TFF 26/Concorso Lungometraggi PDF 
Umberto Ledda   

Il Torino Film Festival sta benissimo. Il cinema anche. In due anni la dirigenza di Moretti ha trasformato una manifestazione elitaria e un po' “nerd” (gestita da critici ignari della parassitarietà del loro mestiere, convinti che la critica venga insieme coi film e non dopo), in un festival finalmente maturo, capace di indagare sul cinema come catalizzatore dello spirito del tempo e come motore di storie, crocevia nella rappresentazione di un immaginario collettivo. Il risultato è una drastica diminuzione di un cinema che riflette su se stesso, concentrato sulla realtà solo nella misura in cui la realtà può essere asservita all'obiettivo, e destinato ad un pubblico di addetti ai lavori. Più opere popolari invece, di quella popolarità che è indizio di forte presa su un substrato, quello delle ossessioni collettive contemporanee, che mancava ancora di essere adeguatamente percepito e mostrato. Molti bei film, di quelli che il critico non si vergogna a consigliare alle persone che di critica non se ne intendono. La notizia buona, quindi, è che al TFF si è visto molto cinema vero, di quello che si muove contemporaneamente nelle due direzioni che hanno sempre caratterizzato il cinema: arte, intesa come capacità di creare una simbologia coerente ed efficace per dare forma e voce alla contemporaneità (e che non sia presa in prestito dalle generazioni passate), e intrattenimento, inteso come raffinatezza stilistica e strutturale nello storytelling. La notizia pessima è che a vedere le opere in concorso emerge un disagio profondo, che parla di una società in pessima forma, morente, in piena crisi.

Moretti ed Emanuela Martini hanno fatto in modo di dare al loro festival una coerenza contenutistica molto forte. Delle quattro rassegne maggiori, escludendo il “Fuori concorso” con la sua natura tutta particolare di vetrina e anteprima, le altre tre (“Concorso”, “Lo stato delle cose”, “La zona”) vantano una estrema coerenza interna. Non una collezione di film di varia natura (la tecnica dell'un colpo al cerchio e uno alla botte), ma un vero e proprio percorso di analisi sulle linee di evoluzione e di tensione di un'epoca in gran parte incomprensibile e ancora priva di un immaginario. Un festival concentrato sul presente e sulle ipotesi plausibili di futuro: politica e disgregazione della politica, famiglia e disgregazione della famiglia, società e disgregazione della società. In particolare, i film in concorso disegnano tutti, in maniera sorprendente per coesione e capacità di inquietare, una panoramica sulla famiglia, quasi sempre intesa come microsocietà che ribadisce ed estremizza le dinamiche della società maggiore. Ecco: la famiglia disegnata dal Torino Film Festival sta malissimo. Sta morendo, è già morta, si cercano le forze e le strategie per costruirne un'altra, fermo restando che nessun modello conosciuto e proveniente dal passato può funzionare oggi.

In otto dei quindici film in concorso questa crisi epocale del modello famiglia è esplicita. Bitter & Twisted racconta le storie di una famiglia che ha perso, inaspettatamente, uno dei suoi punti di riferimento: un figlio-fratello morto che ha determinato uno stallo, uno spaesamento, una crisi in chi è rimasto, a distanza di anni, e ancora non riesce a far ripartire la propria vita. Il mancato superamento del lutto è uno dei temi ricorrenti in molti dei film in concorso. Discorso identico, infatti, per Non-Dit, opera non del tutto compiuta ma sorretta da una recitazione magistrale per quanto un po' scolastica: c'è un figlio scomparso, c'è il suo fantasma che non abbandona i genitori, che a distanza di quattro anni ancora ne sono ossessionati, c'è una famiglia che si dissolve nei silenzi e nelle frasi non dette. We've Never Been to Venice riprende la stessa tematica: c'è un figlio morto, c'è il dolore dei genitori. L'atmosfera è più astratta e sospesa rispetto al più realista Non-Dit, ma il concetto è lo stesso: è in corso una crisi, bisogna scegliere se affrontare il nuovo, orrendo scenario oppure lasciarsene sommergere. E così via: in Helen c'è una ragazza scomparsa, in Demain c'è un padre morente e una figlia che prova a riempire un vuoto sempre più pesante, in Quemar Las Naves c'è una madre morente. In The New Year Parade c'è un divorzio di quelli laceranti, irricomponibili, in Donne Moi La Main tutto gira intorno al funerale di una madre mai conosciuta, in Entre Os Dedos, decentrato rispetto alla tematica principale (si tratta comunque della storia dell'agonia di un nucleo familiare), c'è un figlio che muore. Famiglia presente anche nei film apparentemente meno riconducibili a questo panorama: Prince of Broadway, che è una delle poche opere relativamente allegre e ottimiste del concorso, racconta non della scomparsa di un figlio, ma della sua apparizione: un ragazzone ghanese, clandestino ma ben contento nel fashion district newyorchese, che si vede affidare un bimbo che non credeva di avere, e che gli manda all'aria la vita. E poi il nucleo familiare disperato e fittizio di Tony Manero, e la famiglia-rifugio di Momma's Man. In definitiva, un festival sulle famiglie, ma soprattutto sulla loro crisi, una crisi portata quasi sempre da un evento inafferrabile, molto spesso la morte o una scomparsa inaspettata: sono palpabili la disperazione, la paura e l'inadeguatezza di fronte a qualcosa per cui non abbiamo più una spiegazione, né una cura, né una via d'uscita. Roba nuova, attuale, e spaventosa.

