E’ sempre un’autentica impresa criticare l’opera di un maestro. Le cose si complicano se nel film in questione, per quanto non ci sia piaciuto, si sono comunque potute riscontrare una sincera sensibilità artistica e onestà intellettuale. Sto parlando dell’ultimo film animato di Hayao Miyazaki, ovvero Ponyo sulla scogliera. Il film segna un ritorno alle origini da parte del grande regista e disegnatore: dal punto di vista formale, infatti, Miyazaki torna alla storica estetica del cartoon anni ’70 (vedi Lupin III e Conan, il ragazzo del futuro), prendendo le distanze dai barocchismi e dall’estetica della pienezza dei volumi dei suoi capolavori indiscussi (La città incantata e Il castello errante di Howl) dove non disdegnò l’ausilio di sofisticate tecniche di computer grafica.
Ora, in Ponyo a non essere convincente non è affatto questa scelta di stile, che d’altronde ha ricondotto la sua arte ad una pudica immediatezza e a una commovente autenticità; d’altronde, l’estetica vecchio stile di Miyazaki, fatta di linee e disegni volontariamente stilizzati, rispecchia maggiormente l’assunto minimalista ed essenzialista proprio della dottrina del Wabi, centrale nella cultura e nell’arte nipponiche, tanto nella pittura, quanto nell’arredamento e nell’architettura. Il concetto del Wabi non è pienamente traducibile nel linguaggio occidentale, ma potremmo comprenderlo come una sorta di “gusto” e spiritualità date dal “Vuoto”, lo spazio ripulito da orpelli superflui, che ci mette in diretto contatto con l’anima dei luoghi garantendo l’accesso a un’esperienza autentica del mondo.
Detto tutto questo, è però vero che i disegni del maestro giapponese peccano di essere eccessivamente approssimativi: mentre lo stesso stile era adeguato e magnificamente armonizzato con l’universo poetico di Heidi e Anna dai capelli rossi, in Ponyo il problema è che Miyazaki non ha totalmente rinunciato all’altra specifica modalità di rappresentazione tanto caratteristica in tutta l’anime giapponese, ovvero la dimensione dell’ “abbondanza”, legata all’estetica dell’ “inorganico”: forme che si gonfiano all’inverosimile, bolle di sostanza che si contorcono per poi spiccare il volo, figure che si trasformano, si con-fondono, in una delirante ricchezza di visioni e suggestioni. Questa era una delle peculiarità dei recenti capolavori, mentre era assolutamente assente nella sobrietà visiva delle opere degli anni ’70; ma per Ponyo Miyazaki ha tentato una sintesi delle due opposte sensibilità, all’interno di una storia che reclamava una maggiore confidenzialità. I limiti della sceneggiatura sono palesi: gli intrecci sono poco stimolanti e arguti, le vicende dei personaggi si risolvono in maniera pressappochista per non dire goffa; gli eventi si dipanano disordinatamente, e il messaggio veicolato è ovvio per non dire banale.
Questa storia potrebbe riscattarsi se attestassimo che il film è rivolto esclusivamente a un pubblico di bambini; ma allora l’arricchimento propulsivo di costruzioni immaginarie (la frenesia del mare, delle sue onde e dei suoi abitanti, spirali di luce e altri decorativismi…) resta fuori luogo e inefficace. Se si vuole raccontare una storia “magica”, con personaggi che trasformano le loro sembianze, con entità fantastiche che giocano con gli elementi, allora tanto vale “farlo bene”, adottando le contemporanee tecniche di realizzazione; oppure, altrettanto legittimo sarebbe stato tornare pienamente alla semplice ingenuità e al Wabi delle origini, che avrebbe trasmesso ai più piccoli un sacrosanto e quanto mai necessario messaggio di umiltà.
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