Il ragazzo selvaggio PDF 
Francois Truffaut   

Parlare de Il ragazzo selvaggio equivale a gettare uno sguardo profondo verso le fondamenta della civiltà. Uno sguardo stupito nel rilevare l'artificialità dei rapporti sociali, nel sondare i meandri insicuri delle convenzioni linguistico/comunicative, nel percorrere il terreno minato del senso morale. A guidare il percorso di analisi retrospettiva fa "da lanterna" la luce della ragione, fantasma di eredità illuministica. A reggere il lume un braccio incerto: l'essere umano - ontologicamente sospeso tra il picco divino e la depressione bestiale - è un enigma insolubile. Materia animata, essere "che sente" e cartesianemente "si sente" rampollo dell'intelligenza, unità e tassello sociale. Tutte fandonie? Il ragazzo selvaggio di Aveyron è un monolito kubrickiano scagliato contro l'autocoscienza rassicurante dell'antropocentrismo di stampo umanistico. Macchiato dal segno dell'appartenenza civile - il nome(1), boia della condanna all'identificazione e all'arresto del flusso vitale in favore dell'immobilità funebre e posticcia dell'ordine sociale - il futuro Viktor, essere puro (selvaggio rosseauiano?) è un colossale punto di domanda, un quesito posto all'umanità. Una sfida, uno schiaffo, uno sberleffo e una pernacchia al potere tutto positivo della ragione.

Dinanzi all'annullamento di qualsiasi caratteristica dell' "essere-umani", ad un corpo ancora bagnato dalla placenta atavica, al silenzio duro e solido di un essere che non conosce l'uso del linguaggio, alla negazione dell'estetica borghese in favore della nudità edenica, alla tabula rasa del sentire il bene o il male, il gioco è pericoloso. Victor, dado impazzito lanciato con noncuranza dalla mano del caso/destino, roulette vorticante ed ipnotica, è lo scacco in agguato dietro il muro spesso di millenni del pensiero razionale. Solo un grande regista poteva cimentarsi con la materia dell'Universale, tra le scintille dello stridere di natura e cultura.

Così Truffaut si mette per la strada di cui la "Francia patria" ha segnato il primato, informando la Storia alla sua riflessione. Lo fa con un coraggio e una perizia unici. Trasforma la fredda mano della scienza, il tocco algido e il brivido dei teoremi e degli assiomi in passione e poesia. Fa dell'educazione la nuova fede dell'uomo, e contemporaneamente rende il cinema schermo di vita, specchio di palpiti e sentimenti. Nel contegno cauto e misurato dell'istitutore (lo stesso Truffaut) di Victor c'è tutta l'umiltà e la testarda curiosità di un popolo umano che cerca le origini della propria natura, il barlume dell'essenza. Oltre l'apparenza del resoconto scientifico si trova la gioia di ogni piccolo progresso, che riesce appena ad arginare l'angoscia dell'uomo posto davanti alla propria "esistenza", all'intollerabilità sartriana dell'essere "di troppo", gratuitamente e dolorosamente.

Nelle mani del Dr. Itard, Victor, materia oscura e scottante, si stempera - non senza irrequietezze e ribellioni - in una pasta malleabile e porosa, pronta ad assorbire, in piccole, piccolissime dosi, la linfa dell'insegnamento. La straordinaria interpretazione del giovinetto J.P. Cargol è un canto lieve e delicato alle grazie naturali, una costante dichiarazione d'amore al mondo degli alberi e dei pendii erbosi scrutati dalla finestra o solcati con scimmiesco molleggio durante le frequenti passeggiate. È una sconvolgente, struggente "passione semplice" per ciò che è primario e primordiale, animale ed anima-le(2): l'acqua e il latte, che il nostro sorbisce con il fare beato di un infante. Victor è sì un "miracolo sfacciato" e un arcano insondabile, ma porta altresì impressa nel suo fare e nel suo essere quella metà dell'identità umana che irrimediabilmente è andata smarrita. Pensiamo al richiamo materno, al legame alla terra e all'origine che splende nel fondo di ogni tazza di latte; alla purezza e alla disponibilità, all'apertura al cambiamento - eterno - che scorre nell'acqua versata in ogni bicchiere. Victor ne riceve in premio un sorso quando completa correttamente un esercizio. A ben vedere il liquido basilare, oggi rinchiuso nello stereotipo tutto pubblicitario di purezza-e-bellezza, è il suo sangue. Sangue trasparente, sete divina sono le (mute) risposte del piccolo selvaggio alla frastornante, anche se edificante, esperienza della civiltà.

