Jour de rêve. A spasso con Monsieur Hulot PDF 
di Caterina D’Amico   

Vecchie sbarre di un cancello semi-divelto e un muretto in pietra semi-diroccato: oltre la breccia, grattacieli. Tutto grigio. Ma noi siamo di qua dalla breccia, Monsieur Hulot e io, qualche cane randagio che ci trotterella intorno e, in lontananza, un vociare indistinto e il canto di un uccello. Non parla, lui; dondola e sorride e borbotta, a bassa voce; un passo avanti, indica là fuori con l'ombrello, un passo indietro, mi guarda, borborigmi; un passo avanti, ombrello ai grattacieli, un passo indietro, un mormorio e uno sguardo. "Vuole sapere che cosa c'è la fuori?", gli dico. "Ebbene, caro Hulot: lì, sotto quel freddo e quelle nuvole, c'è il cinema del vuoto".

La fissità: il cinema del vuoto
Freddo e nuvole sulla Potsdamer Platz, sui tappeti rossi, sulle transenne e sulle persone ferme davanti al Berlinale–Palast, sui multisala iperclimatizzati e sulle frotte di spettatori accaldati o infreddoliti che entrano ed escono dal cinema, dal bar o dalla metro, e sulle mille lingue che s'intrecciano e sulle code chilometriche per i biglietti. Freddo e nuvole sui kebab e sulle Berliner Pils e sugli hotdogs e sui Brezel e gli Pfannkuchen e i Mohnkuchen e le Berliner Weisse e le pizzette e i frullati e i gelati e i Rosinenschnecken ingurgitati in fretta e furia nelle corse tra un film e l'altro. Freddo e nuvole sulla girandola della Berlinale, e sui fiumi straripanti di intelligenza che sembrano essersi riversati qui da ogni parte del mondo, Asia in prima linea, per rappresentare i più disparati scenari d'ipocondria, disagio e pantano emotivo, in una cornice di esasperante lentezza e immutabile fissità. Freddo e nuvole su protagonisti frustrati e insoddisfatti che, in un continuo altalenare tra ribellione e rassegnazione, cercano la serenità senza trovarla, chiedendola a lavori che non li appassionano, a famiglie che non li capiscono, ad amici che non hanno voglia di aiutarli, ad amanti che non ne sono capaci, e in ultima analisi a città che non accolgono, né proteggono. Sono le metropoli dell'opulenza, affollate di personaggi trattenuti e abulici, sempre "sul punto di", come parole che sembrano voler tornare indietro prima ancora di uscire. Esistenze libere da disagi materiali, ma inappagate e digiune di emozioni, fatte di impulsi bloccati, non detti e, qua e là, un fiacco tentativo di resistenza. Relazioni interpersonali morbose e impantanate. Amori che non vengono vissuti fino in fondo per vigliaccheria e precarietà emotiva, generando così bugie e ambiguità. Queste sono le nuove tendenze del cinema. Da un festival all'altro, cambiano le lingue e i tratti somatici, ma è sempre lo stesso scenario a riproporsi all'infinito sullo schermo: un unico e indistinto deserto affettivo, in cui è bandito l'uso della parola per annullare distanze e attenuare incomprensioni, e la solarità è frenata e guardata torvamente come una colpa. In tale cornice ogni eventuale personaggio sopra le righe stona e rimane ai margini. Dal coreano This charming girl, all'italiano Provincia meccanica, dal giapponese Mahiru no hoshizora ai berlinesi Stadt als Beute e Make my day (presentato già al festival di Torino), per nominarne solo alcuni, ci troviamo costantemente di fronte ad anti-epopee sommesse ed esitanti che si dipanano in una metropoli tutta grigia e tutta uguale a se stessa. In Make my day, per esempio, la protagonista si sposta da Berlino a Parigi per sfuggire ad una relazione sbagliata e inseguirne un'altra che si rivelerà altrettanto ambigua e inappagante, e alla fine le circostanze la costringeranno a tornare a Berlino, alla solita vita d'imbalsamata oppressione. Questo è il cinema del vuoto: si propone di descrivere la vita odierna, con il suo caos e la sua alienazione, ma dalla vita finisce ineluttabilmente per allontanarsi. È un problema di sguardo: non c'è un occhio che scava, non c'è profondità di campo, e così vengono ritagliati spazi appiattiti e atrofici, nei quali i personaggi sono schiacciati come in un mosaico bizantino, senza respiro né prospettiva. Dialoghi paludosi, e le storie si attorcigliano su se stesse senza andare avanti. Luoghi che si trasformano in non-luoghi - Berlino come Parigi come Tokyo -, spostamenti che non generano alcun cambiamento, e il tempo che sembra aver smesso di scorrere: ecco che non c'è più cinema, inteso nella sua essenza più profonda, legata alla kinesis, ossia al movimento. Non c'è più cinema quando sembra che il movimento sia annullato e che non vi sia alcuna evoluzione: non c'è vita sullo schermo, ma solo sclerotizzazione della vita, e la mummificazione del cinema ne è diretta conseguenza. Freddo e nuvole sul cinema del vuoto. Freddo e nuvole su questa giostra incessante. La giostra va, statica e ignara, ma di tanto in tanto su una vetrata compare per un attimo una silhouette dondolante, con cappello, pipa e ombrello. Compare per un attimo, e subito scompare. È un altro mondo, un altro cinema, un pianeta a molti sconosciuto.

