Marco Ferreri e il cibo: il risotto è meglio della cocaina! PDF 
di Cristina Dall'Igna   

Mangiare non è solo un bisogno fisiologico. Da sempre il cibo è uno temi principali in qualsiasi forma d'arte; basti pensare, ad esempio, a Le déjeuner sur l'herbe di Eduard Manet (1863), a I mangiatori di patate di Vincent Van Gogh (1885) o alle tante opere di Andy Warhol e Salvador Dalì. Nel cinema il cibo, tuttavia, diventa comunicazione, rito, soddisfazione di bisogni e pulsione di desideri, luogo ideale di esaltazione della fisicità dei corpi e degli alimenti. Piatti e bevande simboleggiano la stessa condizione umana, e un tema come quello del nutrimento arriva a coinvolgere necessariamente la sfera della spiritualità e della materialità dell'uomo.
Il cibo è sempre stato una stella del cinema nostrano, proprio perché esso occupa un posto unico nella vita reale degli italiani: è un'espressione fondamentale della nostra cultura e delle nostre tradizioni nel mondo.

Innumerevoli sono le pellicole che lo rendono protagonista, mettendone in scena vuoi la sua penosa assenza, vuoi la sua presenza strabordante e a volte eccessiva: Il minestrone di Sergio Citti (1981) o La cena di Ettore Scola (1998), per citarne due, lo dimostrano. Ma il re del "film fisiologico" (come egli stesso lo ha definito nell'intervista a Paolo Mereghetti in "Cineforum", n. 132, 1974) è senza dubbio Marco Ferreri. Nei suoi lungometraggi il nutrimento riveste un ruolo fondamentale ed è costantemente legato alla frustrazione dell'uomo moderno all'interno della società.

 

L'uomo ferreriano, tramite il cibo, cerca di appagare la propria insoddisfazione e il proprio senso di disagio; è il caso di Alfonso, ne L'Ape Regina (1963), che per sfuggire all'insaziabile moglie, la quale da lui pretende ripetuti atti sessuali, si chiude in ufficio a gustare, in solitudine, ottime pietanze. O quello del Mario Fuggetta di Break-up (1968), che, ossessionato dalla ricerca del limite massimo di espansione di alcuni palloncini gonfiabili, finisce per ritrovarsi, solo e sconsolato, in una casa abbandonata a dividere le proprie vivande con un grosso cane san bernardo. Spesso infatti, i pasti delle opere di Ferreri sono preparati proprio per essere consumati in solitudine, come in Dillinger è morto (1969), nel quale il protagonista Glauco passa la notte tra libri di cucina, fornelli e tavola, quasi sempre da solo; o comunque per essere consumati "tra uomini", come ne La grande abbuffata (1973), in cui la donna compare unicamente per sottolineare ed accrescere il sapore mortale del cibo, aiutando i quattro gentiluomini ad ingerire sontuosi manicaretti e favorendone così il suicidio.

Il piacere del mangiare, per i personaggi ferreriani, è fine a se stesso, appagamento ultimo prima della rovina finale: "Il mangiare diventa l'ultima speranza e disperazione che sia presente davanti agli uomini […]. La mangiata – molto più che il cibo in sé – diventa allora l'ultima certezza di questa vita" (Marco Ferreri in Paolo Mereghetti, "Cineforum", cit.). Invece che restituire energia, il cibo priva di ogni forza vitale e finisce per costituire una limitazione anche al rapporto amoroso. I temi della coppia, del sesso, dell'impossibilità di instaurare feconde relazioni tra uomo e donna sono, nell'opera del cineasta, leitmotiv costanti spessissimo legati a quello del nutrimento: Giorgio e Liza, i protagonisti de La cagna (1972), moriranno di fame, per esempio, per non essere riusciti a liberarsi dalla prigione del matrimonio, al quale hanno tentato di sfuggire rifugiandosi su un'isola deserta, su cui però alla fine rimarranno senza vivande.

Tra le varie "modalità culinarie" che Ferreri ci propone, troviamo anche, in ben tre dei suoi film, quella del cannibalismo. Cino de Il seme dell'uomo (1969) consuma la carne della propria amante, cucinatagli dalla moglie Dora; il tema dell'alimentazione si esplica qui come mostruosità e alienazione, come ansia di un cannibalismo in realtà "vitale", rappresentazione dell'ossessione ferreriana della violenza insita nei rapporti umani e in particolare in quelli di coppia, sempre visti dal regista come relazioni di schiavitù e di proprietà. Cannibalismo, quindi, anche come distruzione finalizzata all'affermazione totale ed esclusiva di sé, che si ripropone in Come sono buoni i bianchi (1988), in cui una coppia di europei facenti parte di una spedizione umanitaria in Africa, finalizzata a portare aiuti alle tribù affamate del Sahel, viene divorata (dopo una notte d'amore) da un gruppo di indigeni: il rito cannibalico sancisce in questo caso il fallimento definitivo dell'uomo occidentale e dei suoi falsi miti, la morte inevitabile di una società che ha perso identità e valori, disponendosi così ad essere fagocitata.

Il terzo film in cui si affaccia questa modalità è La carne (1991): il protagonista Paolo, una volta venuto a conoscenza della decisione della sua compagna Francesca di lasciarlo, la uccide e la mette nel freezer; non potendola possedere sessualmente, la fa sua inglobandola a sé tramite l'atto del mangiarla. Quest'opera si rivela fortemente significativa in quanto, tra i più recenti lungometraggi del regista, è quella che maggiormente esprime la fortissima relazione cibo-amore-morte, filo conduttore di tutta la filmografia ferreriana, nonché elemento basilare per capirne a fondo la poetica.

Tuttavia, non solo mettendone in scena l'eccesso, il cineasta ha fatto del nutrimento un fattore comunicativo. In Chiedo asilo (1979) la tematica del cibo si presenta tramite il rifiuto della sua assunzione: l'anoressia del piccolo protagonista Gianluigi esprime il suo rifiuto del mondo. Mangiare è anche comunicare, e costituisce da sempre un momento importante della vita sociale; questa rinuncia a nutrirsi è quindi la manifestazione dell'impossibilità, e forse anche dell'inutilità, di interagire, in un mondo che ormai, per il regista, non ha più nulla da dire, che ha distrutto la più intima e profonda originalità dell'individuo, limitandone sempre di più la libertà.

Ferreri fa del cibo un veicolo preferenziale per esprimere, di film in film, un diverso tassello del suo messaggio globale; egli lo utilizza quindi, di volta in volta, per esprimere la solitudine e l'alienazione dell'individuo in una civiltà che tende sempre di più alla reificazione, per condannare il consumismo della società moderna e sottolinearne l'inutilità, per esprimere un desiderio deviato e/o deviante di amore o di morte o di libertà.

 


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