Molto spesso i film "di nicchia", non molto pubblicizzati, relegati a striminziti trafiletti, privi di nomi altisonanti nel cast e distribuiti in maniera assai intermittente, risultano avere una vitalità ben maggiore rispetto a opere declamate con largo anticipo e, infine, sovente deludenti.
L'imbalsamatore appartiene a questo nucleo guerrigliero di film prodotti a basso costo (ma dietro c'è "Re Mida" Procacci e la sua Fandango), usciti in sordina ma densi di contenuti.
Trama: un imbalsamatore - o tassidermista, come ama definirsi il protagonista - ai confini del nanismo, fa amicizia con un giovane dalla notevole statura. Quest'ultimo viene iniziato al mestiere dal primo e nasce una solida amicizia (per conto del piccolo Peppino Profeta anche qualcosa di più), che entra in crisi con l'arrivo in scena di una ragazza.
Matteo Garrone, qui al suo miglior film - si vedano i suoi Terra di mezzo, Ospiti ed Estate romana - si cala in una realtà fondamentalmente squallida, sia toponomasticamente (siamo in una zona negletta del casertano) che umanamente (Peppino è "sotto schiaffo" rispetto a un camorrista da quattro soldi e organizza festini con donne prezzolate, Valerio è più ortodosso ma si lascia sopraffare da chiunque abbia intorno a sé, ora Peppino, ora la ragazza).
Da buon lungometraggio campano, L'imbalsamatore oscilla pericolosamente tra le due principali caratteristiche tematiche della cultura partenopea: la tragedia e la commedia. Lungo tutto lo svolgimento si accavallano costanti sensazioni di rilassamento, immediatamente contraddette da frasi, sguardi, atti. Come una sempiterna minaccia subliminale che genera tensione.
Ma questo dramma, con squarci da thriller, è soprattutto un'opera sulla solitudine e sul potere del denaro. Il protagonista (un ottimo Ernesto Mahieux, versione italica di Danny DeVito) è un uomo relegato all'isolamento. Tutto questo per due motivi: l'aspetto estetico che indubbiamente lo marchia, il tipo di lavoro che svolge, prossimo a quello di un becchino. Dichiara di essere pieno di "femmene" da tutte le parti, ma quelle che incontra sono rigorosamente a pagamento, afferma di essere circondato da amici ma non se ne vede mai uno (non lo è di certo il boss della mala), dice di amare la propria attività ma propone di scappare all'estero.
Valerio, l'amico che è il suo esatto opposto - aitante, introverso, infedele - lo compensa, facendo nascere in Peppino sogni di eterno rapporto affettivo (il regista non è del tutto esplicito a proposito). Dal canto suo, Peppino stesso "compra" l'amicizia del giovane lusingandolo mediante uno stipendio soddisfacente, aiutandolo e ospitandolo, mettendolo di fatto in una posizione di debito morale nei suoi confronti.
Lo script è di Garrone, Massimo Gaudioso e Ugo Chiti, noto per Il barbiere di Rio e La seconda moglie. Le musiche sono, come di consueto per i lungometraggi del cineasta, della (una volta nota) Banda Osiris.
In sostanza: Garrone tratteggia una vicenda triste sotto ogni aspetto e cerca di spiegare come la morbosità dei rapporti possa divenire maniacalità. Una pellicola piccola come il suo protagonista ma di grande intelligenza, intrisa della musicalità dialettale campana, ma lontana dallo stereotipo solare e casinista che spesso viene attribuito a quella regione. Torvo.
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