Mito, storia, sistema e vita: Per uno solo dei miei occhi PDF 
Enrico Maria Artale   
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Mito, storia, sistema e vita: Per uno solo dei miei occhi
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I comportamenti che il film documenta non possono che risultare odiosi, profondamente ingiusti ed enigmaticamente immotivati. Non si capisce per quale ragione i contadini non possano lavorare, perché la ragazza ferita non possa essere soccorsa, perché i bambini non possano attraversare il cancello all’ora prestabilita. Malgrado il sistema politico proietti la sua ombra inquietante sullo scenario concreto, ogni evento resta fondamentalmente legato all’arbitrio del singolo, alla decisione irrelata di un tenente qualsiasi, decisione presa al di fuori di un progetto sistematico, persino vessatorio, decisione contingente che resta un atto non politico e in quanto tale trae la sua motivazione soltanto nell’istinto riproduttivo dell’esistente, l’istinto che spinge cioè il soldato a perpetrare torti al prossimo esclusivamente perché ai suoi occhi il prossimo è qualificato solamente dal subire, perché la sua sottomissione è al momento l’unico fatto compiuto. Il continuo riferire, da parte dei soldati, ad ordini fantomatici provenienti dal quartier generale, e la costante assenza di qualunque traccia di tali ordini, presentano nel film una dinamica tipica del mondo occidentale, in cui l’illusione di un sistema determinato e intenzionale, in grado di controllare il mondo, ha lasciato il posto alla ben più spaesante realtà di un mondo in cui i meccanismi culturali ed economici si riproducono incessantemente e casualmente, facendosi beffe di ogni totalizzazione consapevole. Tutto ciò spiega, a fronte del progressivo coinvolgimento dello spettatore, la crescente partecipazione personale del regista, che da osservatore esterno diventa sempre più attivo verbalmente, fino alla sequenza in cui si scaglia con inaudita violenza verbale sui soldati posti a sorveglianza del cancello. Si tratta di un elemento puramente discorsivo, perché, escludendo le conversazioni telefoniche, Mograbi non si mostra mai davanti alla camera ma preferisce far sentire la sua voce da dietro. Questo lo differenzia da un regista come Michael Moore, non tanto sulla base effettiva di un minor protagonismo, quanto in relazione alla struttura ad inchiesta su cui si fondano i film di Moore e che invece è assolutamente estranea al lavoro del regista israeliano. La posizione di Mograbi gli permette di oscillare in modo molto interessante tra attività e passività quali momenti fondamentali della pratica documentaria, chiamando in causa lo spettatore in modo molto più riflessivo, senza la pretesa di volerlo istruire sulla natura dei problemi, ma anzi ponendosi esattamente alla pari, al punto da sfogare in prima persona la stessa indignazione che presumibilmente si fa strada in chi vede il documentario, nella completa coincidenza di sguardo determinata dalla posizione rispetto alla macchina da presa. Egli riceve un trattamento diffidente e a volte ostile da parte dei soldati, ma in quanto israeliano non viene affatto toccato, né subisce gravi mancanze di rispetto. Questo ci fa capire la ovvia asimmetria di comportamenti da parte dei militari e ci mostra per immedesimazione, molto semplicemente, come il nostro essere occidentali comporti anche involontariamente una situazione di ingiustizia nei confronti di chi non gode, di fatto, degli stessi diritti. La non legittimità e l’asimmetria sono visivamente affermate dal contrasto lampante tra le persone e i luoghi, nelle scene in cui le scolaresche visitano Masada; la prima soprattutto, nella scena che introduce i titoli di testa: un giovane religioso fa esercitare gli studenti, invitandoli a restare in silenzio, respirando lentamente, perché percepiscano l’atmosfera e la emozioni in cui vissero gli Zeloti durante l’assedio. L’ironia del regista è sottile, e la si comprende forse soltanto a posteriori, ma resta la sensazione straniante provata nel vedere questi ragazzetti vestiti alla maniera occidentale, un po’assorti, annoiati, distratti chi dal sonno chi dalla fidanzata, figli del benessere immersi in una realtà senza tempo, scarna, ancestrale, come l’altipiano di Masada nel mezzo del deserto. Gli esercizi di immedesimazione appaiono francamente ridicoli di fronte alla evidente estraneità al contesto dei ragazzi, e forse soltanto da un punto di vista propagandistico possono rivelarsi proficui, per inculcare sotterraneamente l’avvertimento di una minaccia incombente. Del resto anche questi esercizi non fanno che dimostrare la grande possibilità di comprensione concessa spontaneamente agli israeliani dalla loro cultura, e rifiutata nonostante la sua evidenza: la cosa si fa lampante quando una maestra chiede ai suoi alunni di dividersi tra quattro angoli, a seconda che scelgano, immedesimandosi negli Zeloti, di uccidersi, di combattere, di pregare, o di non fare nulla. La maggior parte dei ragazzi sceglie di combattere.

