Cosa sono i campi lunghi? Citazioni, riferimenti e modelli nel cinema di Jane Campion PDF 
Rosario Sparti   

Il cinema di Jane Campion si caratterizza per l’originalità e la versatilità della regista, insieme ad una grande capacità di scrittura al femminile, che hanno contribuito a catapultarla sin da subito nell’Olimpo dei grandi del cinema. La regista neozelandese ha saputo nell’arco della sua carriera, trovando un suo stile personale che non si rifà strettamente a nessuno, spaziare dal thriller al film in costume, dalla commedia al dramma, dal cortometraggio al film per la tv, senza mai snaturarsi né addolcirsi per accontantare mecenati o platee. Agli esordi della carriera il suo nome è stato accostato a vari registi ma sempre con difficoltà si sono potute rintracciare delle parentele, difficoltà supportata dal passato scarsamente cinefilo della regista; lei stessa però più volte è venuta in aiuto della critica rivelando alcuni suoi amori cinematografici, inserendo piccole “citazioni” nei film o più semplicemente lasciando libera la fantasia degli studiosi.

Il rapporto tra la Campion ed il mondo del cinema non è un rapporto citazionistico, di “furto” ad un immaginario di celluloide ma che semplicemente favorisce, seppur mai confessato in maniera deliberata, un legame a fonti ispirative che confluiscono alla formazione d’uno stile proprio. Siamo ben lontani dalla lucida volontà decostruttiva di Godard, dallo spirito “pop” di Tarantino, dalla fame di cinema di Scorsese, l’ossessione cinematografica di Kubrick e ancor di più dalla passione sensuale di Truffaut per la settima arte. Il cinema per la regista neozelandese non è altro che la somma degli studi della sua giovinezza: l’antropologia e la pittura; la sua totale ignoranza in linguaggio cinematografico è confermata da un divertente aneddoto che lei stessa racconta a proposito del suo primo cortometraggio: “ […] Ne ero tanto orgogliosa da mostrarlo a tutti, finchè un amico mi fece notare che mancava di campi lunghi. “Cosa sono i campi lunghi?”, domandai incuriosita”. Quest’atteggiamento da neofita e la passata esperienza nel mondo dell’arte avvicina la regista ad un collega da lei molto apprezzato: David Lynch. Il regista americano sembra essere, come traspare dalle interviste, il vero e proprio idolo registico della Campion: “ Ha fatto arrabbiare tanta gente con Blue Velvet, che invece io ho trovato un film divertentissimo. La scena iniziale, il ritrovamento di quell’orecchio fra l’erba, vorrei averla girata io. Ma forse non ne sarei capace. Nei suoi film c’è la scoperta dell’orrore del quotidiano, la messa in discussione della normalità che anch’io cerco di raggiungere nei miei. Si, Lynch è la persona a cui mi sento vicina più di chiunque altro”. Indiscutibilmente sono numerose le analogie tra la regista neozelandese e quello americano: entrambi hanno una forte cultura figurativa alle spalle; entrambi rigettano ipotesi di razionalizzazione preferendo che sia il subconscio sia tra i cardini dei loro film; ambedue sono attratti da ciò mette in discussione la norma e l’apparenza; per il sovente utilizzo del grandangolo; per le inquadrature decentrate e l’ossessivo utilizzo del dettaglio; per una forma di iperrealismo ironico applicato alla classe media; la passione per personaggi al limite della follia; entrambi si sono cimentati nella realizazzione di prodotti televisivi dalle qualità “cinematografiche”. Proprio le già citate scene iniziali di Velluto blu sono un’esempio valido per mostrare quanto siano forti le affinità tra i due registi; la Campion probabilmente con il suo ultimo film è riuscita nello scopo, prefissato ma temuto, di girare qualcosa di simile a quelle scene. Prendiamo in analisi il prologo di Velluto blu: alcuni dettagli ( i pompieri salutano dal loro camion, rose rosse vengono mosse dal vento...), fotografati con una lucentezza che rende i colori irreali, suggeriscono l’armonia della città finchè la cinepresa si sofferma su un’uomo - il padre del protagonista - che sta inaffiando il giardino di casa; ad un certo punto, il tubo di gomma si impiglia in un ramo e, improvvisamente, l’uomo colpito da un infarto cade a terra. La macchina da presa, allora, inizia a muoversi rasente al terreno tra i fili d’erba, andando a scoprire un gruppo di scarabei in lotta tra loro; la scena successiva mostra il protagonista, vagare per un prato, dopo aver visitato il padre in ospedale, trovare per caso ,tra l’erba, un orecchio mozzato. Assistiamo quindi in un contesto d’assoluta normalità e consuetudine borghese, alla comparsa dell’irrazionale con il ritrovamento dell’orecchio, porta oscura in cui si cala Jeffrey per scoprire il lato oscuro della sua città.

