Tra autorialità e box office: Luc Besson e la sincerità dell'irreale PDF 
Piervittorio Vitori   

Il 6 aprile 1983 esce in sette sale di Parigi Le dernier combat, debutto nel lungometraggio del 24enne regista (e sceneggiatore, e produttore) Luc Besson. Egli stesso parigino di nascita, Besson ha in realtà alle spalle un’infanzia e un’adolescenza nomadiche, contrassegnate dagli spostamenti tra le coste jugoslave e quelle greche al seguito dei genitori, entrambi istruttori subacquei nei Club Med, e dalla conseguente attrazione per il mare. Proprio questa sua “irregolarità” si trova riflessa anche nelle scelte che compie quando un incidente in immersione, occorsogli a 17 anni, lo allontana dal sogno di un futuro da biologo marino e dagli amati delfini. Anche in virtù della fascinazione che esercitano su di lui le scene che documentano una delle molte imprese del recordman di apnea Jacques Mayol, il giovane Luc comprende che proprio il mondo dell’immagine può rivelarsi la sua strada. Viene però scartato dalla Fémis, la scuola nazionale di cinema, sulla base dei suoi gusti cinematografici “non ortodossi” (Spielberg, Scorsese, Forman …). Nel 1978 si trasferisce perciò negli Usa, dove per un triennio ha modo di frequentare diversi set ed iniziare a comprendere i meccanismi dell’industria hollywoodiana. Un apprendistato che ha modo di mettere a frutto al ritorno in patria, ricoprendo vari ruoli in varie produzioni, fino a ritrovarsi assistente regista per Deux lions au soleil (1980) di Claude Faraldo e Court circuits (1981) di Patrick Grandperret.

Il 1981 segna un momento fondamentale anche per un altro fatto, che non riguarda personalmente Besson ma che si rivelerà decisivo per l’avvio della sua carriera: è l’anno in cui esce Diva di Jean-Jacques Beineix. La pellicola, stroncata dalla critica ma esaltata al box-office, è la prova definitiva che qualcosa sta mutando nel panorama cinematografico francese. È in atto una tensione che si sviluppa su due assi principali: “da un lato, le reti televisive (in buona salute grazie all’incremento della raccolta pubblicitaria) e il sistema di finanziamento pubblico del cinema (noto come avances sur recettes), dall’altro il rinnovarsi di uno scontro mai veramente sopito, quello tra l’Autore (con la A maiuscola) e il regista” (1). In più sta bussando alle porte una nuova generazione di cineasti, in sintonia con concetti quali modernità tecnologica e velocità, e con forme espressive quali il fumetto, lo spot, il videogame. Si affaccia dunque sulla scena transalpina una rinnovata concezione di cinema come territorio d’elezione e dominio dell’immagine, idea che trova riscontro sia nella citata “attitudine” di Besson che nell’esordio di Beineix. A questi due nomi va poi necessariamente aggiunto quello di Leos Carax, che da Boy meets girl (1984) a Gli amanti del Pont Neuf (1991), contribuirà nell’arco di un decennio a definire i caratteri di quella mini nouvelle vague che andrà sotto il nome di “cinéma du look”. Urge però a questo punto operare dei distinguo, per definire meglio la figura di Besson e, entro certi limiti, renderle giustizia. Se la critica riconosce a Carax un percorso più “autoriale” in senso canonico, scomodando addirittura paragoni con Godard, merita ritornare su Beineix e Diva, definito “il trionfo dello scenografico, dell’esotismo, del pittoresco, dell’insolito e del kitsch. In fin dei conti, dell’accessorio” (2). Ecco, nel Besson di Le dernier combat non si può certo parlare di accessorio; anzi, la categoria di riferimento è semmai quella opposta, l’essenziale. Siamo di fronte ad un bianco e nero in cinemascope (scelta niente affatto scontata per i tempi), in cui si narra, praticamente senza dialoghi, la vicenda di un’umanità post-atomica dove la vita è ridotta a lotta per la sopravvivenza. Il regista trae lo spunto da un suo precedente cortometraggio, L’avant dernier, undici minuti di mero scontro fisico tra gli stessi due personaggi del lungometraggio successivo (e in un contesto analogo). È un mondo in cui, insieme alla capacità di parola, anche ogni psicologismo è bandito, e l’interesse è dato dai corpi e dalla coreografia dei movimenti. Non a caso, in Le dernier combat l’assenza del parlato permette e giustifica la declinazione dell’assedio (portato dal personaggio di Jean Reno all’ospedale in cui si trovano il protagonista e il dottore) nei termini di una gag da film muto o da cartone animato: un registro che si alterna a quelli del fantasy e dell’action nel segno di un’ibridazione di generi che diverrà cifra ricorrente del Besson regista e, ancor più, del Besson sceneggiatore e produttore per conto terzi.