ImageI giovani rivestono un ruolo particolarmente importante nel documentario, a diversi livelli e con diversi significati, anche in relazione all’età: a ben vedere vi è una sostanziale differenza tra la caratterizzazione dei bambini e quella degli adolescenti o dei ragazzi più grandi. I primi, infatti, dimostrano una grande lucidità nell’analizzare i miti che gli vengono raccontati, dimostrando un notevole acume psicologico e politico, che di per sé lascerebbe immaginare una capacità, da parte di quello stesso popolo, di gestire con grande civiltà le relazioni internazionali. E se lo sguardo dei bambini israeliani non è certo privo di una certa purezza, altrettanto puro nella disperazione è lo sguardo della bambina palestinese che assieme alla madre attende di poter passare il confine. Il suo pianto improvviso non ha caratterizzazioni politiche o religiose, ma è solamente dettato dalla paura e dall’infelicità: esso mette a nudo il problema spogliandolo di tutte quelle connotazioni che alcuni vorrebbero strumentalmente associare alla causa palestinese. Se prima avevamo sottolineato come questo film nutrisse idee diverse sul livello di responsabilità individuale dei soldati rispetto a quanto non faceva Private di Costanzo, è anche vero che sul versante dei civili palestinesi la posizione è esplicitamente identica: il film del regista italiano mostrava con grandissima abilità la spontaneità del gesto violento, il progressivo radicarsi dell’odio contro i soldati nel personaggio del figlio adolescente, che pure era stato educato dal padre alla resistenza non violenta, fino alla realizzazione dell’atto terroristico (che con grande spessore etico e cinematografico restava al di là del finale). Qui Mograbi, parlando con il suo interlocutore e mostrando le immagini raccolte, dimostra come le condizioni in cui versano i palestinesi determinano quasi necessariamente delle reazioni violente, con la stessa spontaneità e spesso a fronte della stessa ingenuità con cui scoppia il pianto della bambina, sul quale il regista riesce a soffermarsi a lungo senza minimamente cadere nel patetismo perché la sua è una prospettiva più riflessiva che emotiva. A differenza dei bambini, gli adolescenti e i ragazzi più grandi presentano già, in un modo o nell’altro, i segni di una cultura politica disastrosa, la cui pochezza si traduce nella riproduzione di modelli di aggregazione occidentali che appaiono ai nostri occhi anacronistici, se non addirittura antiquati. Si pensi in primo luogo al gruppo di ragazzi un po’ freak, che riuniti la sera attorno al fuoco suonano la chitarra e scherzano sulla leggenda di Sansone. Certo si potrebbe approvare la scelta pacifista e non violenta, ma in realtà è evidente come sostanzialmente si tratti di una posizione di disimpegno, laddove non sono le manifestazioni espressive morbidamente sessantottesche a poter costituire una protesta udibile. E tale posizione di disimpegno risulta ben più grave se assunta nelle immediate prossimità di uno scontro decennale e di una situazione critica dal punto di vista umanitario, in cui il proprio paese è pesantemente coinvolto. Anche qui si punta il dito sulle responsabilità disattese, al livello di coscienza individuale, degli israeliani, che si comportano come se vivessero in Europa o negli Stati Uniti, emulando quel disimpegno giovanile che altrove è però il riflesso di un nichilismo di fondo dettato anche dalla mancata possibilità di un impegno concreto, cosa a cui invece i giovani ebrei potrebbero sentirsi facilmente obbligati. La loro opposizione alla