Osservare l'apprendimento dell'ex-selvaggio è come ripercorrere prodigiosamente le tappe dell' "essere al mondo" di ognuno di noi: dal rivestimento del corpo nella sua eterna crisalide di tessuto, all'approccio fondamentale con la comunicazione. Linguaggio iconico e verbale si oppongono e si compenetrano sulle lavagne sottoposte a Victor (e sul nostro schermo domestico), e siamo anche noi riportati a fare l'esperienza dei segni. Dietro ogni pettine, libro, martello o piuma - oggetti che il nostro candidamente identifica con la loro rappresentazione grafica e con la loro trascrizione alfabetica - c'è il mistero del torbido rapporto referente/significante. Una delle bugie più grandi che l'uomo si sia raccontato e che il piccolo discente, puro ed incontaminato com'è, sulle prime, non sa tollerare. Ancora, assistiamo al progressivo disegnarsi delle dinamiche sociali: dalla spettacolarizzazione del corpo vissuta per le vie di Parigi all'emarginazione come "più freak tra i freak", contatto del diverso extra-sociale col diverso sociale e stigmatizzato nella casa per piccoli sordomuti, alla creazione di un novello nucleo familiare presso la tenuta del generoso professore. Toccanti e di profondità aliena alla tattilità isterilita dei rapporti quotidiani sono le scene in cui Victor guida la mano del prossimo verso il suo capo e vi traccia, in una astratta geometria emozionale, il segno fertile e genuino del suo affetto. La prima vera formulazione verbale del nostro (la parola "lait", latte) è, da notare, scritta. Parimenti, perchè l'intreccio si snodi nelle sue fasi successive, è il diario/relazione di Itard a fare da raccordo, mentre la voce off del medico ne legge in simultanea la parola scritta. Forse che Truffaut intenda suggerirci, con la consueta eleganza e delicatezza, il primato dello scritto sul verbo parlato? O forse presenta il secondo come un frutto ragionato e maturato del primo, come esperienza fatta di sudore e d'inchiostro, non più mera modulazione sonora che porta al naufragio il significato?

È d'obbligo, prima di concludere, la comparazione con l'herzoghiano L'Enigma di Kaspar Hauser. Interpretato da un Bruno S. che perfettamente incarna lo spaesamento di un essere davvero gettato nell'arena sociale, il film sembra essere la dolorosa e disillusa antitesi de L'enfant sauvage. Ad una diversa forma di estraneità al corpo civile - Kaspar é tenuto prigioniero in un antro oscuro sino all'età adulta - corrispondono entità diverse e fisicamente connotate in modo simbolico: l'agilità ferina di Victor, le sue membra ossute e la pelle segnata dal contatto con l'Altro, (ambiente o animale che sia) hanno un goffo e mesto termine di paragone nell'ottusità sgraziata del corpo del recluso, segnato dalle piaghe da decupito e mutilato nella vista viziata dall'oscurità perenne. L'educazione di Kaspar segue un percorso inevitabilmente simile a quello dell'alter-ego, ma Herzog privilegia la dimensione onirico-immaginifica dell'evoluzione del reietto, conferendogli una statura poetica/profetica ineguagliabile nel reame della normalità e della conformità. Lo straordinario Kaspar apre gli occhi alla vita abbracciando sogno e realtà, si appropria di sé stesso e del mondo mai conosciuto; l'impatto con ciò che prima era occulto lo porta alla trasmutazione dell'apparenza, alla scoperta di nuovi territori nella trita uniformità che l'uomo incolla al mondo dandolo per scontato. Novello fanciullo pascoliano, Kaspar è l'inconsapevole prodigio di una sensibilità superiore fiorita sulla brulla wasteland della banalità obbligata; l'esteriorizzazione, la manifestazione, l'epifania di un sentire dimenticato. Ma per quel bambino che mette gli occhi increduli sul mondo non c'è posto: sarà la morte la sua prossima scoperta. È quindi un contrasto violento e sanguinoso quello tra la razionalità illuministica di Truffaut ed il nichilismo senza riscatto - eppure venato di malinconia e mesto senso di sconfitta - del grande Herzog.

Per Victor, come recita Itard nel finale (aperto), c'è ancora molto da fare. E se l'ellissi narrativa ci impedisce di conoscere il futuro dell'affezionato protagonista, Truffaut ci chiede un atto di fede. E con fede, lo seguiremo.

note:
(1) Tema squisitamente pirandelliano. Si veda ad esempio la pièce autobiografica "Quando si è qualcuno" (1933). Il protagonista é graficamente segnalato con ***, ad indicare il conflitto insanabile tra il "qualcuno" che si è per lo sguardo meduseo dell'altro ed il "nessuno" che anarchicamente si aspira ad essere, per preservarsi dalla fissazione letale della forma.
(2) Licenza per "dell'anima, riguardante l'anima"

 


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