Il Divo Giulio PDF 
Umberto Ledda   

ImageRapida ricognizione
I politicanti dipinti da George Grosz negli anni Trenta sembra debbano fare i vermi da un momento all'altro. Hanno volti mollicci e grigi, leggermente sfibrati. La loro putrefazione non ha legame con la grandezza ma solo e soltanto con la putrefazione, e infatti in Germania andò come andò. I politicanti di Sorrentino si tengono meglio, ma l'odore che si respira ne Il Divo è compatibile: c'è puzza di carne e di morte, un odore molto distante dall’asettica e pulita apparenza della politica. C'è puzza di morte anche nel cinema di Elio Petri, ma una puzza di morte diversa, più italiana, una puzza di morte ben imbalsamata, e il legame fra Todo Modo e Il Divo è evidente. Mentre l’atmosfera vagamente psichiatrica che si nota talvolta nel film di Sorrentino sembra attingere ad un altro Petri, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto: la conduzione della res publica come forma della psicopatologia, come forma disgregativa della percezione di verità, verità relativa, menzogna. Il Divo ha molti padri: alcuni sono diretti, altri meno. E se da qualche parte si scorge Fellini, è ovvio che la sua presenza appartiene più al regista Sorrentino, che ama indulgere nell’omaggio al maestro quando si presenta l'occasione, che al film in sè. Perchè Il Divo, da parte sua, veleggia in territori mediamente più malsani, richiamando perfino qualcosa del Salò di Pasolini: non che i film c'entrino qualcosa, girati come sono da due personalità che da spartire non hanno praticamente nulla, eppure entrambi utilizzano la regia, la scenografia e la fotografia per creare una costruzione sacrale dell'immagine (Pasolini fu maniacale in questa direzione, Sorrentino meno), attraverso cui protagonisti fondamentalmente squallidi assumono un significato più alto di quello delle loro azioni. C’è, ne Il Divo, qualcosa del cinema sociale italiano dei decenni passati, contemporaneamente c’è qualcosa dell’arte fiamminga. E in fondo a tutto, si respira qualcosa del cinema di mafia americano degli anni Settanta, il cinema degli italiani. C'è la ieraticità del male assoluto, contrapposta con una certa coglionaggine del male umano: c’è il boss malvagio ma di grandezza tragica, ci sono gli sgherri a formare una mandria umana di tagliagole, incomparabili per spessore al loro capo. C’è soprattutto la scissione soltanto etica, e non sociopolitica e morale, fra gli esseri umani. Cioè: non c'è da una parte il bene e dall'altra parte il male a separare personaggi positivi e personaggi negativi. C'è la caratura etica. La grandezza degli individui. Nel miglior cinema di mafia, come nel noir, la statura del malvagio è sempre superiore a quella del buono. Ne Il Divo, sarà perché viene direttamente dalla realtà, il buono manca del tutto. Ne Il Divo i conti non tornano mai.

ImageUna brutta corrente
Il cinema di mafia è il primo a venire in mente: quando Sorrentino presenta gli uomini vicini ad Andreotti, dopo una manciata di minuti, non c’è spazio per i dubbi. La corrente andreottiana, quella piccola brigata che per decenni si impose come chiave di volta dell'equilibrio politico italiano, nemmeno nella realtà è mai stata molto presentabile: un'accolita di loschi individui i cui nomi avevano la tendenza persistente a spuntare fuori ovunque accadesse qualcosa di poco chiaro, e la cui presenza in politica era inspiegabile se presa dal punto di vista dell'etica, assolutamente naturale se vista da quello della funzionalità all'interno del caotico calderone italiano. Ne Il Divo assumono una deformazione caricaturale, estrema, umorale: una corte dei miracoli, una bandaccia di criminali. Franco Evangelisti è una sorta di leccapiedi subnormale, praticamente una spalla comica del Divo Giulio. Cirino Pomicino compare subito felicemente abbracciato a due avvenenti donne che insieme fanno la sua età e la cui professione dichiarata di addette stampa sembra opinabile: il suo primo gesto, uscendo dall’auto, sembra proprio quello di aggiustarsi la zip dei pantaloni, tanto per fugare ogni dubbio. Vittorio Sbardella, lo Squalo, una montagna umana più avvezza allo scontro fisico che alla manipolazione e all'ipocrisia. Il suo primo gesto: mimare uno sparo alla testa della segretaria di Andreotti, prima di scoppiare in una risata. La loro entrata in scena, in rallenty, è epica e minacciosa. Sono personaggi pericolosi, gente da cui stare alla larga. Deputati, ministri, uomini d’affari che rappresentano non tanto la saggezza dei conduttori di popoli, ma pulsioni basali, la forza, la laida manipolazione, il servilismo, la lussuria, la carne. Una grottesca affermazione di individui prima che di uomini di stato, una rivincita dei corpi sopra la ragione superiore del bene comune. La loro incongruità con il raffinato e geometrico pragmatismo, l'apparente disumanità del loro principale è evidente. Eppure, proprio questa sconcia esibizione di bassa umanità fa si che nessuno di questi personaggi appaia nel film con un'immagine totalmente negativa: la loro caratterizzazione dona loro un aspetto di umanità, caricata di un'italianità godereccia in cui sguazzano e di cui si nutrono felicemente. E dietro la corrente andreottiana e ad Andreotti, c'è il balletto di sangue delle loro azioni, alcune presunte, molte accertate: i morti ammazzati, i caffè avvelenati, le logge massoniche, la mafia, il corpo di Calvi appeso al ponte, i tradimenti, le minacce, le intimidazioni, le stragi. La realtà, insomma.  Anche in questo caso, qualcosa non torna.

