L'uomo nell'ombra PDF 
Piervittorio Vitori   

Il maggior torto che si può fare in sede di analisi all’ultima fatica di Roman Polanski – e sua prima incursione nei territori del thriller contemporaneo ventidue anni dopo Frantic – è probabilmente quello di lasciarsi attrarre più da riferimenti extratestuali dettati dall’attualità che da elementi interni all’opera. Un’attualità che fa capo alla cronaca politica (le pendenze dell’ex leader politico interpretato da Pierce Brosnan richiamano esplicitamente la figura di Tony Blair), alle vicende personali del regista (il cui arresto in Svizzera, a riprese terminate, configura un’analogia irresistibile rispetto alla storia narrata dal film) e persino alla coincidenza distributiva che ha visto il titolo dell’autore franco-polacco uscire in sala contemporaneamente a Shutter Island di Martin Scorsese, con cui condivide, pur a grandi linee, più di un aspetto (il genere, l’ambientazione, persino la scena iniziale, quella dell’attracco di una nave sull’isola su cui si ambienterà gran parte dell’azione).

Una serie di sovrapposizioni, dunque, che come detto rischiano però di far perdere di vista il cuore della pellicola. The Ghost Writer – questo il titolo originale, decisamente più appropriato di quello italiano – è un lavoro che vive di (e gioca con) molte suggestioni diverse tra loro, la cui coesione si basa essenzialmente sull’efficace alchimia creatasi tra il testo di partenza di Robert Harris, The Ghost, e la personalità di cineasta di Polanski. La trama prende l’avvio quando ad un giovane e brillante “negro” viene prospettata, come fosse la gallina dalle uova d’oro, la chance di lavorare alle memorie dell’ex primo ministro britannico Adam Lang. La vicenda inizia a puzzare quando il protagonista viene a sapere che Mike McAra – suo predecessore nel ruolo e collaboratore di lunga data dell’uomo politico – è morto in circostanze poco chiare, e si complica vieppiù quando Lang viene fatto oggetto di un procedimento penale da parte della Corte Internazionale dell’Aja per responsabilità nella consegna di presunti terroristi alla CIA. Il film assume dunque ben presto una struttura canonica da thriller politico: un vantaggio, paradossalmente, per l’estro di Polanski, giacché gli permette di tener ben salda la barra della narrazione pur permettendosi di arricchirla con una buona dose di richiami cinematografici, di motivi e di significati impliciti.

Partendo dai primi, è innegabile l’influenza di Hitchcock, evidente soprattutto nella calcolata costruzione della suspense e nella figura del personaggio principale. La semina di indizi che conducono progressivamente il protagonista in un clima di sospetto e tensione ha inizio fin dalla prima scena, con la scoperta del cadavere di McAra, annegato e portato a riva dalla corrente come quello che caratterizza l’incipit di Frenzy. Successivamente, il percorso di avvicinamento dello scrittore all’oggetto del suo lavoro è punteggiato da marchi d’allarme: l’aggressione londinese, il notiziario all’aeroporto che dà conto dei guai giudiziari dell’ex premier, gli avvisi di polizia, sul traghetto, che richiamano l’attenzione sul mistero che avvolge la fine di McAra. Si giunge quindi all’isola, che si configura come il nucleo dell’opera sia in senso narrativo che dinamico-spaziale: occupa la parte centrale della pellicola, e l’avvicinamento del protagonista è speculare all’allontanamento del finale. Al centro di questo nucleo c’è la casa abitata da Lang, da sua moglie Ruth e dai membri dello staff: uno spazio formalmente chiuso i cui caratteri di freddezza e spigolosità suggeriscono già da soli il meccanismo di paranoia che vi originerà (e qui Polanski sembra rielaborare la lezione della cosiddetta “trilogia dell’appartamento”: Repulsion, Rosemary’s baby e L’inquilino del terzo piano). Una prigione che è più metafisica che concreta: accorgimenti quali l’utilizzo della profondità di campo e la ricorrenza delle ampie vetrate mirano infatti ad annullare ogni soluzione di continuità tra interno ed esterno, sicché il design dell’abitazione finisce con l’essere il riflesso ipermoderno e tecnologico della livida desolazione che caratterizza il paesaggio circostante, costantemente sferzato da vento e pioggia. Una suspense figlia di un sapiente utilizzo delle location tedesche, dunque (valorizzate dalla fotografia di Pawel Edelman), piuttosto che dall’uso – o abuso – di azione.