Analizzando un simile testo, può riuscire difficile credere al cineasta quando afferma che nella scelta dei soggetti da affrontare è sempre guidato dai personaggi (3). Eppure, già nella sua prima prova emergono proprio da questo punto di vista dei caratteri che ritorneranno in maniera ricorrente nella sua produzione successiva: i protagonisti come solitari e/o emarginati dal contesto sociale, il rapporto (viceversa) con l’ambiente fisico e la natura, la difficoltà (o impossibilità) di un amore compiuto. Tutti fattori presenti sia in Subway (1985) che in Le grand bleu (1988), le due pellicole che lo consacrano presso il pubblico di casa. I due film sono oltretutto apparentati anche dalla tensione verso il basso (entrambi ci portano “sotto”: sottoterra in un caso, sotto il mare nell’altro) e, più significativamente, da una connotazione onirica che aiuta a capire meglio la natura del cinema bessoniano. “In tutti i suoi film sappiamo che il regista francese non tiene molto in considerazione la verosimiglianza ma ci tiene molto ad essere credibile”, dice il già citato Martani. “Preferisce nettamente, ad una critica sociale del reale, più incursioni nei quartieri del sogno, così simile ad una divagazione infantile” (4). La cosa è particolarmente evidente in Subway, dove la rete del metrò diventa una sorta di corte dei miracoli illuminata da luci abbaglianti e popolata da personaggi improbabili. Tra questi spicca il protagonista Fred, ladro per amore, capelli bianchi, velleità musicali ed un difetto alle corde vocali che gli impedisce di realizzarle come cantante. Questa rinnovata enfasi (dopo Le dernier combat) su una vocalità incompleta fa il paio con dialoghi apparentemente incoerenti ed assurdi, ma in realtà assolutamente in linea con il clima da feuilleton/noir romantico che si respira nel film e che, complice anche il fascino di Lambert e Adjani, decreta il successo della pellicola soprattutto presso la platea giovane.

L’onirica inverosimiglianza delle opere di Besson è data anche dalla purezza dei suoi personaggi: Helène è affascinata da Fred perché questi incarna un’alterità pura, appunto, non corrotta (dai meccanismi borghesi ed ipocriti della società “di sopra”). Lo stesso accade tra Johanna e Jacques in Le grand bleu, titolo con cui il regista omaggia la sua prima passione, il mare. Se già nei due titoli precedenti era evidente il riflesso del protagonista nell’ambiente fisico, qui si giunge addirittura ad una fusione tra Uomo e Natura, strutturata peraltro come antitesi del potenziale rapporto d’amore tra i personaggi di Jean-Marc Barr e Rosanna Arquette. Distribuito in Italia con 14 anni di ritardo (per la causa intentata alla produzione da Enzo Majorca, riconosciutosi nella figura macchiettistica dell’amico-rivale del protagonista), Le grand bleu è invecchiato peggio degli altri film bessoniani dello stesso decennio: l’unione tra sfida subacquea e commedia sentimentale mostra più di qualche crepa, e la combinazione a volte fin troppo enfatica tra il montaggio e la musica (del fido Eric Serra) da ragione a chi storce il naso davanti all’idea di un regista che cerca di vendere una nuova “francesità” cinematografica troppo prona ai canoni hollywoodiani.