ImageRicognizione, parte seconda
Un laido canzonettaro cocainomane che si brucia la carriera andando a letto con una sedicenne. Un impiegato della mafia, eroinomane una volta a settimana. Uno strozzino gobbo e ributtante pronto allo sconto sugli interessi previo favore sessuale. Sorrentino ama personaggi eticamente marginali, sgradevoli, spesso e volentieri schifosi. Brutta gente. L'unico protagonista incolpevole, il calciatore Antonio Pisapia de L'uomo in più, è anche il meno evoluto drammaturgicamente: il suo ruolo è fallire, una lenta discesa nel nulla che serve solo come contrappunto per il vero protagonista, l’Antonio Pisapia canzonettaro. Per il resto, uomini orrendi che conducono vite orrende che vanno a finire anche peggio: eppure, a modo suo Sorrentino ha sempre raccontato storie di redenzione. La struttura ricorrente: esseri che di umano hanno poco, in un dato momento delle loro vite, si trovano di fronte la possibilità di una normalità che in fondo desiderano (Sorrentino fornisce sempre ai suoi protagonisti un motivo per essere dei farabutti, sono laidi ma lo sono perchè qualcosa delle loro vite, ad un tratto, non è funzionata per bene): questa possibilità ha le sembianze dell’amore, della giustizia, della dignità. La seguono, ma sottovalutano le conseguenze dell’umanità: e finiscono male. Tutto questo prima de Il Divo. Ora, la galleria sorrentiniana è questa: un canzonettaro cocainomane. Un ragioniere della mafia. Uno strozzino. Un pluripresidente del consiglio. Le similitudini fra il Divo Giulio e i precedenti protagonisti sono molte. La sgradevolezza anatomica: non è la prima volta che una gobba compare fra gli attributi fisici dei protagonisti del regista napoletano. Lo spiccato cinismo, la disumanità, la freddezza, la noncuranza per l'etica comunemente intesa. L'ambiguità fra azioni aberranti e una certa dignità nell'atteggiamento. Una profondità personale sempre tenuta fuori campo, ma percepibile. Una tendenza a comunicare con frasi lapidarie, sarcastiche, di un'ironia sicuramente intelligente, ma la cui reale profondità è opinabile. Descritto così, Andreotti era sembra un tipico personaggio di Sorrentino. Il problema sorge nel momento in cui il vero Andreotti arriva a pesare sul personaggio.