Il prologo di In the cut, ultimo film della Campion, sembra avere la medesima funzione attraverso identici mezzi espressivi: la metropoli newyorchese viene mostrata attraverso diversi dettagli delle strade (grattacieli, barboni, graffiti…), mentre in sottofondo si sente una dissonante versione di Que serà serà; in maniera inquietante si vedono poi dei piedi di donna percorrere una strada bagnata, nella notte, finchè non si intuisce che si tratta di Pauline - la sorella di Frannie, la protagonista - che, nel giardino della sorella, viene inspiegabilmente travolta da una pioggia di petali. L’apparizione improvvisa della pioggia di petali turba il sonno di Frannie che intanto in flashback rivede l’incontro dei suoi genitori; qui vediamo sullo sfondo una bella ragazza volteggiare sui pattini, all’improvviso, in primo piano, appare un uomo di spalle che stringe un guanto nero in un pugno minaccioso, quasi fosse un assassino, sensazione rafforzata dal suono stridente prodotto dalla mano che stringe il guanto. Quindi si lancia in corsa sulla pista per poi tornare in primo piano, a questo punto, i pattini, solcando il ghiaccio, lacerano il titolo del film apparso sullo schermo, e così la scritta IN THE CUT inizia a sanguinare. La sensazione di sogno fatato vissuto da Frannie e Pauline, già stride con elementi inquietanti quali la musica, i graffiti, il vicino di casa osservato da Pauline, viene in maniera rafforzata resa ancora più irreale ed inquietante grazie al flashback di Frannie. Questo è uno dei molti esempi in cui entrambi i registi giocano a sovvertire le regole, mostrando qualcosa che più in là lo spettatore scoprirà essere profondamente diverso; si tratta del labile confine tra apparenza e realtà, percezione visiva ed esperienza sensoriale. La differenza principale tra i due registi si trova proprio nel rapporto che intrattengono con il reale: Lynch, talvolta, sembra allontanarsi del tutto dal reale per entrare in una dimensione esclusivamente onirica, mentre la Campion sembra aderire ad una realtà a cui, però, resta estranea rivelando così una frattura del reale, che mostra così la sua superficialità a discapito di situazioni più potenti quali il sogno, la premonizione, la paranoia, il desiderio.

