L'uomo di marmo PDF 
Fabio Fulfaro   

Con L'uomo di marmo si torna agli anni Cinquanta, sui quali i giovani si stanno interrogando. Vogliono sapere perché sono spariti dalla storia polacca, perché li hanno accantonati chiamandoli con termine schematico 'anni di errori e di cadute'. Invece è stato un momento molto importante nella nostra storia: da un lato si producevano le delusioni, dall'altro si gettavano le basi dell'industrializzazione, senza la quale il nostro paese non poteva fare nessun passo avanti. Gli anni Cinquanta sono un miscuglio di cose positive e negative, di fallimenti e successi. I giovani volevano conoscere la storia dei loro genitori.
Andrzej Wajda

Il cinema è stato spesso il mezzo che ha consentito di fare luce su importanti questioni politiche e sociali, cercando di dare una visione obiettiva della realtà, senza le contaminazioni propagandistiche del sistema di potere o la ambiguità morale che prelude al compromesso. Andrzej Wajda è uno di quei registi di marmo che non si è mai piegato alla ragion di stato e non si è mai spaventato di guardare in faccia la verità per cercare di testimoniare e denunciare i crimini e i misfatti che hanno macchiato la storia del suo Paese, la Polonia. Negli anni Cinquanta in Polonia era al potere la nomenklatura filo stalinista con un regime totalitario (capeggiato da August Zaleski), una sorta di stato proletario deformato che pretendeva di assorbire in sé la totalità delle manifestazioni di tutti i cittadini. Molti socialisti e socialdemocratici si sono sempre opposti politicamente agli stati socialisti storici, considerandoli come una distorsione o un rifiuto dei valori originari. Questi esempi di degenerazione del socialismo reale vennero ampiamente criticati all'interno della sinistra: Lev Trotsky e tutta la sua corrente criticarono aspramente questa tipologia di regimi dell'Europa orientale. L'uomo di marmo esce nel 1977 e rappresenta davvero una rivoluzione artistica per quei tempi: Wajda squarcia il velo delle ipocrisie e delle versioni mitologiche e mostra le contraddizioni e le ambiguità di uno dei periodi più controversi della storia polacca, quello della ricostruzione post Seconda Guerra Mondiale e della rivoluzione industriale (la nascita delle prime acciaierie), istituendo un vero e proprio processo allo stalinismo e alla sua fabbrica di miti e false verità.

Nel 1977, l'intervento personale di Gierek, presidente con istanze più liberali rispetto ai suoi predecessori, riuscì a fare circolare il film sugli schermi polacchi e in Europa. Il periodo storico era molto delicato (si era all'indomani degli scioperi di Radom e di Ursus), e ci si rendeva conto che un'eventuale censura al film avrebbe indicato un futuro davvero incerto per la Polonia. Invece il film ebbe via libera (ma con un taglio importante nel finale, quello riguardante il luogo e le circostanze della morte del protagonista), e riscosse un successo sia in patria che a Cannes, nel 1978, dove vinse il premio della stampa internazionale. L' “uomo di marmo” è Mateusz Birkut, un manovale d'origine contadina che nei primi anni Cinquanta aiuta a costruire Nowa Huta, un centro industriale vicino a Cracovia. Venticinque anni più tardi, nella Varsavia di oggi, la giovane cineasta Agnieszka, ribelle e testarda quanto basta, vuole rievocarne la vita in un film che è anche la sua tesi di diploma alla scuola di regia. L'innamoramento di Agnieszka per la figura di Birkut inizia negli scantinati del museo nazionale, dove ne scopre la statua polverosa e la riprende cavalcioni su essa, in un gesto sfrontato e intimo. Birkut incarna l'ottimismo della volontà della classe proletaria, che crede veramente che il proprio singolo sforzo, sommato a quello degli altri lavoratori, possa portare il benessere nella società. Birkut costruisce mattone su mattone quella ingenua speranza che una casa possa essere alla portata di tutti, anche dei più poveri. Lascia perdere le proprie ambizioni carrieristiche e si dona anima e corpo alla causa del partito. Naturalmente un puro di cuore come lui è subito strumentalizzato dal sistema: diventa l'emblema dell'operaio stakanovista che in maniera indefessa dona il sudore e la sua forza fisica (immortalata in una statua imponente o celebrata nel record di 30.000 mattoni in un solo turno di lavoro) al proprio paese. Viene portato in giro come una celebrità, manovrato come un burattino, fino a quando un suo collega di lavoro, Witek, viene ingiustamente accusato di sabotaggio. Per quel senso di giustizia che è innato dentro di lui, Birkut prende le difese del collega innocente, e finisce in carcere per quattro anni. Liberato nell'ottobre del 1956 (col ritorno al potere di Gomulka), ritorna ad essere acclamato come un tempo: ma si rende conto che tutto il sistema è marcio, i suoi ex compagni sono tutti venduti o diventati anche loro funzionari del potere (Witek è anche esso un gerarca), la moglie è fuggita con un arricchito, tutti i suoi sogni di eguaglianza si sono sbriciolati nel cinismo e nella collusione con il potere. Il senso di estraneità di Birkut ben si coglie nella scena del comizio, quando invitato a parlare non riesce che a esprimere, con malcelata delusione, la voglia di andare via e di non essere complice di questo obbrobrio politico. Una sorta di cognizione del dolore che lo porta all'isolamento e alla fuga dalla realtà.