Il percorso di avvicinamento all’America e lo sbarco definitivo avvengono negli anni Novanta, e investono almeno due distinti aspetti della produzione di Besson: quello geografico (dalla Parigi di Nikita alla New York di Leon) e quello referenziale, con il regista che intesse scambi più espliciti con certo cinema statunitense (si pensi solo a Tarantino: Pulp Fiction, da un lato, “prende” il personaggio che fu il pulitore in Nikita e ne fa Mr. Wolf, dall’altro verrà citato musicalmente in Taxxi e in Arthur e il popolo dei Minimei, solo per citare due esempi). A metà strada tra i due piani si colloca la sci-fi come luogo hollywoodiano per eccellenza de Il quinto elemento. Tuttavia, Besson non deroga alla caratterizzazione dei suoi protagonisti, sempre outcast ed espressioni di una purezza: della violenza nel caso di Nikita e Leon, della Natura nel caso del Il quinto elemento (in quanto sintesi di aria, acqua, terra e fuoco ed emblema della vita che si autorigenera, Leeloo in un certo senso è la Natura). La differenza rispetto al passato è data dalla maggiore oscurità: i mondi proposti dal regista in questo trittico sono più dark e violenti dei precedenti, e l’amore rimane una chimera inafferrabile. Quanto a quest’ultimo dato, si potrebbe facilmente obiettare, Il quinto elemento fa eccezione: alla fine del film Korben e Leeloo effettivamente giacciono insieme, ma la loro unione non è certo quella tra uomo e donna; semmai, stante quanto sopra, quella tra Uomo e Natura. In più, quasi per una sorta di sberleffo, Leeloo rappresenta il paradosso di una Natura artificiale, simulacro di un qualcosa che naturalmente non è più dato. Un’immagine che si rivela dunque particolarmente sconfortante e che può rimandare a quella del protagonista di L’avant dernier e Le dernier combat, ridotto a fare l’amore con una bambola gonfiabile. Il decennio si chiude, per il Besson regista, con la personale rivisitazione della figura di Giovanna d’Arco, in cui si trovano sublimati caratteri già presenti nei tre film precedenti, riassunti nell’“icona bessoniana dell’automa guerriero e/o della ragazza selvaggia” (5). La pulzella d’Orleans è pura isteria ed estasi battagliera, un personaggio la cui estraneità al contesto è qui declinata in senso psichico, con una lettura che evita all’autore confronti scomodi – Dreyer e Bresson su tutti –, ma ne fa un film dalla dubbia riuscita, che sconta la difficoltà a fondere l’aspetto interpretativo (la doppia tensione di Giovanna verso la violenza e, di nuovo, verso la natura, come nelle sue visioni di morte) e quello formale, rispetto al quale Besson si mostra una volta di più ancorato, in special modo nelle scene di battaglia, ai modelli hollywoodiani imperanti.

La seconda metà degli anni Novanta porta dunque Besson a perdere buona parte di quel credito che la critica sembrava disposta a concedergli dopo Nikita e, soprattutto, Leon (forse il film migliore del regista, in termini di controllo formale, equilibrio tra originalità ed apporti, caratterizzazione dei personaggi). Ma se pure il cineasta se ne duole un po’, ha di che consolarsi, soprattutto sul versante produttivo. La sua Films du Loup è diventata Films du Dauphin e nel 2000, quando la Gaumont – fin lì tradizionale partner sul versante economico – si rifiuterà di sponsorizzare i titoli che non lo vedono anche direttamente impegnato dietro la macchina da presa, viene fondata l’Europa Corp. (seguita dalla Digital Factory, comparto tecnico). Fedele all’idea che non è peccato concepire il cinema come impresa economica prima che come fattore artistico, il Besson in versione “solo” sceneggiatore e produttore si è già tolto un paio di soddisfazioni tra anni Ottanta e Novanta con Kamikaze e soprattutto con Taxxi, fortunato (al botteghino) esempio di serialità cinematografica europea che coniuga azione e commedia. In questa sua più recente – e da lì in avanti preponderante – veste, Besson guarda non solo agli Stati Uniti ma anche all’Oriente, riciclando nella prima metà dei 2000 la lezione di Jackie Chan grazie a titoli come Kiss Of The Dragon, Wasabi e Danny The Dog. In queste pellicole, e in altre dello stesso decennio, sono in realtà assenti alcune delle implicazioni contenutistiche che hanno caratterizzato il percorso del Besson regista (il rapporto con contesto ed ambiente, quello con la Natura …); vi si afferma piuttosto l’idea di cinema come performance, si parli di guida (la serie di Transporter, quella di Taxxi, Adrenalina blu), di parkour (Banlieue 13), di combattimento (praticamente tutti i film citati). Una semplificazione all’insegna dello spettacolo evidentemente pensata per un pubblico giovane e cresciuto nutrendosi delle forme espressive citate all’inizio.