Monsieur Hulot mi guarda, dondola, sorride. Un passo avanti, mormora qualcosa, un passo indietro, fa segno con l'ombrello a una vecchia bicicletta che si muove in lontananza, da sola, verso il suono di una fisarmonica. Ci guardiamo, un sorriso, la seguiamo. Chissà dove ci porterà di bello.

L'occhio che scava: gli spazi e i personaggi
Un vicolo tranquillo, case in pietra, pozzanghere e un cane qua e là: basta la prima inquadratura di Mon Oncle (1958), e il pianeta Hulot già comincia a prender forma. Tetti spioventi, abbaini e cani randagi di qua dal muro, e poi le bancarelle di frutta e la charcuterie, la papeterie, il cafè "chez Margot"; è un quartiere della vecchia Parigi, tutto animato da un proliferare di attività e voci umane, e sullo sfondo la musica di una fisarmonica. Dall'altro lato, grattacieli grigi tutti uguali e un universo di rumori non umani. L'incipit di Mon Oncle disegna subito in maniera nitida i contorni di due mondi opposti, separati da un vero e proprio confine: poche pennellate precise a ritagliare gli spazi e a significare i personaggi che li popolano. Il mondo grigio al di là del muro e la villa ipertecnologica con le due finestre rotonde simili a due occhi, arredata in modo freddo e spoglio, annunciano i coniugi Arpel, ossia il cognato e la sorella di Hulot. Lui giacca e cravatta, tutto impomatato, lei in una rigida veste da casa color verde pisello, due manichini che s'intonano alla perfezione con l'arredamento. E poi c'è il figlio Gérard, vittima annoiata di questo mondo asettico, che nello zio trova spesso e volentieri rifugio e ristoro. E prima ancora che lo zio Hulot compaia, il suo mondo, il vecchio quartiere parigino, ci ha già detto molte cose di lui. Lo stesso accadeva già nell'incipit de Les vacances de Monsieur Hulot (1953): Jacques Tati ci trasporta nell'universo convulso dei vacanzieri, che gremiscono stazioni caotiche in cui gli annunci all'altoparlante sono coperti da ogni sorta di rumore, vacanzieri che corrono verso le agognate mete in cui continueranno a fare la stessa vita frenetica di sempre. Ed ecco, tra tutte queste auto strombazzanti, una macchinina un po' malandata, che va piano piano, si lascia superare da tutti e si ferma di fronte a un cane che blocca la strada. Prima ancora di vedere in volto il conducente, vediamo la sua mano accarezzare l'animale; la macchinina poi si ferma scoppiettando in una campagna dove il silenzio è ferito solo dal canto di un uccello. Hulot non è ancora comparso, ma sappiamo già che fa parte di un altro mondo, in cui la fretta cede il posto ad una quieta e gentile attenzione verso la realtà circostante. Semplicemente attraverso immagini contrapposte, Tati esprime l'antitesi di due universi, pur non divisi, come in Mon Oncle, da un confine fisico tangibile. Ancora sugli spazi: l'aeroporto bianco grigio e nero, la sala d'attesa del palazzo di vetro, con le sue poltrone nere tutte uguali, le "scatole-ufficio", la scenografica salle à manger del "Royal Garden". Si parla di Playtime (1967), senz'altro la costruzione più complessa e ardita di Tati: spazi geometrici e spogli, o caotici e barocchi come il mondo che vogliono significare. Questi sono solo alcuni dei molti esempi possibili, ma bastano a focalizzare quello che è l'elemento portante di questo cinema: spazi e personaggi sono ritagliati in modo nitido e particolareggiato, ed è già tutto nelle inquadrature, prima ancora che entri in scena il dialogo. È dunque, di nuovo, una questione di sguardo: a differenza che nel cinema del vuoto, qui l'occhio scava in profondità, è un cinema di attenzione e di densità, che racchiude universi in un'inquadratura, e disegna e disseziona nel dettaglio pianeti e geografie.