Un rapporto del tutto diverso è quello che lega la Campion allo spagnolo Bunuel; al di là dell’interesse della regista verso il movimento surrealista, il fattore che maggiormente li lega è l’interesse verso personaggi femminili fatalmente travolti da “oscuri oggetti del desiderio”. Bella di giorno e Tristana non sono altro che film della Campion ma più agghiacianti, cupi e pessimisti; in ambedue i film assistiamo alla scoperta del piacere da parte d’una donna “frigida”, che si avventura tra realtà e sogno, spinta romantica e pulsione sadomasochista, nel mondo maschile. Sia Ada di Lezioni di piano che Séverine di Bella di giorno sono vittime di rapporti insoddisfacenti con l’altro sesso , a cui cercano di porre rimedio attraverso fughe in altri lidi, che possono spaziare dal rapporto con un altro uomo o l’attività come “bella di giorno”. In entrambi i film di Bunuel, l’azione mescola gli avvenimenti ad una realtà onirica creata dalla protagonista, che funge da valvola di sfogo delle pulsioni erotiche represse; Séverine durante il sogno del duello, ferita e vestita di rosso, è legata ad un albero, una immagine che inevitabilmente rimanda a Lezioni di piano. In maniera azzardata si potrebbe dire che il sogno di Séverine rappresenta un desiderio represso di Ada, un abbandono in maniera implicita della gabbia borghese al fine d’un raggiungimento di liberazione sessuale ante-litteram. La redenzione attraverso il “peccato” conduce al senso di colpa, alla punizione che immancabilmente arriva dalle mani dell’uomo; in questo contesto ci sono analogie tra il capolavoro della Campion e Tristana. In The Piano Stewart, dopo aver scoperto la relazione della moglie con Baines, la punisce amputandole il dito, successivamente la ritroveremo sposata con Baines suonare il piano grazie ad un dito metallico modellatole dal marito; nel secondo film Tristana, abbandonato Don Lope, suo tutore, intreccia una relazione con un giovane pittore ma una grave malattia la costringerà prima all’amputazione d’una gamba e poi a ritornare sotto le morbose attenzioni del tutore. La scena in cui Tristana seduta al piano, mentre la cinepresa svela il moncherino a cui gli eventi l’hanno costretta, sceglie deliberatamente di non utilizzare l’arto artificiale è inversamente proporzionale a quella del prefinale della Campion. Il ruolo delle protesi, evidentemente di tipo feticistico, simboleggia da un lato il possesso definitivo di Tristana da parte di Don Lope e dall’altro il riscatto di Ada, attraverso un processo di perdita e rinascita in cui la memoria di ciò che è accaduto traspare dal suono “diverso” prodotto dal dito metallico sui tasti.

Il tema dell’irrazionale, del perturbante è quello che lega la regista all’opera di Roman Polanski. Una figura di donna, molto simile a quelle tratteggiate da Bunuel, dai tratti foschi è al centro del film Repulsion; Carol, protagonista del film, rappresenta la versione schizofrenica delle vittime di Bunuel e delle eroine della Campion. Il rapporto tra Campion è Polanski è già stato in parte analizzato, nel libro sulla regista, da Ilaria Gatti che scrive così: “ Carol, nella sua schizofrenia, può essere considerata la sorella di Sweetie e questo sembra duplicare, nel rapporto con Kay, quello tra le sorelle Carol ed Helen alle prese con le loro sofferenze inespresse. I rapporti tra le due sorelle scorrono lungo canali intimamente legati,minati dalla follia, rasentando il limite incerto della normalità”. Kay nella prima sequenza di Sweetie sta bene attenta ad osservare il marciapiede, cercando d’evitare le crepe, la medesima preoccupazione invade la mente di Carol; le crepe nel marciapiede così così come quelle sul soffitto di casa non sono altro che vettori della schizofrenia, sintomi d’una mente malata. Le fantasie di Kay e Carol nascono dalla repressione del desiderio, da una consizione di sessuofobia patologica; nel caso di Kay l’irrompere di Sweetie nella sua vita la condurrà ad un processo di rinsavimento a discapito della sorella mentre l’abbandono di Carol da parte della sorella Helen creerà una identità tra fantasia e realtà ,nella mente della protagonista, dai risvolti cupi e violenti. Questa degenerazione mentale di Carol viene esemplificata dalla visione del coniglio morto, lasciato da Helen in frigo, che è un vero e proprio “correlativo oggettivo della morte del desiderio” e dalla germogliazione delle patate, anch’esse lasciata dalla sorella. Il processo di germogliamento delle patate è ripreso in maniera simile a come la Campion ci mostra la possibile crescita d’un sambuco nel giardino di Kay, che è assolutamente terrorizzata dalle piante. L’atmosfera inquietante ed onirica sembra quindi essere una prerogativa di Polanski che attrae molto la regista, non a caso le scene legate a premonizioni ,tipiche nel suo cinema, sembrano prendere la stessa forma visiva dei film del regista polacco.

Le affinità con questi registi, quindi, non si limitano mai a furti,citazioni, inspirazioni ma si tratta d’un vero e proprio scambio creativo tra artisti con visioni del mondo simili, una fascinazione irresistibile verso l’ignoto della mente e uno sguardo ironico sull’assurdità che circonda nel mondo.

 


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