Genova, 2001: lo spettacolo della realtà PDF 
Aldo Spiniello   

Ci sono due ‘momenti’, due immagini che, probabilmente, raccontano meglio di ogni altra cosa è stato il G8 di Genova del 2001. Il primo è l’ormai celebre fotografia Reuters che ritrae Carlo Giuliani, il ragazzo ucciso negli scontri di Piazza Alimonda del 20 luglio, con l’estintore in mano a pochi passi dal Defender dei Carabinieri da cui partirà il colpo fatale. Foto scattata con un teleobiettivo che, per forza di cose, schiaccia la prospettiva e riduce la distanza tra il ragazzo e la camionetta, avvalorando, in qualche modo, la tesi della legittima difesa di Mario Placanica (il vero colpevole?). Ecco, l’immagine c’è. Ma è reale? O semplicemente crea un’impressione di realtà, carica di ambiguità e prontamente rimessa in discussione dalle altre prospettive, dai numerosi altri video che si diffonderanno di li a poco? L’immagine ormai arriva sempre, arriva prima (come ci racconta, magnificamente, Unstoppable di Tony Scott). Ma è sempre al posto giusto? O, anticipandolo, modifica il senso delle cose? 

Il secondo momento è il video, diffuso a un anno di distanza dai fatti, che mostra una busta con due bottiglie in mano a funzionari di polizia all’esterno della scuola Diaz. Sono le due bombe Molotov che, secondo la versione ufficiale delle forze dell’ordine, sarebbero state ritrovate nell’arsenale all’interno della scuola. Ma che, in realtà, come poi emergerà dalla deposizione dell’agente Guaglione, erano state rinvenute altrove ed erano state fatte ricomparire a bella posta per giustificare l’irruzione. Ecco, anche qui l’immagine c’è. Ma stavolta contribuisce a illuminare una verità oltre la ricostruzione, la rappresentazione ufficiale. E allora, da che parte sta l’immagine? Possiamo dire da dove proviene, forse, ma risulta difficile capire in quale direzione vada. Oggi più che mai.

Il G8 di Genova, prima, e l’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre, poco dopo, hanno segnato la Storia recente. Dal punto di vista economico, politico, ovviamente. Dal punto di vista dell’immaginario, ancor più ovviamente. Ma sono anche due eventi che hanno inciso radicalmente nel nostro rapporto con le immagini, con l’immenso apparato spettacolare della contemporaneità. E hanno dato il via definitivo a quest’era del 2.0, dove lo spettatore arriva sempre più a coincidere con il produttore, ma dove, allo stesso tempo, il virtuale prende sempre più il posto dell’attuale. È il 2001, l’inizio della fine del mondo (l’altro), dell’era della catastrofe. Il caos.

Non è un caso che Diaz, l’ultimo film di Daniele Vicari, appaia, sin dalle prime scene, quasi un disaster movie, pronto ad aprirsi su the day after tomorrow, uno scenario fantascientifico di devastazioni e post-apocalissi. E la cosa più interessante è che questa devastazione va di pari passo con l’esplosione definitiva delle prospettive, con questa moltiplicazione “incontrollata” dei punti di vista, delle inquadrature, dei supporti, delle linee (di fuoco e di fuga). Poco importa quanto sia immagine di repertorio e quanto, invece, ricostruzione. Perché è il senso dell’operazione che conta. Il merito di riportare, in un colpo solo, il cinema ‘di finzione’ italiano al passo coi tempi, colmando quella distanza, genetica verrebbe da dire, con il documentario e con la lucidità di gran parte del cinema americano post 11 settembre, si esso reale o fantastico, politico e di genere, sempre e comunque capace di ragionare a fondo su questa proliferazione verticale e orizzontale dell’immagine, su questa visibilità piena e assoluta della contemporaneità.