C'è poi una seconda tematica dominante, un secondo filo rosso a dare maggiore organicità a una selezione già straordinariamente coesa. È un tema molto legato a quello familiare, in particolare a quello dell'elaborazione della crisi: è il passaggio all'età adulta, la presa di coscienza del mondo esterno in una società che ha smesso di offrire qualsiasi appiglio già da parecchio tempo. È anche un festival sull'adolescenza quindi, quell'adolescenza allargata che va dai quindici anni ai trenta e qualcosa: il periodo sempre più lungo e rischioso di conoscenza della propria identità individuale e del proprio ruolo sociale. Esemplare da questo punto di vista Momma's Man: trentenne californiano torna dai genitori per qualche giorno, poi non riesce più ad andarsene, inizia a inventare scuse sempre più assurde per giustificare la sua permanenza presso mamma e papà, e nel frattempo ripete ossessivamente la sua vita da adolescente sfaticato. La versione interiore e minimalista de L’angelo sterminatore di Buñuel, con i suoi bei borghesi incapaci di uscire dalla casa dove si sono riuniti: l'attrazione dei genitori, con conseguente eliminazione delle responsabilità della vita adulta, sembra un elemento quasi soprannaturale, inspiegabile, inevitabile: Momma's Man è un film malinconico e disperato sotto un'apparenza delicata.

Molte delle pellicole selezionate, in generale, raccontano storie di maturazione bislacche e sui limiti della patologia. Prince of Broadway (anche qui il protagonista della maturazione veleggia verso i trenta) racconta di un passaggio obbligato all'età adulta (sotto forma di infante caduto dal cielo in una vita spensierata e irresponsabile), risolto con molta ironia: vedere un omone di un metro e novanta che sull'orlo delle lacrime ordina al figlio di non toccare la sua scorta di marijuana è una scena in cui si può trovare molto della contemporaneità. Mein Freund Aus Faro e Donne Moi La Main sono invece storie di formazione almeno apparentemente più classiche: nel primo, il viaggio di due fratelli verso il funerale della madre assume i toni di un road movie costruito sul reciproco conoscersi, accettarsi e scontrarsi. Identità (sessuali, sociali, intime) in formazione anche nel secondo: con l'unica differenza, rispetto alla classicità, che la maturazione va in direzione di un'identità fluida e mobile e non più, come un tempo, verso la definizione statica di una personalità forte. I tempi cambiano e per sopravvivere in una società sempre più dominata da forze disgreganti occorre abdicare alla propria compattezza interiore. Più intellettualoide, ma non meno interessante, è l'approccio al tema di Helen: una ragazza, Joy, scomparsa nel nulla, un'altra, Helen, che viene scelta dalla polizia per interpretarla nella ricostruzione dei suoi ultimi movimenti. Joy aveva una famiglia, degli amici, un ragazzo. Helen è orfana, non sa chi siano stati i genitori, è disadattata e infelice. Lentamente, si immedesima nella persona che deve interpretare, si prende il suo uomo, i suoi vestiti, frequenta la casa dei suoi genitori. Sono due nuclei familiari che tentano di ricrearsi, anche fittiziamente, dopo essere stati smembrati. La formazione di Helen è una scoperta della vita sociale che non aveva mai avuto, ma è una scoperta luttuosa, inquietante: la maturazione non è un crescere, ma un tentativo di riemergere da un abisso. Infine, Quemar Las Naves, che fin dal titolo (bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle) si concentra sul momento cruciale di un'esistenza, quello dell'abbandono dei genitori, dell'entrata nella vita indipendente. Ci sono due fratelli uniti da un legame morboso in una ricca casa messicana allo sfascio, dove la madre sta agonizzando. C'è la ricerca di una propria identità, costellata di scontri a sangue, di errori, di disperate debolezze. C'è soprattutto un melodramma familiare fisico e caricato, pieno di passioni feroci e di altrettanto feroci conseguenze, messe in scena con forza e sincerità: un film in grado di colpire profondamente pur non proponendo nulla di nuovo. Emerge, film dopo film, una visione piuttosto cupa dei processi psicologici degli individui. Crescere è un processo sempre meno scontato, sempre più difficile da gestire senza rimanerne bruciati. Non ci sono più aiuti, tutti i livelli della società (da quello politico a quello familiare, a quello religioso, del tutto assente, già dato per morto) sono ridotti in macerie. La crescita è ormai una rischiosa questione personale, ce la si fa da soli oppure si crolla. E le opere migliori del concorso sono quelle che rappresentano questo crollo.

