Cella 211 PDF 
Aldo Spiniello   

Il giovane Juan Oliver (Alberto Ammann) ha trovato un nuovo lavoro come secondino. Per farsi un’idea di cosa l’attende decide di presentarsi  in carcere con un giorno di anticipo sull’inizio del servizio. Ma la solerzia non sempre paga: durante la visita al braccio riservato ai detenuti più pericolosi, crolla una parte di solaio e Juan viene ferito accidentalmente. I suoi due accompagnatori pensano bene di rinchiuderlo momentaneamente in una cella vuota, la 211. Ma è proprio in quel momento che scoppia la rivolta. Abbandonato a se stesso, Juan decide di giocare il tutto per tutto: finge di essere un nuovo detenuto e, miracolosamente, guadagna la fiducia del leader della rivolta, il temibile Malamadre. Ma la situazione sfugge di mano e la finzione finisce per prendere il sopravvento.

“I segni del carcere si vedono dalla tensione sulle spalle ...”. Lo diceva il sergente Powers/Lawrence Fishburne a uno scettico Sean Devine/Kevin Bacon in Mystic River. Un’affermazione all’apparenza indimostrabile, ma che sembra trovare la sua improbabile conferma in questo Cella 211, quarto lungometraggio dello spagnolo Daniel Monzón, che si innesta quasi per miracolo in un magmatico immaginario cinematografico. Basta guardare al personaggio di Malamadre, cuore pulsante del film, ancor più del vero motore narrativo rappresentato dal giovane Juan. Forse è solo un caso: ma Malamadre viene “presentato” dall’inquadratura, dal tatuaggio proprio di spalle. E, per di più, ad interpretarlo è l’immenso Luis Tosar, altro incredibile corpo modificato geneticamente dallo sguardo di Michael Mann. La mente non può far a meno di correre a Miami Vice, ad Arcángel de Jesús Montoya (ennesimo angelo del male del cinema di Mann), che, ripreso di spalle, ribolle d’odio osservando i fremiti di desiderio di Isabella, la sua donna, e di Sonny Crockett.  

La tensione sulle spalle, dunque. Segni di un personaggio e di un interprete che sembrano farsi carico di un passato indicibile, di tutto un vissuto segreto e taciuto. Una tensione manifesta, palpabile, eppur in qualche modo sempre trattenuta, continuamente sul punto di esplodere, eppur mai deflagrante. È vero che Malamadre dà il via alla violenta ribellione dei detenuti. Ma è altrettanto vero che, lungo tutto il corso della vicenda, riesce a trattenere, in un modo o nell’altro, il proprio impeto. Anche quando arriva a sospettare di Jaun. Anche quando, nel finale, si rende conto del tradimento dell’Apache (Carlos Bardem) avvertiamo nei suoi occhi solo la promessa di una vendetta a venire, una resa dei conti rimandata ad un futuro che è inevitabilmente fuori dal film. Se il percorso di Juan è completo, chiuso nella sua trasformazione che lo condanna a quella stessa fine che appariva inevitabile sin dall’inizio, il percorso di Malamadre rimane sospeso come uno sguardo che, più che rispondere a un controcampo, rimanda a un fuori campo invisibile. E così, se si riconosce in Malamadre il vero centro emotivo della vicenda, tutto Cella 211, ancor più che un film di eventi, appare un film di minacce, una lunga ed estenuante preparazione a qualcosa che si teme e che viene rimandato sempre. Un film che fa della tensione il suo nucleo emotivo, e che perciò vive più di attesa che di eventi, attesa di ciò che, prima o poi, dovrà accadere oltre o fuori. La rivolta carceraria non conta in quanto tale, nelle sue ragioni, nei suoi sviluppi, nella sua riuscita o meno. Ciò che contano sono le sue conseguenze, vicine e lontane. Quelle personali, quelle politiche. In questo senso, Cella 211 è un film decisamente eccentrico, proiettato oltre le ristrette mura del carcere. Proprio come l’altro grande film carcerario dell’anno, il ben più complesso Il profeta. Ma nel vertiginoso capolavoro di Audiard le tendenze eccentriche fanno saltare i limiti incerti del realismo e finiscono per compiere un vero e proprio ribaltamento. Rovesciano la gerarchia di senso, stabilendo un assoluto dominio del fuori rispetto al dentro. I rapporti di potere all’interno dell’istituzione non sono che il “precipitato perfetto” del mondo esterno, di tutta una serie di rapporti umani, malavitosi e sociali, che vengono attraversati come in un lampo dal nuovo profeta, Malik El Djebena, che parla tutte le lingue della Terra e domina Babele.

Qui, invece, il fuori appare comunque sfocato, come se a Daniel Monzón mancassero la capacità e il coraggio di rendere finalmente permeabili le pareti del carcere. Sebbene riesca a definire a pieno il clima di tensione dentro, quando cerca di intuire il fine di quel tendere o quando prova ad allargare il quadro, il suo sguardo diviene incerto ed opaco. La violenza stessa non è mai liberazione o “espressione”, come ne Il profeta (la fantastica scena della sparatoria in auto), ma è cupa, assordante ripetizione di un’immobile e funzionale disperazione. E, poi, le implicazioni della rivolta, le proteste dei familiari, gli incidenti con la polizia, le conseguenze politiche del braccio di ferro con i nazionalisti baschi, la pragmaticità amorale dei negoziatori … Tentativi di definizione di un contesto che appaiono pretestuosi e che denunciano un a priori letterario (il romanzo di Francisco Pérez Gandul), una forzatura della sceneggiatura (dello stesso Monzón e di Jorge Guerricaechevarría) che collide con la solidità dell’impianto spettacolare. Ecco: Cella 211 sconta l’impossibilità di forzare i limiti del genere. È un film che ripiomba in se stesso, nel proprio orizzonte concentrazionario, cieco e soffocante. Nella compressione di questo spazio ristretto, trova la sua forza esplosiva, come se fosse fatto di materia gassosa. Ma non sa mai disegnare altre immagini, sempre risucchiate in un buco nero dello sguardo.

TITOLO ORIGINALE: Celda 211; REGIA: Daniel Monzón; SCENEGGIATURA: Jorge Guerricaechevarría, Daniel Monzón; FOTOGRAFIA: Carles Gusi; MONTAGGIO: Cristina Pastor; MUSICA: Roque Baños; PRODUZIONE: Francia/Spagna; ANNO: 2009; DURATA: 104 min.

 


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