ImageIl Divo Giulio
La sfinge. Nosferatu. il Divo Giulio. Belzebù. La volpe. Il gobbo. Il Papa nero. L'impenetrabile. Il Moloch. L'Uomo delle tenebre. L'Eternità. Intelligenza astuta e minacciosa, potere assoluto, misteriosa immortalità politica, ambiguità e inafferrabilità sono le caratteristiche a cui Andreotti fu associato: senza tralasciare la ricorrente connotazione soprannaturale e demoniaca. La sua gestione della res publica era improntata ad un pragmatismo spregiudicato che non teneva conto dei mezzi anche sporchi per ottenere i propri fini e quelli dello stato. Il nome di Andreotti compare in Italia ovunque ci sia un mistero di sangue, anche se solitamente non si hanno le prove, non ci sono tracce precise, oppure ce ne sono molte, ma si contraddicono. Poco è sicuro circa il suo reale agire: la verità si dilegua quando c'è di mezzo Andreotti, perde di significato. Ostentatamente ambiguo, sapeva che nella scomparsa della verità si nasconde una zona d'ombra che è terreno di caccia del potere. Dotato di un fisico da freak, di una gestualità imbarazzante e di una voce melliflua e  sgradevole, Andreotti non aveva certo una figura capace di mettere in soggezione. Ma aveva dalla sua una maschera impassibile. Un'ironia armata, malvolente, fredda, talentuosa nell'epigramma e nell'esercizio della crudeltà verbale. Prossemica quasi assente. Aveva una calma innaturale, il suo volto non esprimeva il suo pensiero: faceva da intermediario neutro. Un regista freddo e impenetrabile, senza dubbi, senza palpiti, senza un momento di pietà umana. Per questo, Andreotti aveva il potere di atterrire. Faceva paura: la fece anche a Oriana Fallaci, che fra i suoi difetti non ebbe certo quello di farsi mettere in soggezione dal primo venuto, e che lasciò un ritratto sgomento di quell'omino con la gobba, cortese, apparentemente viscido, ma la cui calma portava con sé qualcosa di terribile. Carpirgli un tratto di umanità è impresa disperata. Sorrentino ha stabilito che da qualche parte un'umanità doveva pure avercela, e se da una parte estremizza l'elemento inquietante, dotando il suo Andreotti di un fisico da Nosferatu in cravatta anche peggio dell’originale, e caricando sul suo freddo talento nell'ammaestrare il potere, dall'altra gli dona elementi quasi poetici, com'è solito fare con i suoi personaggi. I suoi fantasmi: l'emicrania continua e Aldo Moro. La prima è una tortura costante e invalidante. Il secondo, l’uomo che non solo certe cose non le sapeva, ma non poteva nemmeno immaginare che esistessero, ha la forma di una speranza e un rimpianto: per Sorrentino, ciò che Andreotti avrebbe forse voluto essere. Un elemento di umanità. Non è il solo. Sorrentino si concentra sul momento in cui la strabiliante costruzione di ambiguità costruita intorno alla sua figura cede, prende la forma organica di un'accusa di implicazioni mafiose: per la prima volta un uomo politico di quel rango è sospettato di essere mandante di omicidi. Andreotti ne sopravviverà, ma non manterrà il potere, non arriverà al Quirinale e nulla sarà più come prima: lui lo sa, e ne soffre. E soffre soprattutto rendendosi conto di essere diventato inafferrabile, ambiguo, freddo, lontano, anche di fronte alla sua stessa moglie. Un Andreotti più intimo, che si trova davanti i rovesci della medaglia del suo potere e del suo sistema di potere. Ma i momenti poetici sembrano posticci, superflui, si avverte che il tentativo di Sorrentino di nobilitare il suo personaggio ha qualcosa di forzato, di programmatico. Sorrentino vorrebbe parlare di un personaggio mitico, grande nella sua consapevole e dolorosa malvagità, vorrebbe chiuderlo in un senso organico, come si fa con i personaggi. Ma in questo film, a differenza dei precedenti, non può non fare i conti con la realtà dei fatti. E la realtà, di grandezza e di organicità, non ne vuole sapere.

ImageFare il male per ottenere il bene
Sorrentino non è mai stato un regista di contenuti: ha sempre creato personaggi complessi e affascinanti, senza però curarsi di analizzare valenze e implicazioni di questo loro fascino. La sua attenzione è sempre andata per dialoghi affilati e per la messinscena. La struttura dei suoi film gira intorno ad un'idea di regia e di mondo, non attorno a temi e a contenuti: ha sempre creato immagini e microcosmi, non si è mai chiesto cosa significassero. Il che va bene, è il lavoro del regista. Il problema con Andreotti è che un tale personaggio di temi se ne tira dietro tanti, e non trattarli sarebbe stato assurdo. I temi sono, fra l'altro, il potere, il male, il legame fra i due, la democrazia e la menzogna. Sorrentino non si sottrae. In un lungo monologo di Servillo, mette in scena l'orgogliosa confessione del suo Andreotti, ne fa il fulcro del film. L'uomo di stato ha una missione, una missione che viene da Dio. Fare il bene della comunità. Questo vuol dire arrivare al bene della comunità a qualsiasi costo, anche facendo cose che la comunità non approverebbe: alleanze sgradevoli, intimidazioni, omicidi. Avallare stragi, sacrificare vittime sacrificali. È necessario agire all'insaputa del popolo: se sapesse, farebbe confusione fra il bene dello scopo e il male dei mezzi. Va bene l'ipocrisia, va bene la menzogna, va bene il sotterfugio. Essendo questa missione data da Dio, ed essendo Dio profondamente avverso alla menzogna, al male e all'omicidio, tutte queste cose implicano anche problemi escatologici per l'uomo politico. Che però ha la sua missione, e per farla deve fare il male. Il male è necessario, ed è necessario nasconderlo a chi cerca la verità, perchè la verità, nella politica, è la fine del mondo. In astratto, è il discorso di un despota invasato e medievale con una concezione quantomeno sinistra della democrazia, ma almeno in quest'ottica fila. A differenza dei suoi sgherri, la cui unica preoccupazione sembra essere quella di soddisfare le proprie pulsioni e la propria brama di potere fine a se stesso, il Divo Giulio appare coerente con questa visione tragica. Sorrentino lo dota di una grandezza inquietante: in un corpo da batrace inserisce contemporaneamente lo sguardo del lupo e una forma di malinconia da bestia sacrificale. Non c'è scherno nella sua deformazione grottesca, ma qualcosa di più doloroso e profondo, che dà al film un'atmosfera notturna, mefistofelica, e funerea. Il Divo Giulio è malinconico, solo, triste. Conosce il male. Ne conosce l'orrenda responsabilità e ne conosce la necessità. Continua a fare il male. Sorrentino racconta del vascello pirata della politica italiana democristiana, gonfia di sordidi individui comandati da un freak magnetico, superiore, crudele, solo al comando e profondamente triste. È senza dubbio una bella storia, di quelle che muovono il pensiero, un ritratto desolato, tragico e pessimista della realtà umana. Ma Sorrentino sa anche che ci sono duecentotrentasei morti, nella realtà della storia italiana, imputabili molto probabilmente a questo comandante. Duecentotrentasei morti, nella realtà, sono molto più ingombranti di quanto non lo siano in una costruzione narrativa. Sorrentino lo sa. Costruisce la sua figura tragica e poi passa metà del film a ricostruire, a giustificare, a metterla al pari con ciò che realmente accadde. E non ci riesce, non sapendo decidere quale delle due versioni adottare, sapendo che entrambe hanno un senso ed entrambe non possono non essere raccontate: una perchè significante, filosoficamente compatta, simbolica e mitica, l'altra perchè vera. Questo è il cortocircuito contro cui si infrange il Divo: si infrange anche fisicamente, uscendone con una struttura frammentaria, slegata e incostante, che va avanti per accostamenti e finisce senza chiudersi in una forma precisa. Un film irrisolto perchè quasi impossibile da risolvere per come Sorrentino ha deciso di affrontarlo, per questo ambiguo e inafferrabile, fastidioso e sgradevole.

