che la donna sia libera di salire in auto e fuggire lontano da quella vita di prima, da quel puzzle esistenziale ormai definitivamente schiantato, in frantumi, del quale il marito che scompare alla vista è soltanto un misero, squallido e per questo anche malinconico frammento, d'ora in poi mancante.
L'immagine finale risolta con una carrellata indietro ha, infatti, il sapore di una soggettiva, ma potrebbe benissimo anche non esserlo: di certo, il regista non vuole spiegarcelo, così come saggiamente evita ogni schieramento di posizione e qualsiasi giudizio netto sulla vicenda. Anzi, riesce a penetrare in questi undici minuti di inferno familiare che ha creato mantenendosi da parte e lasciando parlare i suoi personaggi per quello che sono, non volendo appesantire l'opera con banali solennità o discorsi filosofici che sarebbero apparsi soltanto vacui e autoreferenziali: le sporadiche musiche e gli scarni dialoghi, magistralmente giostrati, favoriscono l'ingresso dello spettatore in questo mondo che appare tanto distante ma che potrebbe esistere proprio dietro l'angolo.
Il film, tratto da una sceneggiatura concisa ed essenziale di David Ward, è stato girato a Londra (in inglese non sottotitolato) con una troupe professionista, a partire dagli attori Catherine Fitzlanders, Bruno Loxton e Paul Conway per finire con lo stunt/fight coordinator Steve Emerson, già collaboratore di Kubrick.
E se sono stati fatti, stilisticamente o per altri ragioni, paragoni impegnativi (da Bergman a Schrader, da Ferrara a Cassavetes a von Trier), al sottoscritto pare che se proprio il film, autonomo maturo e originale già di suo, dovesse avere bisogno di un qualche riferimento cinematografico di turno, questa vada rintracciato nel mai sopravvalutato abbastanza Il disprezzo di Jean-Luc Godard (beninteso, in versione originale francese).

Per chi ne volesse sapere di più, su Riccardo Sai e sul suo film:
> http://www.shortvillage.com/archivi/corti/138_sai_r/int_sai_r.htm (ricca e interessante intervista al regista)
> http://www.viewreviews.com/shatter (informazioni necessarie per contattare l'autore e quelle relative al cortometraggio, dalle fotografie di scena a un campione di sceneggiatura)
SHATTER
(Gran Bretagna , 2002)
Regia
Riccardo Sai
Sceneggiatura
David Ward
Montaggio
Pablo Benedetti
Fotografia
Steve Priovolos
Musica
Peter Ludlam
Durata
10 min