Lontano dal compiaciuto stile grottesco e giovanilistico del successo da storia del cinema Trainspotting, e forse anche meno mirato e furbo per la sua disarmante sincerità, The Millionaire è un vero inno alla vita e una storia di denuncia sociale ma, prima di tutto, una grandissima storia d’amore: tra due dei protagonisti, certo, ma anche tra il regista e il fascino sconfinato di quei luoghi, che traspare ad ogni fotogramma, secondo dopo secondo. Jamal è un ragazzo nato nelle baraccopoli di Bombay e cresciuto per strada , divenuto il leggendario “intoccabile” che ha partecipato al Milionario e a cui manca una sola risposta esatta per conquistare il premio più ambito. Ora però è sotto interrogatorio per rispondere ad un’altra domanda: come ha fatto un pezzente a riuscire dove notai e medici hanno miseramente fallito? E’ questo il punto di partenza di una serie di flashback, che ripercorrono le tappe principali di una straordinaria vita votata all’amore per la compagna di giochi Latika , trascorsa tra i labirinti di morte della baraccopoli e una nuova ma ancor più decadente Mumbay, al fianco del fratello Salim, malvivente dal cuore d’oro.
La perfezione di ogni sua componente fa di The Millionaire un capolavoro. A partire dall’estrema complessità della sceneggiatura di Simon Beaufoy, organizzata su tre distinti piani temporali, all’interno della quale è difficile persino distinguere la consueta struttura in tre atti; la soluzione vincente sta nel mandare avanti la trama per azioni: i personaggi si trasformano, i rapporti interpersonali si evolvono, nuovi conflitti si delineano all’orizzonte, ed è l’azione forte e decisa delle singole scansioni che, agendo su più livelli, porta avanti la trama in maniera dinamica, senza tuttavia rinunciare a rendere tridimensionali i protagonisti. Un’ottima sceneggiatura viene trasposta sul piano visivo da un in formissima Danny Boyle, che gioca sul concetto di dualità, più specificatamente su un equilibrio precario che viene puntualmente rotto e ricomposto. A questo allude l’asse delle inquadrature “fuori bolla”, che attraversa trasversalmente tutto il film elevandosi a cifra stilistica: l’immagine pende sempre dalla parte di chi ha il maggior peso drammatico nella scena (spesso chi esercita la violenza) creando straniamento, tensione, più spesso sottomissione. E la telecamera torna a livellarsi solo nelle riprese del milionario (ispirate a quelle del reale quiz televisivo), nelle situazioni di calma apparente e nell’ottimistico finale. Quell’evocativo concetto di ambivalenza ricorre anche nell’illuminazione; sempre in bilico tra un giallino esaltante la policromia vivace della cultura indiana pronto a degenerare in un malsano color mostarda, evocante la puzza di un malfamato sottoscala, e l’azzurrino asettico degli ambienti altolocati che si svela un blu notte che sa di morte.
Tra la più fetida latrina dell’India e lo sfarzo di un “albergo superlusso”, esiste il momento di un destino comune che abbatte compiaciuto ogni stupida barriera eretta dall’uomo. Il destino di Jamal è il destino di un popolo, di una città ferita nel suo gigantesco cuore. E la sua storia, è la storia di ogni oppresso che non ha mai perso la speranza, ed è capace di riunirsi davanti ad uno schermo per innalzare uno straordinario coro che inneggia alla vita. Come Jamal, ogni indiano correrà verso ciò che più desidera, proprio come in quel leit-motif di Latika alla stazione che ha la forza di racchiudere in quattro intensissimi secondi un’intera vita; passata tra la vanità di ogni cosa lasciata fuggire come quei treni in corsa e un amore che, nonostante tutto, è lì per restare.
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