Vincitore al festival di Annecy, Sole negli occhi di Andrea Porporati è un film dalle due anime. La prima, concreta e asciutta, caratterizza la prima parte del film; l’altra, noiosa e piatta, si intromette nell’ultima mezz’ora, spostando il filo del racconto, fino a quel momento teso e lacerante, sul piano banale della metafora e del simbolo.
Andrea Porporati (suo il soggetto e la sceneggiatura, oltre alla regia) costruisce con grande intelligenza filmica il dramma del protagonista. Smarrito tra i familiari (la madre e la sorella), la ragazzina della porta accanto (la vicina di camera) e la polizia, Marco (un bravissimo Fabrizio Gifuni) vive le sue ultime ore di libertà dopo l'uccisione del padre in una località balneare. La sequenza dell’uccisione del padre (incipit del film) è probabilmente quella più angosciante, diretta con coraggioso realismo. Porporati decide di far vedere i corpi che si scontrano, il coltello che uccide e gli sguardi disperati dei personaggi, occhi che si osservano come se non riuscissero a credere fino in fondo a quello che stanno vivendo. Da quel momento (ma in realtà già nella prima sequenza avevamo dei piccoli segnali) la mdp segue il percorso di Marco, subendone l’angoscia e il peso. Muovendosi alle spalle del ragazzo, la mdp evidenzia un'affinità con il protagonista proponendo uno sguardo crudo e freddo.
Il dramma è quindi per tutta la prima parte del film completamente condiviso dall’autore e dallo spettatore, che si relazionano con il protagonista in una sorta di vagabondaggio senza senso, attraverso la camera d’albergo, l’ufficio di polizia, l’obitorio. Non ci sono spiegazioni, nè punti di vista privilegiati rispetto alla narrazione; anzi, questa muta partecipazione al dramma di Marco rende la visione affascinante e tesa. A questo proposito è interessante la fotografia che riesce a creare intorno al personaggio un mondo assolutamente freddo e desolante. Due esempi su tutti: la notte nera, senza luci, più simile alle notti invernali che non alle sere estivi nelle quali si svolge la vicenda, e le luci dei festini, mai calde e gioiose, ma totalmente squallide, quasi natalizie, a fare da sfondo ai personaggi.
Anche dal punto di vista narrativo, oltre a quello visivo, il film ci conduce verso un’angosciosa sensazione di imprevisto: i due bambini che per gioco riflettono il sole in uno specchio colpendo agli occhi il protagonista poco dopo l’omicidio (da qui il titolo del film) rappresentano un’interessante svolta (certamente con valenze simboliche, qui ben mascherate) che fa avanzare la storia. Marco infatti si avvicinerà a uno dei bambini per il timore di essere stato riconosciuto, da questo fatto subirà le minacce del padre del bambino, oltre ad affrontare il riconoscimento cui la polizia lo sottopone direttamente sul luogo del delitto.
La relazione tra protagonista e mdp, e quindi tra protagonista e spettatore, viene completamente dissolta a partire dalla sequenza del festino. Marco partecipa allo spettacolo di magia, e l’essenzialità si trasforma in pura metafora ("voglio andare in paradiso", dice Marco al mago che lo invita a esprimere un desiderio). Inoltre la relazione impossibile tra lui e la ragazza adolescente resta solo uno spunto interessante del film: Porporati non si sbilancia, lasciando a livello superficiale, e quindi facilente inscrivibile sul piano della metafora, un rapporto che potenzialmente poteva essere molto profondo e originale. Così anche il rapporto con il commissario (un serio e professionale Valerio Mastrandrea), è un perfetto e scontato duello tra investigatore "che ha capito tutto" e assassino "condannato a dover confessare".
Nel finale predomina quindi l’anima più scontata del simbolico, che si sostituisce a quella vena angosciante di pesantezza che aveva caratterizzato la visione fino a quel momento. La ricerca di un cinema di poesia si sotituisce banalmente al cinema di prosa che Porporati aveva costruito con efficacia. Non si condivide più l’angoscia di Marco, che diventa allora una figura estranea, distaccata, ma si percepisce un oggetto, completamente osservabile, il cui dramma non ci colpisce più, nè ci spaventa, e questo è forse il peccato più grosso del film.
In sostanza Sole negli occhi è un’opera interessante, impegnata e rigorosa, sia dal punto di vista della struttura narrativa sia da quello della messa in scena.
Porporati (sceneggiatore di Lamerica), al suo esordio nella regia di un lungometraggio, dimostra di sapere raccontare, cosa rara nel cinema italiano, un dramma personale e psicologico utilizzando i canoni del giallo. Cercare la poesia è però il punto debole del film e nel finale non ci sentiamo più coivolti: come se il regista si fosse dimenticato di noi.
|