guerra resta una scelta politica esclusivamente estetica, sorretta da una tendenza modaiola (tra l’altro fuori moda) e da un look, più che dallo studio di un progetto consapevole. L’estetismo della scelta politica si fa ancora più evidente, ma non necessariamente più grave, in quei giovani che costituiscono il contraltare ideologico dei primi, e cioè i giovanissimi seguaci del movimento fondato a New York dal rabbino Kahana, un ex membro del parlamento israeliano. Si tratta di un movimento violentemente razzista e sionista, le cui forme d’aggregazione ricordano i concerti di estrema destra che sono tuttora frequenti in Europa, ma che certamente hanno conosciuto il loro massimo potere catalizzatore almeno una decina di anni fa. Soltanto che qui, invece delle teste rasate, sotto il palco si agitano ragazzetti con le peot (i riccioli sui lati del capo), che sventolando bandiere e striscioni inneggiano alla violenza contro gli arabi. Nonostante la posizione politica sia condannabile rispetto alle idee dei giovani freak, si ha la sensazione che il valore politico dei due gruppi di ragazzi sia sostanzialmente analogo, e cioè pressochè nullo, dal momento che entrambe le scelte, anche quella di estrema destra, non corrispondono ad una reale consapevolezza del problema ma più allo sfogo di bisogni istintivi (violenza, aggregazione, scambio) secondo le forme dettate dall’occidente, nella misura in cui in occidente si è giunti da tempo, per dirla con le parole di Walter Benjamin, ad una completa “estetizzazione della politica”. Nella scena appena descritta non può infatti mancare lo spettacolo, il concerto: sul palco c’è un complesso rock in cui alcuni musicisti, vestiti in modo ortodosso, accompagnano un cantante con una lunga barba grigia in un pezzo dove l’aggressività verbale supera senza dubbio quella sonora (neanche così indiavolata…). La coincidenza mette i brividi: il testo della canzone è infatti la preghiera di Sansone, la cui vendetta non si indirizza più contro i filistei ma, inspiegabilmente, contro la Palestina.

ImageUno dei maggiori meriti di Mograbi consiste nel documentare la potenziale deformabilità del mito e la sua strumentalizzazione senza aggiungere alcun giudizio personale, ma lasciando allo spettatore il compito, non sempre semplice, di distinguere la legittimità delle diverse prospettive. Il regista si fa in un certo senso garante della pluralità, non perché egli non abbia una posizione neutrale ma perché invita a poter rintracciare la sua visione delle cose anche e soprattutto nell’assurdità delle posizioni opposte. Ciò non toglie che, per la correttezza con cui il materiale viene organizzato, l’accordo tra spettatore e regista resti soltanto una possibilità, perché nulla vieta a chi osserva di giungere a conclusioni diverse. Del resto è anche possibile che lo spettatore resti semplicemente confuso, proprio perché il regista non gli facilita il compito presentando il materiale in modo lineare, o esplicitando la propria tesi. Addirittura tra il mito di Masada e la realtà politica attuale l’unica tesi di collegamento esplicitamente formulata nel documentario è quella, terribile, proposta dall’ultimo personaggio, l’anziano professore. Una tesi rovesciata: come gli Zeloti scelsero onorevolmente il sacrificio della propria vita per resistere ai romani, così i soldati israeliani resistono con onore agli attacchi dei palestinesi e muoiono per la loro patria. La strumentalizzazione è enorme eppure sottile, si muove su un livello emotivo, perché il professore chiama in causa con dolore tutti i componenti