E venne il giorno PDF 
Fabio Fulfaro   

ImageÈ in atto in Shyamalan un evidente processo di evoluzione-involuzione che lo sta traghettando verso lidi meno favolistici e più amaramente cinici. Come se il bambino regista fosse cresciuto e avesse visto il proprio sogno svanire. Lady in the Water era un disperato tentativo di riaffermare il potere della speranza su una realtà misera e deludente, attraverso una ninfa acquatica che portava su di sé tutti i peccati del mondo e rendeva possibile un percorso di redenzione. E venne il giorno, nonostante l’apparente happy end tipicamente hollywoodiano, mostra evidenti segni di malinconica disillusione. L’umanità rappresentata dal regista indiano assume i connotati grotteschi degli “hollow men” di Thomas Stearn Eliot: uomini vuoti, privati di ogni carica vitale, fragilissimi (breakable, facilmente disarticolabili), immobilizzati nell’alienazione e nel rancoroso isolamento, con un progressivo miglioramento tecnologico inversamente proporzionale alle capacità di entrare in empatia con il prossimo (high tech, low touch). Non serve più la fede, il sesto senso, la forza di volontà di un amore che ci porta fuori dai confini del villaggio per trovare la medicina curativa. Qui anche l’amore, soffocato tra silenzi e furtivi sms, sembra un palliativo, un rimandare di qualche mese l’Evento (The Happening), ossia l’autosoppressione della razza umana.

Se proviamo ad analizzare questo film sulla base dei dialoghi e della sceneggiatura, della verosimiglianza e della prova degli attori, non possiamo che sollevare, in maniera dimessa, bandiera bianca. Ma tutti i film di Shyamalan devono essere approcciati come cinema allo stato puro, nel quale la storia (in questo caso l’improvvisa epidemia di suicidi per una causa misteriosa nel Nord Est degli USA) diviene il pretesto per potere affermare l’impotenza dell’autore a rappresentare la realtà e a limitare gli effetti del Male. Così, il discorso di Shyamalan diventa prettamente metacinemtografico e fa il paio con la destrutturazione del genere noir operata da Brian De Palma nella sua Black Dahlia o all’abolizione della stessa struttura narrativa nell’Inland Empire di David Lynch. Come il critico cinematografico (sig. Farber) di Lady in the Water, Shyamalan ribadisce l’impotenza del mezzo cinematografico a tirar via il velo di Maya che sembra occultare la realtà. Non si possono più raccontare nuove storie. Non abbiamo più niente da dire, ma lo dobbiamo dire lo stesso. Questa dicotomia è alla base delle evidenti incongruenze del film.

Prima sembrava che si potesse cambiare il mondo, adesso sembra che il mondo abbia cambiato noi. Shyamalan comincia a perdere quella fiducia incrollabile nella fede, evita la solita comparsata (stavolta è una semplice voce al telefono, Joey, l’amico della moglie di Elliott), punta la macchina da presa sulla Natura maligna, quasi a volerne sentire la voce. A volte sembra procedere sulle vie  del cinema sperimentale, altre volte affoga la sceneggiatura (che è sempre di suo pugno) nell’irrazionale, quasi con intento provocatorio. Fa restare insieme a forza i due protagonisti e la bambina (con un espediente alla Beautiful) come se si stesse spaventando dei suoi pensieri malinconici ed amari, come se non volesse ammettere che dalle sue opere sono improvvisamente spariti tutti i colori e il mondo sembra uno scenario arido in bianco e nero. Al contrario, i momenti migliori del film sono proprio quelli in cui il trentottenne regista indiano si sofferma ad esplorare gli aspetti naturali con un occhio poco occidentale e con un tono diametralmente opposto ai panteismi intimistici di Terrence Malick. Le nuvole che mutano forma velocemente (come quelle di Gus Van Sant nel suo My Own Private Idaho), il vento che sferza prati, campi di grano, alberi: la sensazione di agorafobia che rende gli spazi aperti minacciosamente claustrofobici, come se il regista si trovasse nei territori mefistofelici di Twin Peaks, e scoprisse sotto il virginale manto erboso il brulicare afinalistico di tanti orridi insetti. Certe intuizioni registiche, poi, sono davvero strabilianti e rese ancora più efficaci dalla fotografia di Fujimoto: l’immagine dei muratori che si lanciano ad uno a uno nel vuoto, il passaggio della pistola di mano in mano con un rivolo di sangue che unisce il lungo piano sequenza, l’improvvisa apparizione di impiccati (un ricordo de Il sesto senso), il soggiorno nella casa di Barbie con fake plastic trees interrogati da un Mark Wahlberg lucidamente autoironico, il finale che ribalta la melassa della ricongiunzione familiare con una cupa immagine di morte. A fronte di queste indubbie capacità visionarie, Shyamalan inciampa nell’orrida falsità di certi dialoghi, che sembrano provenire direttamente dai romanzi stile Harmony, e in più si abbandona a qualche eccesso splatter (l’uomo sbranato dai felini allo zoo, le fucilate in testa a bruciapelo) che non aggiunge nulla all’economia dell’opera. Per non parlare del prevedibilissimo test di gravidanza che tende a riformare la Sacra Famiglia distrutta dalla apocalisse suicida.

Shyamalan dice di essersi ispirato a Hitchcock (Gli Uccelli) e a L’invasione degli ultracorpi: in realtà della tensione hitchcockiana rimane un solo baluginante riflesso, quella visita all’anziana paranoica eremita che sembra richiamare direttamente le atmosfere di Psycho. E venne il giorno sembra più un compromesso a metà strada tra La guerra dei mondi di Spielberg (con Tim Robbins al posto della vegliarda) e Zombie di George A Romero, con una particolare nota di disillusione sul futuro dell’umanità e una tendenza alla semplificazione dei simboli che abbiamo già notato in un altro film del filone apocalittico, I figli degli uomini di Alfonso Cuaron. Anche la scena metaforica dei due protagonisti che parlano da stanze lontane attraverso tubi comunicanti ha diversi precedenti illustri (uno per tutti Mastroianni e Aimeeè nella villa dei fantasmi de La dolce vita). L’essenziale è invisibile agli occhi e l’uomo moderno sembra avere perso la capacità di penetrare nel senso più profondo delle cose, fermandosi invece alla superficie: pensiamo a quanto è grosso il nostro naso e nel frattempo la natura porta i segni delle nostre violenze con mutazioni climatiche e scomparsa di specie animali (le api). Il richiamo alla razionalità del professore Wahlberg, che cerca di istillare negli allievi il principio del metodo sperimentale galileiano, si scontra con l’assurdità dei comportamenti durante una situazione di emergenza, con l’istinto di sopravvivenza che si tramuta presto in violenze gratuite e in deliri paranoici modello post 11 settembre.

L’assunto finale è che è irrazionale aspettarsi che l’uomo sia razionale, e che non c’è salvezza né dentro il recinto domestico, né negli “interminati” spazi al di là della siepe, né nelle case di plastica, né nei campi di grano. Come se il carattere umano, insinuandosi nella natura e nelle cose inanimate, le contaminasse e le portasse a consunzione. Signs of the times.

TITOLO ORIGINALE: The Happening; REGIA: M. Night Shyamalan; SCENEGGIATURA: M. Night Shyamalan; FOTOGRAFIA: Tak Fujimoto; MONTAGGIO: Conrad Buff IV; MUSICA: James Newton Howard; PRODUZIONE: USA/India; ANNO: 2008; DURATA: 91 min.

 


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