In un concorso dove le singole pellicole appaiono come parte di un tutto, tasselli di un panorama ancora più che opere in sé, ci sono due film che si sollevano dalla rappresentazione esplicita del tema principale, sollevandosi ad analizzarne le conseguenze più profonde e inquietanti: Tony Manero, sacrosanto vincitore, e Die Welle. Il concetto di fondo è lo stesso che fa da struttura agli altri film: la società è ormai così a pezzi che le singole esistenze, non più relazionate costruttivamente con l'esterno, sono sempre più vulnerabili ed esposte alla deviazione, alla distruzione, alla violenza. Tony Manero è un ritratto umano ripugnante e fascinoso, fastidioso e potente. Sullo sfondo del Cile di Pinochet, è la storia del cinquantaduenne Raul e della sua ossessione per La febbre del sabato sera, visto mille volte e maniacalmente ricreato. Raul balla con una piccola e squallida compagnia di periferia: la sua donna, la figlia di lei, il ragazzo della figlia. Una famiglia finta, stretta intorno ad una ossessione marcia, in una società dove ognuno agisce per se stesso, senza preoccuparsi della sofferenza e della morte altrui. Raul non esita ad uccidere, a tradire, ad abbandonare, per raggiungere il suo sogno americano: nelle immagini sgranate del 16 mm, nei suoi colori smorti e putrescenti, Tony Manero è un'opera rivoltante, aberrante e umana al contempo, perfetto cinema del disagio, specchio apocalittico di una civiltà in brandelli.  Die Welle è più pulito, meno disperato. Ancorato ad un impianto narrativo saldamente spettacolare è assimilabile con più facilità di Tony Manero. Lo spunto narrativo è un fatto reale, un esperimento condotto in California negli anni Sessanta: un gruppo di ragazzi, il loro insegnante, una simulazione di dittatura. I ragazzi che iniziano a crederci davvero, al punto da creare una vera e propria fazione aggressiva e violenta all'interno della scuola. Dennis Gansel sposta l'azione in Germania, guadagnando in risonanze inquietanti, e si concentra non tanto sui modi di diffusione di un modello totalitario quanto sulle cause che portano gli individui a sottomettercisi. I protagonisti, ancora più del professore che propone l'esperimento, sono confusi e indifesi adolescenti, che all'interno di questo piccolo movimento di stampo nazista sentono, per la prima volta, la presenza di una famiglia e di una società. Ragazzi normali, che all'interno di questo sistema di regole precise (regole, beninteso, che non si fondano su alcun presupposto ideologico: nella simulazione di dittatura si pensa al nome, al saluto, al logo e alle gerarchie ma nemmeno per un istante a un ideale), si trasformano in squadristi feroci senza nemmeno accorgersene. Per la prima volta, vengono accettati a far parte di qualcosa senza pregiudizi razziali religiosi e di classe: l'unico prezzo da pagare è l'adesione incondizionata al movimento, un prezzo pagabile con facilità da chi ha passato tutta la vita senza essere riuscito ad appartenere ad alcunché. Dietro all'aberrazione dei fascismi, dietro al male, non stanno uomini malvagi, ma personalità ferite e bisognose, pronte a tutto per ottenere la serenità, un ruolo, una qualsiasi forma di autorealizzazione. Il fascino di una dittatura sta nel fatto che è una vendetta e una carriera contemporaneamente: Die Welle comunica un'inquietudine reale, che né qualche sotterfugio spettacolare di troppo né il finale tragico ma normalizzante (ci sono i morti ma c'è anche la polizia) riescono a sedare. Cinema pulito e rifinito, quasi patinato, ma sempre, e ancora, cinema del disagio.

È un concorso lugubre e ossessivo, insomma, che non teme la ripetizione maniacale delle tematiche, perché consapevole della necessità di parlare proprio di questo, e non di altro. Si avverte fortissima la sensazione di un vicolo cieco epocale. Dal punto di vista cinematografico, la situazione non è male: si ricomincia a vedere pellicole che affondano nella carne del mondo attuale, e che comunicano con urgenza dolorosa e sincera. Da tutti gli altri punti di vista, questo cinema nuovo riferisce di una percezione collettiva di diffusa entropia sociale, di morte civile, con atmosfere di crollo di un'epoca. E allora non è una bella notizia: perché da queste pellicole emerge il fatto che la crisi di cui tutti parlano è già entrata nell'anima delle persone: sono pellicole sincere e convinte, estranee al manierismo, film di cui a pelle ci si fida, in definitiva. E dicono tutti la medesima cosa: non sono solo l'economia e la politica ad essere su un binario morto, ma gli stessi esseri umani.

 


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