Salvador PDF 
Viviana Eramo   

Salvador, uno dei primissimi film di denuncia di Oliver Stone, precede di pochi mesi il suo ben più noto e pluripremiato Platoon. Ma se il secondo – prodotto, come il primo, nel 1986 – getta uno sguardo indietro per dedicarsi alla guerra in Vietnam, Salvador sembra invece più votato all’immediata contemporaneità mettendo in scena i fatti della guerriglia salvadoregna del biennio 1980-81, nella lettura dei quali non possono non stagliarsi i fantasmi di una sporca guerra.

Stone, che scrive e dirige il film, sceglie di raccontare la  rivoluzione di questo paese del Centro America non dall’interno degli opposti schieramenti del governo e dei ribelli, bensì facendo assolvere il ruolo di protagonista al giornalista Rick Boyle (che esiste davvero e lo aiuta nella scrittura della sceneggiatura). Squattrinato, fallito nella vita privata e lavorativa, Boyle decide di lasciare la città di San Francisco alla volta del Salvador in cerca di materiale utile per un servizio che lo faccia tornare ai vecchi (presunti) successi. San Francisco è “piena di fighetti”, nel Salvador invece “si pensa solo a fottere”. Se Boyle (James  Woods) abbandona l’appartamento squallido che non riesce a pagare, un figlio piccolo e una moglie che non lo sopporta più, è allora anche in nome della ricerca di uno stato di natura in qualche modo "purificatore", rappresentato poi dall’incontro con una sua vecchia fiamma del posto con la quale ha gli unici momenti di sincero slancio affettivo, in contrasto invece con l’atteggiamento generale di irriducibile impunito che lo caratterizza. Ma il Salvador non è affatto il paradiso, devastato da una guerra civile che menoma bambini e non sotterra i suoi cadaveri. Facilissimo sbronzarsi con liquori il cui tasso alcolico è pari alle certezza di non riuscire a liberarsi dalla loro dipendenza, altrettanto facile essere ammazzati se non si vota per l’estrema destra dittatoriale filo-reaganiana dai modi a dir poco violenti e repressivi. Nel paese dalle mille contraddizioni i crocifissi non sono solo dietro le spalle dei vescovi che proclamano a piena voce l’abominio delle forze armate del totalitarismo contro il sano diritto di protestare dei campesinos, ma pure dietro chi, con la faccia pulita e il suo posto in alto nel governo del paese, proprio quel vescovo farà ammazzare dentro la sua chiesa affollata, dando la responsabilità ai guerriglieri ribelli.

Chi lucidamente sembra vederci chiaro, nonostante i fumi dell’alcol, è il nostro (anti)eroe, vero portavoce (dei proclama) di Oliver Stone. Richard Boyle passa e ci fa passare attraverso i vari fronti di questa guerra: così solidarizza coi campesinos e con le volontarie degli aiuti umanitari, presenzia mal voluto ai cocktail party, dialoga con l’ambasciatore americano, sfrutta le sue conoscenze con i generali americani. Ne esce un ritratto un po’ schizoide, nel tentativo di fornire un’immagine sfaccettata di una realtà molto meno semplicistica di come pretende di denunciarla il “fronte” americano, che, indolente, porta avanti una strumentalizzazione della lotta anticomunista per accaparrasi il diritto di presiedere della vita e della morte di un intero paese, dove la repressione è condotta da generali addestrati e armati dagli Stati Uniti, i quali poi rifiutano paradossalmente di essere chiamati “truppe combattenti”. Ma il film non lavora contro l’interventismo degli Stati Uniti, piuttosto contro le modalità con le quali, senza principi politici e si direbbe etici, non solo essi continuano a mentire all’opinione pubblica, ma pretendono di rispondere con la violenza alla violenza che si vorrebbe mettere a tacere.

Oliver Stone centra il bersaglio decidendo di affidare il proprio messaggio a un civile estraneo ai fronti contrapposti, per di più di dubbia onestà, dalla vita non certo riuscita, buttandosi così a capofitto nella fiction, ma conservando un’attenzione e un sentimento nei confronti di quella "verità" cara a Capa, alla fotografia da reportage, che invece manca completamente nella coscienza americana. Il racconto procede spedito, pur tra mille aspirazioni e concitazioni, e il rischio di cadere nell’ideologismo e sensazionalismo, a cui Stone ci ha abituato poi con certe sue produzioni successive, risulta se non totalmente eluso, in ogni caso non predominante. A questo proposito la scena tra Boyle e gli ufficiali americani è esemplare. Il giornalista fa la spia sugli “armamenti” dei campesinos, attraverso delle foto da lui stesso scattate, nella speranza di ricevere aiuti per la sua donna. Da qui un dialogo serrato che vede fronteggiarsi le due opposte visioni delle cose: Boyle accusa i militari di essere stati loro ad aver creato gli squadroni della morte e loro gli rispondono – mentre salutano i loro compagni di tennis – che almeno così hanno la possibilità di controllarle. Boyle è la voce che rivendica la verità contro le frottole che l’America continua a raccontare a se stessa e al mondo, operando grossi errori, come in Cile e Vietnam, così in Salvador. Qui davvero il gioco del botta e risposta funziona senza pari, riassumendo in poche battute tutta la complessità di un discorso che il film va portando avanti fin dal principio. Poi però il nostro Boyle si lascia andare ad affermazioni circa la “missione” dell’America, che ha dei doveri nei confronti di tutta la popolazione, e sulla necessità di pensare prima di tutto alla gente per costruire una “società giusta”. Eccole qui le due anime del film: una affilata, seppur irregolare, che mostra i lati oscuri di tutte le fazioni per poi perdersi però, dall’altro lato, quando il messaggio si fa troppo esplicito, quando il semplicistico prende il sopravvento. Ecco perché una sola scena basterebbe ad Oliver Stone per mostrare come anche i campesinos siano degli assassini. Seppur “equilibrato” è decisamente l’ultimo aggettivo che utilizzeremmo per Oliver Stone, qui queste due anime convivono senza troppo sgomitare.

Rivisto oggi il film guadagna in potere profetico, perché pur mettendo in scena il Salvador sembra stia parlando dell’Iraq. A conferma  che gli Stati Uniti, nonostante gli errori, non hanno mai modificato la loro politica dell’interventismo militare a tutti i costi.

TITOLO ORIGINALE: Salvador; REGIA: Oliver Stone; SCENEGGIATURA: Richard Boyle, Oliver Stone; FOTOGRAFIA: Robert Richardson; MONTAGGIO: Claire Simpson; MUSICA: Georges Delerue; PRODUZIONE: USA; ANNO: 1986; DURATA: 102 min.

 


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