Nella sceneggiatura scritta da Aleksander Scibor-Rylski si crea un forte parallelismo tra la figura della regista e quella di Birkut, come se lo stesso furore rivoluzionario li accomunasse in un destino di solitudine. La bella Agnieszka (interpretata dall'esordiente Krystyna Janda) parte baldanzosa, a gambe larghe e sigaretta in bocca, con macchina a mano e trucchi del mestiere per catturare un'intervista, ma, tra registi imborghesiti, neocapitalisti in elicottero e mogli depresse per scelte di vita sbagliate, presto si ritrova con un film bocciato dai suoi produttori e una crisi di coscienza fortissima. La necessità della verità e la coerenza nel proprio mestiere risultano inconciliabili con la propria sopravvivenza psichica. La vicenda personale di Birkut, tristemente rappresentata da quella gigantesca immagine, rimossa molto rapidamente dopo il rovescio di fortuna, ricorda alla regista il triste destino dei sognatori che pretendono di cambiare il mondo e che finiscono per pagare sulla propria pelle tutte le contraddizioni del sistema. Proprio nel momento di più grande scoramento, la comparsa della figura paterna e la sua esortazione a continuare per la propria strada, permettono a Agnieszka di rialzare la testa e tirare dritto.

Nonostante la chiara influenza di Quarto Potere di Orson Welles, con il ricorso a documentari storici e ad interviste per ricostruire la figura dell' "uomo di marmo", Wajda abbandona le profondità di campo e le acrobazie del montaggio e si lancia in un pedinamento serrato con camera molto mobile che riflette l'urgenza, la frenesia nella ricerca della verità. E alla fine dell'inchiesta tutti questi fantasmi del passato sono dei colossi dai piedi d'argilla, statue di marmo che il tempo ha frammentato e coperto di polvere, come nella bellissima scena al museo nazionale di Varsavia. Rivisto dopo così tanto tempo, il film ha una prima parte appassionante, nella descrizione puzzle dopo puzzle della controversa personalità di Birkut, tra aneddoti della sua ascesa sociale e prime crepe nella monolitica figura. Poi però perde un po' della sua forza comunicativa proprio quando cerca di scendere nel privato di questo eroe stakanovista, alle prese con spie di partito modello “Grande Fratello” e quadretti familiari in cui la figura della moglie risulta molto monocorde, in linea con la staticità marmorea delle statue della nomenklatura socialista. Il film perde un po' per strada la forza della testimonianza e il rigore morale della denuncia civile, ma rimane comunque uno degli esiti più felici della filmografia dell'autore polacco, un regista che non “incolla pellicole”, che non usa solo le mani ma anche la testa, in precario equilibrio tra il pessimismo della ragione e l'ottimismo della volontà.

Wajda conclude il film con un raggio di speranza: il figlio di Birkut, operaio ai cantieri navali di Danzica, prende in mano il testimone del padre e accompagna la regista nei lunghi corridoi della riscossa. E proprio da Danzica e dai suoi cantieri navali partirà il movimento Solidarnosc di Lech Walesa (celebrato da Wajda nel successivo L'uomo di ferro) che, dopo una decina di anni, porterà all'abbattimento del muro di Berlino e al primo governo di impronta liberale nell'Europa dell'Est. Nella scena tagliata dalla censura, la donna trovava la tomba del suo eroe, e scopriva che Birkut era scomparso a Danzica nel 1970, durante le lotte tra polizia e operai. Ossia, il contadino Birkut (che sapeva solo “lavorare la terra”) prendeva coscienza della sua condizione di proletario e combatteva la sua lotta di classe, fino alla morte, senza scendere ad alcun compromesso. C'è bisogno del sacrificio di qualcuno per il bene di tutti. E perchè il sole dell'avvenire splenda ancora sulla terra è necessario che folli come Birkut aprano nuove strade. Poi i “saggi” le percorrono.

Però la storia non si ferma davvero davanti a un portone, la storia entra dentro le stanze, le brucia, la storia dà torto e dà ragione. La storia siamo noi, siamo noi che scriviamo le lettere, siamo noi che abbiamo tutto da vincere, tutto da perdere. E poi la gente, (perchè è la gente che fa la storia) quando si tratta di scegliere e di andare, te la ritrovi tutta con gli occhi aperti, che sanno benissimo cosa fare. Quelli che hanno letto milioni di libri e quelli che non sanno nemmeno parlare, ed è per questo che la storia dà i brividi, perchè nessuno la può fermare.
da La Storia di Francesco De Gregori

TITOLO ORIGINALE: Czlowiek z marmuru; REGIA: Andrzej Wajda; SCENEGGIATURA: Aleksander Scibor-Rylski; FOTOGRAFIA: Edward Klosinski; MONTAGGIO: Halina Prugar-Ketling; MUSICA: Andrzej Korzynski; PRODUZIONE: Polonia; ANNO: 1977; DURATA: 165 min.

 


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