ImageConclusione
Le ciambelle senza il buco, osservate con attenzione, rivelano i difetti della macchina che le fabbrica. In secondo luogo, evidenziano importanti informazioni sulla natura stessa delle ciambelle: prima di tutto che il buco dovrebbero averlo, ad esempio. Allo stesso modo, la palese imperfezione de Il Divo rivela pregi e limiti del Sorrentino regista, perchè se è vero che Il Divo è palesemente incompiuto, è anche vero che le sue scene, prese singolarmente, spesso hanno una potenza non indifferente. I suoi pregi sono una strabiliante capacità di caratterizzazione. Una direzione d'attori che va oltre la professionalità: perchè se è vero che per far recitare bene Servillo basterebbe probabilmente un criceto, è anche vero che la galleria di personaggi che Il Divo mette in mostra è strepitosa. Un talento formale che in Italia non si vedeva da parecchi anni: la scena della festa in piano sequenza, con il movimento di macchina sinuoso e la sua gestione del tempo e degli spazi, è quasi perfetta. Una grande sensibilità nel creare un'atmosfera in tono ai suoi protagonisti: passando dalla luce dei film precedenti al notturno ombroso di quest'ultimo, la sua capacità di creare un mood particolare e costante per tutto il film non è venuta meno. Il suo limite, al contrario, è quello di amare troppo i suoi personaggi e la loro dolente malvagità, anche a costo di sacrificare la funzionalità dell'insieme. In secondo luogo, l'imperfezione de Il Divo mette in luce la difficoltà di ricondurre la politica  e la storia italiana ad una forma espressiva criticamente efficace. Più in generale, superando la particolarità italiana (bizzarro incrocio di cialtroneria e malaffare alla sudamericana e millenaria cultura politico-giuridica di ascendenza grecoromana), mostra la difficoltà di condurre la realtà ad una sua rappresentazione simbolica ma non deformante. Sorrentino ha tentato contemporaneamente l'astrazione metafisica di Petri e l'impronta civile di Rosi: il suo fallimento riapre una vecchia ferita del cinema, quella del suo rapporto con il mondo reale. Il cinema teme la verità, perchè la verità è il confine oltre il quale smette di essere cinema: la fine del mondo attraverso la metafora e l'astrazione, eleva a grandezza ciò che spesso è sordido (si veda il cinema di mafia): è difficile riunire sotto la stessa struttura entrambe le cose. Alla fin fine, Il Divo è un film molto importante. Lo è proprio perchè non funziona fino in fondo: ambiguo come il suo protagonista, si disperde in troppi rivoli e troppi vuoti per aver tentato la quadratura di un cerchio difficilmente quadrabile. E, proprio in virtù del suo irricomponibile squilibrio, rende giustizia al suo protagonista, Giulio Andreotti,  riassumendo nel fastidio che provoca lo scontro tra la lusinga del suo fascino e la realtà degli orrori con cui si compromise.

 


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