della sua famiglia caduti per la causa ebraica, e su un livello storico, perché, e questo è estremamente significativo, è proprio lui a fare l’unico riferimento alla Shoah presente nell’intero documentario. L’utilizzo in chiave sionista ed esclusivista della tragedia dell’olocausto è odioso ed inquietante, ma l’aspetto più triste è che esso non sembra far parte di un progetto propagandistico sistematico portato avanti dal professore, la cui versione della storia è probabilmente sincera e forse disinteressata. Come dice drammaticamente nel finale, è la sua storia, la storia come lui la può raccontare. Il suo racconto proietta un’ombra su tutte le lezioni tenute a Masada dagli insegnanti e dalle guide turistiche, che adesso appaiono interamente dedicate a far emergere gli istinti difensivi dei ragazzi ebrei, a consolidare le loro paranoie nazionaliste. E in un quadro che nel finale si fa sempre più pessimistico emerge l’accusa del regista, l’accusa di cecità e imparzialità, che pure si collega al mito di Sansone, ceco e vendicativo, almeno per uno dei suoi due occhi. L’analisi più lucida, in opposizione a tutto ciò, resta quella del palestinese che parla al telefono con il regista, spesso mettendolo in un sincero imbarazzo. Per l’ignoto interlocutore tutta la questione politica ruota attorno alla vita, al concetto di vita e alla realtà di vita. Nel momento in cui le condizioni vessatorie imposte ai palestinesi rendono l’esistenza quotidiana un tormento o una tortura, e in cui nemici facilmente identificabili oppongono il loro potere, senza una ragione comprensibile, alla soddisfazione dei bisogni elementari, allora cambia il rapporto con la morte. Non soltanto la rabbia e il disonore forniscono un coraggio sufficiente a vincere la paura del dolore e della fine, ma la vita stessa perde radicalmente importanza, non vale la pena di essere vissuta. Questo ovviamente trae un’energia e una risoluzione decisiva dalla dottrina islamica, che come tutte le religioni monoteistiche fornisce nell’istituzione di un aldilà le due principali consolazioni per i deboli: la vita oltre la morte, che rende meno radicali e anzi grandiose le conseguenze del suicidio, e la giustizia divina, che permette ai sofferenti di accettare anche incondizionatamente la realtà, nella fede che un domani la giustizia divina ribalterà l’ordine costituito. Il regista, da ateo dichiarato, non può che provare tenerezza verso quest’ultimo atteggiamento, ma ne registra al tempo stesso la non proficuità. Del resto, nella situazione esistente, l’unica reazione possibile è violenta e, dovendo fare i conti con la propria debolezza costitutiva, passa attraverso la necessaria eliminazione di sé: ma mentre, da un lato, la Torah condanna il suicidio, dall’altro sono gli stessi ebrei a insegnare, non senza discussioni o varietà di vedute, le ragioni politiche e spirituali del suicidio politico. Del resto, al di fuori di una prospettiva religiosa, la scelta è legittima, perché la vera violazione alla sacralità della vita non è il suicidio ma la privazione delle possibilità di vita, o per dirla con Giorgio Agamben, la riduzione dell’uomo a “nuda vita”. L’attentato terroristico diventa allora la terrificante risposta al biopotere, tanto ingiustificabile quanto disperata (qui ci riferiamo specificatamente a questo tipo di attentati, non certo a quelli organizzati da Al Qaeda, né tanto meno da gruppi politici occidentali), l’unico tentativo plausibile, per un uomo ridotto a corpo umano, di reagire violentemente; tentativo peraltro politicamente fallimentare.