Una logica analoga sta alla base del ciclo “arthuriano”, fresca fatica registica del cineasta parigino. La serie animata adombra il tema dell’incontro tra un ragazzino e la natura, incarnata dalle figure dei minuscoli Minimei, ma il risvolto ecologista rimane per lo più, letteralmente, in superficie. Come la maggior parte dei personaggi bessoniani, Arthur è scarsamente dinamico: le sue peripezie sotterranee o comunque “a bassa quota” pertengono all’ambito della pura avventura e, come per il Fred di Subway (di cui riprende la capigliatura, mentre quella di Selenia ci ricorda la Leeloo de Il quinto elemento, aiutando l’identificazione della principessa minimea con il concetto di Natura), non presumono quasi alcuna forma di apprendimento diretto. Quello, semmai, ha luogo nella “cornice” del racconto, quando vediamo il ragazzino, nel mondo “di sopra” e ancora in carne ed ossa, affrontare l’iniziazione da parte dei bogo matassalai (Arthur e la vendetta di Maltazard). A riprova del fatto che, in quanto costruzioni dai caratteri onirici, i film di Besson sono luoghi sostanzialmente “amorali” (ma si noti come lo stesso si possa dire anche del mondo di Io vi troverò, forse il più adulto – almeno quanto a target di riferimento – tra i titoli del Besson non-regista).

Sorprende allora che Angel-A (2003), unico film (interamente) in live-action diretto dal regista in un decennio, si riveli quasi come una sconfessione di quanto fin qui detto. Per alcuni aspetti la storia del piccolo truffatore André e della sua splendida Angela custode pare quasi un ritorno di Besson all’esordio di Le dernier combat: bianco e nero, lavorazione rapida, budget (relativamente) ridotto … Eppure qui i personaggi straparlano, sono chiaramente dinamici, ed esiste tra loro un rapporto di scambio reciproco e di crescita come solo in Leon, prima. Addirittura, l’amore tra loro si realizza. L’autore la definì all’epoca la sua pellicola più personale; ma, sarà forse l’abitudine a farci credere ad un inverosimile schiettamente presentato come irreale, fatto sta che per un’alchimia difficile da decifrare ora viene difficile credere al verosimile/reale, e il film appare come un oggetto alieno nell’opus del regista.

Luc Besson rimane dunque un cineasta difficile, se non impossibile, da classificare. Presenta tratti autoriali ma è un maestro nell’ibridazione; vende irrealtà ma in fin dei conti lo fa con onestà; ha sfruttato le lezioni di altri ma poi altri ancora hanno rielaborato la sua (restando in Francia, chiedere a Jeunet e a Kassovitz); è sciovinista ma allo stesso tempo troppo filo-americano; è modaiolo e high-tech ma riesce a coniugarlo con i sentimenti; sbanca il botteghino con film usa-e-getta ma ce le avessimo noi in Italia l’Europa Corp e la Digital Factory … Per tracciare un bilancio complessivo della sua traiettoria i tempi non sono ancora maturi, è evidente. Quello che è già certo è che è una figura di cui un’analisi complessiva del cinema contemporaneo (non solo francese) non può né potra nel prossimo futuro non tenere conto.

Note:

(1) Massimo Giraldi, Luc Besson, Gremese editore, 2004, p. 8.
(2) Marco Martani, Nouvelle imageries, in “Cineforum” n. 368, p. 36 (da M. Martani, Luc Besson. L’iniziazione, i sentimenti e la forma, Stefano Sorbini editore, 1997).
(3) cfr. Richard Jobson, Luc Besson. The Guardian Interview, in “The Guardian”, 23/03/2000 (www.guardian.co.uk/film/2000/mar/23/guardianinterviewsatbfisouthbank1).
(4) Marco Martani, cit., pp. 37-38.
(5) Roberto Pisoni, Giovanna d’Arco, in “Cineforum” n. 392, p. 34.

 


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