(Neo)colonialismo di ritorno: la tratta triangolare rovescia i vertici e l'esportazione diventa importazione (e viceversa). UK-Hollywood-Bollywood: la tratta percorsa dal Danny Boyle Express è significativa, se non fondativa di una stretta collaborazione tra poli cineindustriali mai così lontani sempre così vicini; l'imitato cerca l'imitazione, la ingloba, la cura, la restaura, la ibrida, disseziona il cadavere (vivo) e lo ri-assembla: la scossa la dà il Dr. Danny Boylenstein, nel laboratorio risuona la tragicomica esclamazione: si può fare!
Slumdog Millionaire, il pezzente milionario, l'ossimoro simbolo, il voler essere per eccellenza, il motore immobile del cinema-amusement hollywoodiano, quel limite già mai raggiungibile ma già sempre visibile all'orizzonte: l'asticella può essere saltata, ma una volta raggiunta il miraggio si rivela, si torna a rincorrerla. Sogno da casalinghe (disperate) davanti al televisore, un Over the top (in pantofole) anni 2000 costruito ad arte per arrivare esattamente lì dove sai benissimo che arriverà, Slumdog Millionaire, The Millionaire è il mostruoso (eppure come per ogni mostruosità, perfetto) risultato di un esperimento cinegenetico tra Hollywood e Bollywood entro cui la camera-estro di Boyle si muove con estrema agilità, alternando, riprendendo, incastrando i mattoncini clichè di quasi un secolo di industria culturale americana con quelli della neonata (e, nella sua forma pura, ben poco esportabile) cine-industry indiana. Lo sfondo analettico (il suo passato a rincorrere) di Jamal è il perfetto contro altare drammatico della sua artificiosa (cioè costruita a tavolino, cucita a pennello per la storia) quanto incredibile scalata al/ai milione/i di rupie con tanto di omologo indiano di Gerry Scotti nell'inedita veste del maligno/invidioso a mettergli i bastoni tra le ruote. A questo cinema d'appendice non manca proprio nulla: gangster, gioco, dramma, buoni, cattivi, cattivi redenti, falsi buoni, incontri, rincontri, scontri, compassione, empatia, sogni, coincidenze, balli, soldi, pistole, odio, amore.
Rasoio di Godard: bastano donne e fucili; sennonché nel momento stesso del suo pronunciarsi Jean-Luc già dimistificava intellettualmente, rendendo tutto meravigliosamente più difficile. Di questo cinema prêt-à-porter, invece, rimane la confezione sgargiante, truffaldina, perfino ricattatoria che si lascia guardare fin tanto che il pacco è incartato. Svanita la sorpresa, il sorriso di cortesia si tramuta in malcelata delusione: eppure poco si può fare di fronte al diabolico Frankenstein, il mostruoso ibrido creato da Boyle; la folla armata di fiaccole e forconi non potrà fare a meno di (in)seguirlo, cet obscur objet du désire, mortale eppure voluto, perfino amato. Tutti contenti alla fine: la casalinga frustrata, l'operaio (o la sua trasfigurazione moderno-contemporanea, non importa) desideroso di ricaricare le pile dal lavoro (per tornare al lavoro), il figlio post-moderno di basse speranze. Hollywood (happy) ending reloaded: corsa, incontro abbraccio, bacio con aiuto da casa e 50 e 50 del montaggio alternato.
Le musiche da format al posto dell'orchestra sinfonica mentre il bollywoodiano balletto aggiornato Step up chiude il tutto. Le mani prudono, le lacrime sgorgano facili. Il B(h)ollywood party è finito, il facile intrattenimento assimilato e già digerito, tutti pronti a tornare ligi al proprio posto di lavoro; è tardi, la sveglia richiamerà al dovere tra poco. È l'alba, signori: le jour se léve.
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