Rosso sangue: cinema che esplode PDF 
Umberto Ledda   

Leos Carax è una strana eccezione nell’universo cinema. Regista randagio e avvolto da un alone di maledettismo (non è dato sapere quanto sincero e quanto ricercato a bella posta attraverso una efficace strategia di invisibilità mediatica, secondo i dettami del “Mi si nota di più se non vengo per niente”), i suoi film sfidano le basilari leggi fisiche della costruzione cinematografica, anche quelle già belle estreme del cinema d’arte. Film esagerati, debordanti, anarchici, sul limite del caos. Non sempre vincono la sfida, e il loro fascino, in effetti, sta proprio in questo: nel cercare di andare in posti dove non si può andare, nel raggiungere un’intensità (visiva, emotiva, di significati) che non si può raggiungere senza accartocciarsi nel ridicolo, nell’unire gli opposti del più estremo sperimentalismo tecnico e dell’emotività più violenta. I film di Carax sono film impossibili, e in quanto tali, ovviamente, destinati a esplodere, raccogliendo l’indifferenza del grande pubblico e il plauso incondizionato di chi ha tempo, e voglia, di mettersi lì a frugare fra i cocci e pescare brandelli di bellezza.

Rosso sangue, fra il pugno di film impossibili del regista francese, è forse il più impossibile, il più estremo: di sicuro il più sincero e personale. Quando un regista egocentrico e dalla personalità monumentale come Carax fa un film personale vuol dire che dentro ci finirà di tutto. E in Rosso sangue, a dispetto di un canovaccio narrativo esilissimo (gangster francesi indebitati chiamano un giovane e abile ladro, figlio del loro defunto socio, per eseguire un furto delicatissimo), c’è davvero di tutto, sia sul piano contenutistico che su quello formale. Di tutto, e alla rinfusa, oppure incasellato in un ordine insondabile e inintelleggibile al di là della testa di Carax. Il sospetto che questo ordine esista è probabilmente il motivo dell’aura di culto che circonda la pellicola. C’è il surrealismo più o meno simbolico (a partire dal protagonista Denis Lavant, con il suo aspetto assurdo di mimo-pagliaccio-joker-pierrot, con il suo soprannome, Linguamuta, con le stranianti scene in cui fa il ventriloquo, in una sorta di playback spiazzante che a posteriori fa molto Lynch), che si riversa in mille temi e mille situazioni più o meno incongruenti fra loro: il tema del volo e della paura di volare, calcato nel film in una scena coi paracaduti che non ha alcun legame con il resto della trama, l’assurdo setting, in cui la cometa di Halley sconvolge e rovescia il clima e la vita della gente e dove una malattia stermina la gente che fa sesso senza amarsi (di rado è dato vedere simbolismi così pesanti ed espliciti, trattati con punte retoriche così invadenti: “Svelto, prima che la malinconia entri in noi” ).

Ci sono, un po' ovunque, ovvi ed evidenti echi della nouvelle vague: nell’antirealismo del montaggio, nell’uso del genere (l’altrettanto ovvio noir “americano”) inteso non come costruzione di una struttura narrativa compatta e coerente ma come linguaggio puro di cui onorare e stravolgere i cliché, nella tendenza all’astrazione dell’immagine e nella fotografia straniante e ferocemente pop. Un elemento visivo nouvelle vague che però spesso si risolve nel suo stesso contrario, diventando, a seconda delle scene, estetismo forsennato e altrettanto forsennato romanticismo. E poi, in ordine sparso, ci sono cinema muto, espressionismo, fumetti (e per sottolineare il concetto c’è pure Hugo Pratt in veste di attore), circo, cialtronerie varie, vecchi gangster che hanno paura del buio, melodramma estremo e un sacco di amori impossibili, Rimbaud a palla, personaggi in bilico fra il maledettismo noir e infantilismo, musica classica e David Bowie (con accenni di musical danzato), elementi e inquadrature da fantascienza apocalittica. C’è così tanto - così tanto cinema, così tanta retorica, letteratura, poesia - che la struttura portante del film non può che collassare: generando una danza meta-tutto (una specie di enfatico, delirante anello di congiunzione naturale fra Godard e Tarantino, che nella prima fase della sua carriera, scrivendo Una vita al massimo, questo film lo ha probabilmente guardato almeno un paio di volte), un sabba di cinema al cubo, che essendo al cubo del cinema prende l’alto e il basso, la cialtroneria delle battute ad effetto e l’aspirazione alla pittura e alla videoarte, intellettualismo e pathos sregolato; una danza che può benissimo nauseare, ma comunque messa giù con una virulenza, un coraggio (anche di fronte al ridicolo involontario) e una sincerità rari e degni di rispetto se non altro per l’oltranzismo e per l’assenza di compromessi. Cinema del troppo, che straborda da tutte le parti, non sempre quelle giuste o sensate, a seconda dell’estro creativo, cinema privo di qualsiasi forma di controllo, nel bene e nel male, personale fino a diventare incomprensibile e opaco, di una genuinità che rasenta la pubblica nudità, eppure in qualche modo pesante, vivo.

Un cinema fatalmente perdente, maledetto non tanto per le tematiche ma perché confinato nel suo monumentale egocentrismo romantico, fallimentare da ogni punto di vista - commerciale, ovviamente, ma anche critico, perché è impossibile trarne fuori strutture coerenti, è impossibile cavarne un senso che non sia la pura esplicitazione della forsennata personalità di Carax, e si può valutare solo come memorabilia estetico, rarità da Wunderkammer della settima arte -, un cinema che non va da nessuna parte proprio perché si propone di non andare da nessuna parte se non verso se stesso, ma che pure, inaspettatamente, rimane nella memoria, anche in quella dello spettatore non bendisposto a priori alle eccentricità di Carax. Rimane magari solo per piccoli frammenti, schegge di pura bellezza (un’inquadratura, una specifica resa cromatica, un primo piano, un taglio di luce, un gesto di Lavant o della Binoche) in un mare di cinema esploso, ma rimane.

 


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