Dillinger è morto e La grande abbuffata PDF 
di Domiziano Pontone   

Volendo stabilire un'ipotetica classifica (necessariamente soggettiva, talora oggettiva, forse, come in questo caso) dei migliori lungometraggi di Marco Ferreri, Dillinger è morto e La grande abbuffata rappresenterebbero assai probabilmente il vertice della poetica (nel senso greco di poièsis, ovvero creazione, più che sotto il profilo dell'elegia) del corrosivo autore milanese.

 

Aldilà delle corrispondenze relative al periodo di realizzazione, del 1969 il primo, del 1973 il secondo, della coincidenza del protagonista, Michel Piccoli, e del riutilizzo di un membro importante del cast tecnico, il direttore della fotografia Mario Vulpiani, i due capolavori di Ferreri hanno un evidente fil rouge che li accomuna da un punto di vista contenutistico.

Si tratta della triade ossessiva fondante il cinema del Nostro: il rapporto stretto tra eros, thanatos e trophè, vale a dire, tra amore, morte e cibo. Per dirla in una parola sola, oltretutto rappresentativa di un altro film (non memorabile se non per le grazie della Dellera): La carne. Quella "carne" che in inglese si leggerebbe "flesh". Una carne che identifica il contatto sessuale tra due corpi (eros), la natura fisica – destinata a consumarsi – della materia che plasma l'essere umano (thanatos) e il mezzo di sostentamento alimentare tout court (trophè).

Nel travagliato cammino che ha condotto Ferreri a divenire un disilluso cultore della fuga dalla normale quotidianità e un convinto assertore del meccanicismo come unico mezzo di interpretazione della realtà, i tre elementi succitati hanno rappresentato i grimaldelli utilizzati per scardinare le convenzioni. Avvalendosi di parti usuali della quotidianità (ogni giorno qualcuno amoreggia, muore o si nutre) il cineasta ha costruito un apparato distruttivo che mina le certezze borghesi dal di dentro. Non vi sono fattori esogeni dell'esistenza "normale" che mutano il quadro delle cose: la decostruzione della società parte, per Ferreri, dai componenti endogeni della vita comune.

Questo è il motivo per il quale il cinema dell'autore lombardo è punzecchiante e talora scomodo. Si tratta di una visione che accumula implosioni, non esplosioni. Quando il "travet" di Dillinger è morto decide di sparare alla moglie, lo stupore non ci assale più, perché l'alienazione della sua vita, raccontataci con uno squarcio desolante, già è deflagrante di suo. Avrebbe potuto suicidarsi, ma la sostanza non sarebbe cambiata. Le morti progressive de La grande abbuffata non sono fulmini a ciel sereno, ma la quieta, direi quasi rassicurante, fine di un percorso obbligato. Se quattro uomini arrivano a quel punto, la morte risulta essere logica. La vera sorpresa è la vicenda in sé, non il capitolare del quartetto.

Dunque la morte come conseguenza naturale e preventivabile del distacco dalla realtà, un elemento che accomuna i protagonisti del film presi in considerazione. Thanatos come tappa, non come traguardo, del racconto.
Il sesso appartiene anch'esso alla prassi e, come la morte e il cibo, segna la cifra della bassezza dei personaggi narrati da Ferreri. Piccoli, in Dillinger è morto, insidia la servente Annie Girardot, pur avendo in casa una moglie avvenente come Anita Pallenberg. Il quartetto di amiconi de La grande abbuffata prova a godersela con delle prostitute e infine si spartisce la gioconda e materna maestra. Non c'è gioia nella sessualità, c'è meccanica, necessità fisica. Null'altro. Eros come penetrazione del vuoto del quotidiano e come palliativo del "male di esistere" tanto sartrianamente in voga in quei tempi.
Ultimo scalpello di cui si avvale Ferreri per sfrondare i costumi conservatori è il cibo.

Il filmmaker, col passare degli anni, diviene sempre più un nichilista – materialista. Non è dunque un azzardo accostare al Nostro la considerazione filosofica del pensatore tedesco ottocentesco Feuerbach, il quale sosteneva che "l'uomo è un tubo-digerente" ovvero che "l'uomo è ciò che mangia". Punta inarrivabile della sdivinizzazione della realtà, non poteva essere ignota al regista milanese.

L'importanza attribuita al cibo si trasforma quindi in un discorso più complesso che vede la nutrizione come prolungamento dell'essere umano. Il protagonista di Dillinger è morto passa lunghi minuti a prepararsi manicaretti, ma è come se ricreasse se stesso. La pazienza e la precisione con cui s'impegna nell'approntare il pasto è quella di chi ricompone un qualcosa di sé che si è perso. Una sorta di materialismo della vivanda.
La grande abbuffata va addirittura oltre, a partire dal titolo. Già l'idea di abbuffarsi richiama alla memoria un uso del cibo che travalica il suo significato di mera nutrizione, per divenire un rito pagano di riempimento. Il fatto, aggiunto, che l'abbuffata succitata sia "grande" conferma le proporzioni surreali dell'alimentazione. I quattro amici mangiano sino a esplodere, s'ingozzano come per riprodursi in loro stessi, sempre secondo la dottrina feuerbachiana dell'uomo trasfigurato in ciò che divora.
Visto in questo modo, il cibo – trophè diviene l'ennesimo veicolo polemico dell'autore lombardo, una nuova chiave di lettura dell'immanenza irrefutabile dell'essere umano. Un parere che può essere condiviso oppure no, ma che trova un inquietante, acuto e disturbante sacerdote nel Marco Ferreri quarantenne.

 


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