Un mondo (im)perfetto PDF 
di Mattia Plazio   

"La cosa migliore per un uomo è essere un buon padre". In una frase detta così, quasi con noncuranza, da Butch, il galeotto fuggito anzitempo dalla prigione di Huntsville in Texas, al suo imprevedibile ostaggio/compagno di viaggio, il piccolo Phillip, sta tutto il senso di un film che prima ancora di assumere le forme di un ibrido dai meccanismi perfetti - strana miscela di road movie, poliziesco, thriller, commedia e mélo - appare come una sofferta e malinconica riflessione sul dramma dell'Assenza. Assenza del pater familias, assenza di Dio Padre.

Già, il padre. Forse è proprio in questo diciassettesimo lungometraggio di Clint Eastwood che compare (seppur in absentia) per la prima volta in maniera così ossessiva la figura del padre (già peraltro presente in nuce ne Gli spietati, dove il cambiamento di William Munny è la diretta conseguenza del suo essere diventato marito e padre di famiglia e la sua ultima "discesa in campo" è legata in parte alla responsabilità di dover dar da mangiare ai propri figli), vero topos della riflessione dell'Eastwood maturo, nonché motore d'azione e centro catalizzatore di emozioni. Una figura intorno alla quale il regista californiano costruirà opere di rara intensità, come Mystic River (rappresentazione della violenza scaturita dal sentimento di vendetta di un padre ferito) e l'ultimo, pluripremiato, Million dollar baby, che tra tutti è forse il film che, proprio nel complesso rapporto tra Frank e Maggie, rispecchia più da vicino il gioco di rimandi di Un mondo perfetto.

Qui come altrove, Clint Eastwood, cantore del significato etico della vita, non esita a ribadire, in linea di principio, tanto la "sacralità" della funzione paterna - importante polo affettivo, ma soprattutto guida e modello di comportamento - quanto la problematica necessità per l'individuo di assumersi la responsabilità delle proprie scelte di uomo e di padre e di trovare una giustificazione al proprio agire. Tuttavia, negando aprioristicamente una qualsiasi visione edulcorata della realtà, il regista californiano non ha altresì timori nel rappresentare quello che è il rovescio tragico della medaglia, ovvero l'inevitabile disgregazione cui è destinato il soggetto a contatto con una realtà privata di ogni possibile riferimento, il progressivo indebolimento delle sue certezze di fronte ad un contesto che è quello di un mondo senza leggi, dominato dal caos, dall'ingiustizia (terrena e divina) e dalla sofferenza, un mondo "doloroso" nel quale padri e figli sembrano accomunati dalla confusione di un vagare senza meta attraverso le strade spesso tortuose della vita e nel quale Dio stesso (Padre dei padri) sembra nascondersi e la religione non assolvere più alla sua funzione originaria di guida, diventando semplice orpello e contenitore vuoto di significati. La colpevole (per la società? per l'individuo? per entrambi?) perdita di modelli e di punti di riferimento, terreni o trascendenti, costringe dunque il singolo alla solitudine più nera. In assenza di criteri solidi per distinguere fra bene e male, giusto e ingiusto, i personaggi eastwoodiani, sempre in balia di se stessi, non possono più rispondere ad un sentimento etico comunemente accettato, o dettato da una fede superiore, ma sono obbligati a seguire la propria strada, ora più che mai incerta. Rimasto solo, l'individuo è costretto a cavarsela da sé, seguendo un suo personale codice morale, dandosi lui stesso dei valori, giusti o sbagliati che siano. Abbracciando il proprio tragico destino.

Così è per Butch Haynes (Kevin Costner), uomo solo, impegnato in un ultimo folle viaggio nel tentativo disperato di recuperare un'innocenza ormai perduta, o forse, in fondo, mai vissuta. Una fuga impossibile attraverso i luoghi non-luoghi dell'America più profonda, con l'intento e l'obiettivo di raggiungere quell'agognato "altrove" che da sempre nutre l'immagine del Sogno americano, quella riserva di possibilità e riscatto qui rappresentata dagli spazi infiniti dell'Alaska, meta e scopo del suo viaggio, un luogo che continuerà tuttavia ad esistere soltanto dentro una cartolina sbiadita, unico ricordo di un padre che padre non è mai stato e con il quale il protagonista cerca invano di ricongiungersi in un improbabile lieto fine, spinto da un'ansia di futuro (che è poi passato) e di rinnovamento che non ci sarà mai. Ed è proprio l'assenza del padre, depositario di regole e principi e "maestro" di vita, ad aver determinato "tragicamente" la vita di Butch, costretto ben presto a cavarsela da sé e - anche grazie alla colpevole incomprensione di colui che avrebbe potuto esserne la figura vicaria (Red Garnett/Clint Eastwood, uomo di legge disilluso, amaro, per lo più indifferente, responsabile "ai tempi" di aver condannato il protagonista al riformatorio, non perdonandogli uno piccolo sgarro di gioventù) - a "formarsi" passando da una galera all'altra.

Nessuna redenzione dunque, né salvezza, per Butch. Il suo grande Sogno è destinato ad infrangersi miseramente sotto i colpi del disinganno prodotto dalla coscienza di una "manchevolezza", sociale, individuale e spirituale. Tuttavia, qualcosa rimane. Ed è il tempo, seppur breve, trascorso con il suo piccolo alter ego, Phillip, proiezione del sé infantile e nello stesso tempo incarnazione del figlio che Butch non avrà mai e verso il quale dimostrerà di poter essere quel padre che né lui né lo stesso Phillip hanno mai avuto la fortuna di avere. Anche solo per pochi giorni. D'altronde l'insegnamento forse più importante di cui il piccolo protagonista dovrà in futuro fare tesoro è nascosto in un'affermazione tanto perentoria quanto dolorosa: "Quelli come noi, Phillip, devono stare da soli per correre dietro al proprio destino".

 


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