L'occhio che scava: lo straniamento
"Dans Playtime, c'est une invitation: regardez autour de vous et vous verrez qu'il se passe toujours quelque chose d'amusant. Je crois que Playtime n'est pas fait exactement pour un écran mais fait pour l'œil" (1).

Un invito all'occhio, dunque, a guardare e a scavare, per vedere quello che Tati vuole mostrarci, ossia quello che vede Hulot. Perché Hulot è insieme regista e personaggio, ed è attraverso il suo sguardo che noi vediamo lui e il mondo: è suo l'occhio che scava e vede la nevrosi che si cela nella sequenza di rumori a ritmo prodotti dall'uomo seduto accanto a lui nella sala d'aspetto. È suo l'occhio che guarda i piedi dell'addetto della compagnia aerea, che si muovono facendolo spostare, su di un piccolo sgabello a rotelle, da un lato all'altro del bancone, per permettergli contemporaneamente di dar retta ai turisti e rispondere al telefono e occuparsi delle prenotazioni dei voli in una pirotecnica girandola linguistica. I turisti frettolosi davanti a lui non notano tutto questo, solo l'occhio di Hulot si ferma a guardare dentro e dietro alle cose, particolari apparentemente periferici, ma di fatto sostanziali. Chi, se non Hulot, solo apparentemente distratto e stralunato, è capace di cogliere ovunque quelque chose d'amusant? D'accordo, il mondo è confuso, caotico, asettico, stupido, ma chi, se non Hulot, lo tratta come fosse un gioco e riesce a trarne divertimento? Il suo è l'occhio di un outsider, di un apolide che guarda la realtà da un'angolazione tutta particolare, producendo così un effetto di straniamento: vedere le cose in prospettiva straniante equivale a vederle per la prima volta, come un bambino, e non a caso è proprio con il nipote Gérard che Hulot riesce a comunicare meglio. Entrambi vedono il mondo con lo stesso candore scanzonato, e il loro sguardo vergine è sempre aperto a cogliere gli aspetti contraddittori e divertenti della realtà. "Un film che viene da un altro pianeta…l'Europa del 1968 filmata da un Lumière marziano", scrisse Truffaut di Playtime: Monsieur Hulot, con la freschezza di un bambino e il distacco di un extraterrestre, è il solo che sa vedere - e farci vedere - il luccichio nel giardino degli Arpel e la lettera O di un'insegna che si trasforma in un'aureola intorno alla testa di un prete. Temps de loisirs: per un bambino è sempre tempo di svago. Questo dunque l'invito: dal momento che "il mondo è una gag", guardiamolo e divertiamoci.