Il protagonista, dal canto suo, appare come il tipico eroe hitchcockiano: un uomo con tratti brillanti ma tutto sommato ordinario. O che, quantomeno, sente il peso dell’inadeguatezza quando viene messo di fronte ad intrighi decisamente fuori dalla sua portata. Anche le sue motivazioni sono tipiche delle opere del maestro: non certo il senso morale, ma piuttosto una curiosità cui progressivamente si sostituisce l’istinto di sopravvivenza. La figura ottimamente interpretata da Ewan McGregor – attraverso la quale filtra quasi tutta la diegesi – si trova al centro di una dinamica di progressiva sovrapposizione che è l’indice della sua precaria (o mancata) definizione identitaria. Privo di un nome, che lo spettatore non sentirà mai pronunciare per tutto il film, lo scrittore viene ingaggiato al posto di un morto per completare un libro che non firmerà. La sovrapposizione con la figura di McAra, che passa per l’occupazione della sua stanza e l’utilizzo dei suoi abiti (ed ecco che spunta nuovamente L’inquilino del terzo piano …) giungerà fino alle estreme conseguenze. Prima però c’è spazio per il tentativo di una riappropriazione di autonomia, nella scena in cui il protagonista cerca di disfarsi del guardaroba del defunto: è quello il momento, però, in cui troverà gli elementi che lo spingeranno verso la prosecuzione delle indagini che furono dell’altro, e che segneranno il suo destino. La tensione verso un’identità propria lo spinge dunque verso uno stato di vulnerabilità che, fino a quando perdurava la sua condizione “fantasmatica”, pareva ancora evitabile. Significativamente, a breve distanza l’uomo finisce a letto con la moglie di Lang: un’apparente affermazione corporea del sé che col senno di poi, e considerando che è la donna a prendere l’iniziativa, può essere letta come l’anticipazione di un’aggressione successiva.

Diviso tra l’attrazione per l’assistente di Lang (i primi accenni di flirt li ha con lei) e Ruth, tra la lealtà che il lavoro gli imporrebbe e le pressioni dell’ex ministro Rycart, il protagonista rimane comunque un uomo solo. La solitudine e l’isolamento (fisico, emotivo, politico …) sono d’altronde i motivi che caratterizzano tutti i personaggi, e a questi due si lega in un rapporto causale quello del tradimento, che come in ogni buon thriller si spreca. E non è fuori luogo, in questo senso, rilevare l’ottima prova della maggior parte del cast: da un Pierce Brosnan, il cui carisma è opportunamente messo in ombra dall’ingenuità e dalla vanità, all’affascinante e tormentata Olivia Williams, fino al compassato ed ambiguo Tom Wilkinson, uno tra i caratteristi più completi del panorama attuale. Tornando al protagonista, se l’assenza di uno schema relazionale accentua il carattere parziale della sua identità (non ha famiglia né figli, non sa definire l’unica relazione importante del suo passato), è al contempo garanzia di invulnerabilità. Non solo per lui, che solo a partire dal “contatto” con Ruth Lang inizierà ad esporsi, ma anche per i suoi antagonisti, soggetti sfuggenti e scarsamente definiti fino a quando lo scrittore non riesce a collegarli tra loro trovando una logica all’enigma. Una dinamica classica, da puzzle, che qui trova però un elemento cardine in un espediente tecnologico al contempo bizzarro ed originale: il navigatore satellitare dell’automobile che spinge il protagonista sulle tracce del suo predecessore, quasi come se a guidarlo fosse la sua voce dalla tomba (locuzione che, più avanti nel film, viene utilizzata per indicare la biografia di Lang).

L’ironia nera della situazione è solo uno degli esempi di quell’humour di cui il cineasta è maestro e di cui dissemina la pellicola, creando un efficace contrappunto al registro prevalente. E se, come si è visto, la pellicola opera su più livelli – whodunit, thriller/noir politico, dramma esistenziale –, a tenerne le redini concorre anche la scelta di Polanski di una regia asciutta, con la cifra autoriale lasciata alle scene conclusive. Il biglietto che passa di mano in mano (con la soluzione del mistero che è analoga a quella di Rosemary’s baby) e il fuori campo finale (con un’assenza che fa il paio con quella che ha aperto il film) sono l’ultima conferma della personalità di un autore che al cinema potrà – se ne avrà l’opportunità – dare ancora molto.

TITOLO ORIGINALE: The Ghost Writer; REGIA: Roman Polanski; SCENEGGIATURA: Roman Polanski, Robert Harris; FOTOGRAFIA: Pawel Edelman; MONTAGGIO: Hervé de Luze; MUSICA: David Majzlin; PRODUZIONE: Germania/USA; ANNO: 2010; DURATA: 131 min.

 


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