ImageNel film la relazione, fondamentale per la contemporaneità, tra potere e bios, viene assunta in tutta la sua destinale radicalità nella scena forse più impressionante ed enigmatica, il confronto tra la jeep blindata dell’esercito e il padre di famiglia, che vorrebbe attraversare il confine per portare la figlia ferita in un ospedale. All’uomo povero, inerme e inoffensivo, cui non viene riconosciuto alcun diritto o qualità individuale, si oppone una gigantesca macchina bellica, in cui ogni traccia dell’umano è stata accuratamente eliminata (i vetri stessi, oscurati e coperti dalle griglie, impediscono di vedere i volti dei soldati all’interno), e i cui movimenti appaiono addirittura privi di senso (si pensi all’enigmatica reiterazione del suo percorso). Esteticamente, e cioè da un punto di vista visivo e sonoro, il confronto tra i due ricorda una dimensione favolistica, laddove il blindato sembra una sorta di mostro fantastico dal quale proviene una voce da orco (il suono è deformato dai megafoni), che più volte oppone un rigido rifiuto alle richieste del piccolo personaggio, sempre più simile ad un bambino delle favole per ingenuità ed esposizione al pericolo. La stessa schematicità e semplicità delle parole che provengono dalla jeep accrescono questa dimensione che sfiora il paradossale. Di fronte ad un uomo che chiede soccorso medico per la propria figlia i soldati sono soltanto in grado di dire, anche in presenza della sopraggiunta ambulanza: “va via! Sta’ fermo! Non ti avvicinare! Vattene!”, senza andare molto per il sottile nelle spiegazioni. Il confronto è simile a quello, mostrato dal documentario pochi minuti prima, tra un commerciante e la torre di controllo della dogana: anche in questo caso non si riesce a vedere il volto del soldato mentre la stessa voce meccanica e tenebrosa sembra essere emanazione diretta della torre nera. Questa sproporzione rende conto dell’assetto politico che vede contrapposti in un rapporto di sottomissione un uomo nudo ad un’organizzazione politico-militare tecnocratica: questa agisce per mezzo delle sue protesi meccaniche, e trova in queste sue protesi un nuovo volto, concretizzazione espressiva del dittico foucaltiano “sorvegliare e punire”. Il volto nudo resiste a questo potere in quanto ultimo lascito dell’individualità, in quanto segno dell’identità su di un corpo che il potere stesso considera esclusivamente come entità biologica gestibile, comandabile, trasferibile. Ma la sua resistenza non può avere valore politico se non attraverso il valore estetico che il documentario è in grado di cogliere. Tuttavia, questa costruttività intrinseca del film di Avi Mograbi, che riconoscendo un potere importante al cinema cerca di rivolgersi alle coscienze degli israeliani, non sembra farsi illusioni, quasi fosse consapevole del tratto ineludibilmente utopico della propria proposta. A fronte di una considerazione sulla ciclicità della storia, che già di per sé possiede tradizionalmente toni pessimistici, il regista sottolinea attraverso le immagini la gravità inedita del contemporaneo, in cui il confronto non è più tra un uomo forte ed uno più debole, o analogamente tra stati più o meno potenti, ma tra entità che non sono più sullo stesso livello, da un lato sistemi macchinali disumanizzati, nel senso di una costitutiva integrazione del tecnologico nell’umano, dall’altro vite biologiche disumanizzate, nel senso di una privazione delle possibilità umane. Nel decisivo scarto tra il presente e li passato la violenza emerge come elemento inaggirabile e al tempo stesso inutile in qualsiasi prospettiva, anche e soprattutto a lungo termine. In questa registrazione antiumanistica il mondo appare gettato essenzialmente nel caos, quel caos che il complesso delle violenze e delle strumentalizzazioni documentate dal film non smettono di accrescere, lungi dall’essere il frutto di un disegno politico preciso, per quanto aberrante tale disegno avrebbe potuto essere. Ecco allora come lo sfogo di rabbia contro i soldati non arrivi a costituire un vero esempio di azione ma soltanto un ultimo disperato tentativo, perché alla giusta indignazione verso la realtà si accompagna inevitabilmente la rassegnazione e la sinistra consapevolezza del nichilismo storico.



 


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