Tout bouge: Il comico e il cinema della densità
Temps de loisirs. È tempo di svago, ci dice Tati. E infatti di fronte ad un suo film ridiamo e ci svaghiamo. Il mondo è comunque brutto, come lo era nel cinema del vuoto, ma fa ridere. Il cinema del vuoto generava nello spettatore un senso di pesantezza o, nei casi peggio riusciti, di mera noia, laddove nel cinema denso di Tati domina inequivocabilmente il comico, con il suo effetto immediato di leggerezza e allegria. Questa comicità è conseguenza diretta dello straniamento, essendo intimamente legata alla profondità dello sguardo, che s'incunea nel mondo grigio al di là del muro, dove tutto si ripete meccanicamente sempre uguale, il che equivale a dire che tutto è fermo. Irrigidimento e stasi dunque, a permeare forme di vita asettiche e alienate: "non è più la vita, è l'automatismo installato nella vita ed imitante la vita: è il comico" (H.Bergson). Ma, per dirla con Jacques Lecoq, mimo e acrobata come Tati, e dunque maestro dell'espressione e della comicità corporee, "Tout bouge./Tout évolue, progresse./Tout se ricochette et se réverbère./D'un point à un autre, pas de ligne droite./D'un port à un port, un voyage./Tout bouge, moi aussi! ". "Tutto si muove./Tutto evolve, progredisce./Tutto rimbalza e si riverbera./Da un punto all'altro, non c'è linea dritta./Da un porto all'altro, un viaggio./Tutto si muove, anch'io!". Tutto si muove, la vita è un continuo fluire di passaggi e mutamenti, che l'artista osserva - ritorna quindi il ruolo centrale dell'occhio e dell'attenzione -, penetra e riproduce. Quando il fluire si irrigidisce, l'intima agilità della vita cede il posto al rigor mortis. Il comico smaschera la morte che si annida in ogni automatismo, rendendola immediatamente ridicola e scacciandola. A ben riflettere, vista in questa prospettiva, la comicità rivela un retrogusto malinconico e amaro, messo in evidenza anche da Tati: "vous savez, dans les films comiques, en dehors de l'effet purement comique, le gag visuel, le dialogue, la bonne réplique ou l'effet sonore qui est fait pour distraire et amuser les spectateurs, je crois qu'il se cache toujours un petit peu de drame" (2). Non è che in questo cinema non ci sia il vuoto dunque, ma è proprio la presenza di un occhio che vi scava dentro, della prospettiva straniante di un outsider, a creare il guizzo che dà origine all'effetto comico. Guardare e scoprire sfumature e assaporarle, guardare e divertirsi e lasciarsi vivere: negli spazi angusti torna il respiro e la vita smette di essere imbalsamata. Lo sguardo straniante e fanciullesco di Hulot rifonda l'atto del vedere, restituendo un'anima pulsante alla vita e dunque al cinema. L'occhio di Hulot giunge così ad essere metafora e manifesto di un cinema denso e attento, che si spinge molto in estensione e in profondità e torna ad essere legato alla kinesis. Tout bouge: è arte in movimento, come la vita di cui vuole farsi specchio.

Freddo e nuvole sui grattacieli oltre la breccia, in lontananza. Tutto fermo. E noi qui, Monsieur Hulot e io, su un balcone in cima ad una vecchia casa, a guardare la bicicletta che corre via da sola. Non parla, lui. Dondola quieto. Poi si volta, all'improvviso, e si blocca corrucciato: nella gabbia in ombra, di fronte alla finestra aperta, l'uccellino è immobile e non canta. Hulot socchiude la finestra e il riflesso del sole si sposta sulla gabbia. Il canto ricomincia, e si mescola alle mille voci del mondo che si muove giù tra i vicoli. Hulot riprende a dondolare, sorride, mi raggiunge. Un passo indietro, mormora qualcosa. Un passo avanti, fa cenno alla bici con l'ombrello. È lì che si allontana, inseguita dai bambini. Comparirà su una vetrata oltre la breccia. Solo per un attimo, e poi scomparirà.

Note:
(1) "In Playtime, c'è un invito: guardatevi intorno e vedrete che sempre succede qualcosa di divertente. Io credo che Playtime non sia esattamente fatto per uno schermo, bensì per l'occhio".
(2) "Sapete, nei film comici, al di fuori dell'effetto puramente comico, la gag visiva, il dialogo, la risposta efficace o l'effetto sonoro fatto per distrarre e divertire gli spettatori, credo si nasconda sempre un po' di dramma".

 


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