Gli scontri e le tensioni del G8 di Genova, di quei giorni tra il 19 e il 22 luglio, sono quasi completamente tracciati. Ci sono i reportage giornalistici, i documentari sul campo (Le strade di Genova di Davide Ferrario), le immagini riprese dai manifestanti, le testimonianze. E poi le ricostruzioni a posteriori, le inchieste militanti, i Blu Notte lucarelliani, che restituiscono una mappatura degli eventi, una vera e propria cronologia degli avvenimenti. Come quella che fanno la madre di Carlo Giuliani e Francesca Comencini nello splendido, decisivo Carlo Giuliani, ragazzo. Ovviamente, in ogni ricostruzione rimane il peso, canonico, del racconto, della testimonianza verbale. Ma l’immagine non si limita più a far da supporto. Si sovrappone. Si oppone addirittura. E spesso confonde. Perché mette sul campo il problema e le ambiguità di un punto di vista sempre più sfocato, fuori dall’asse, di un’immagine che non risponde più, con necessità stringente, allo sguardo di chi riprende. È come se, in questa proliferazione delle immagini, andasse a monte proprio un’idea di cinema inteso come intervento divino, selezione della porzione di realtà inquadrabile, organizzazione dei corpi nello spazio, definizione di un senso. La casualità dell’immagine prende il posto del determinismo (sempre precario) della ripresa. E, ovviamente, manda all’aria qualsiasi tentativo di un senso precostituito, di una direzione stabilita a tavolino, manovrata da uno sguardo consapevole. Quel mondo inquadrato da mille obbiettivi, che ne restituiscono una parvenza complessa e contraddittoria, sembra, paradossalmente, assomigliare sempre più al mondo reale, con le sue infinite direttrici di movimento, le sue innumerevoli variabili di senso, i suoi sempre rovesciabili rapporti di causa ed effetto.

Diviene, ovviamente, ancor più pressante il problema dell’interpretazione. Come dare compiutezza a quest’esplosione di prospettive, come procedere a una decifrazione coerente? La confusione è massima. Ma è proprio in questo caos, tra le polveri degli scontri, che si affaccia la possibilità di individuare una verità che vada oltre la rappresentazione coscientemente messa in piedi dagli apparati produttivi dominanti. Nasce cioè la speranza di una nuova, decisiva democrazia delle immagini. Come se la società dello spettacolo, così lucidamente vista (e quindi non semplicemente profetizzata) da Debord, venisse in un certo qual modo ridiscussa e ridefinita dalla stessa universalizzazione del progresso tecnico, dalla rivoluzione dei mezzi, dalla diffusione dei dispositivi di ripresa e proiezione. Proletarizzazione delle spettacolo?

S’insinua, tra gli occhi, nei cuori, l’idea, la speranza, forse, di una possibilità dell’immagine di ‘vivere’ di vita propria, di rovesciarsi contro il panopticon della contemporaneità. E se da un lato permane l’ambiguità di un’idea dell’immagine come dato, vero e proprio documento, chiamato a illuminare, chiarire la realtà (e non è un caso che proprio le centinaia di immagini catturate durante gli scontri del G8 avranno un valore probatorio decisivo nei processi che seguiranno al summit), è pur vero che già ci affacciamo in un territorio cinematografico, nella misura in cui il cinema, per dirla con Badiou, è chiamato “a una critica dell’immagine attraverso l’immagine” e a scavare e chiarire, filosoficamente, “la distanza tra il potere e la verità”. Un territorio ancora indistinto, certo, in cui i confini tra il reale e la finzione si smarginano fino a confondersi, a creare delle zone d’ombra. Ma è proprio in questa confusione misteriosa, in questi fuoricampo, che il cinema s’immerge, per innescare la sua rivoluzione. Non solo per decifrare e ricostruire, rimettere in fila i segni, magari con la rabbia di un’appassionata difesa della verità. Ma anche e soprattutto per rovesciare i dati, rimettere in discussione lo stesso potere delle rappresentazioni. Ed è la strada che porta da Diaz di Vicari a Ma 6-T va crack-er di Jean-François Richet.

“Se la trasparenza è il sogno delle utopie storiche, se la generalizzazione del visibile è questo sogno realizzato, allora è urgente rivalutare l’utopia cinematografica in quanto si oppone a questi due sogni. Il cinema sposta il visibile nel tempo e nello spazio. Nasconde e sottrae più di quanto non mostri. Il mantenimento della zona d’ombra è la sua condizione iniziale… le ombre sono la traccia stessa di ciò che non vuole lasciarsi ridurre a programmi e racconti autorizzati” (Jean-Louis Comolli).

 


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