Daigo Kobayashi, giovane violoncellista dal futuro promettente, deve rinunciare alle proprie aspirazioni a causa del fallimento dell’orchestra sinfonica in cui suona. Decide allora di tornare al paese natio e cercarsi un altro lavoro, che nulla abbia a che fare con la musica. Bussa così alla porta di un’agenzia di viaggi che annuncia di essere alla ricerca di un impiegato. Ma Daigo non immagina nemmeno lontanamente che avrà a che fare con il “viaggio”, con la partenza per eccellenza, ossia la morte. Sarà un “tanatoesteta”, ovvero dovrà occuparsi di preparare, pettinare, vestire e truccare i defunti per il trapasso definitivo. Il tutto con un preciso, cadenzale cerimoniale. Dapprima il giovane si mostrerà reticente, ma visto lo stato d’incombenza in cui si trova deciderà di accettare l'incarico e, dopo essersi scontrato con le sue inibizioni e la diffidenza della gente e della moglie, imparerà anche ad apprezzare il suo lavoro, ad appassionarsi alla morte, ad abbellirla, ad ingannarla, ad esorcizzarla con un lento e solenne cerimoniale.
Il film di Yojiro Takita, Departures (partenze, appunto), vincitore dell’Oscar come miglior film straniero, possiede proprio quest’originalità: mettere la morte al centro e farvi gravitare intorno tutto il resto, parlare di una trasformazione interiore, mentale ed emotiva, quella del protagonista, a partire dalla sua esperienza con la morte. Daigo, infatti, interpretato da un bravissimo Motoki Masahiro, appare subito spento, privo ormai di stimoli e vitalità, che sembra tuttavia ritrovare “guardando in faccia” la morte, capace di trasformarlo in un personaggio via via più profondo, sensibile, passionale, in un ribaltamento dello stereotipo secondo cui gli uomini sono più anaffettivi delle donne. Qui è l’esatto opposto: rispetto alla moglie Mika (Hirosue Ryoko), è infatti Daigo quello che scava, quello più caldo, quello più alla ricerca dell’essenza delle cose. E mano mano che osserva la morte sembra riappacificarsi con se stesso: smaltisce la rabbia di un padre assente che fino ad allora l’aveva tormentato impedendogli di vivere una vita serena. E poi si riconcilia anche con la moglie, la quale, una volta compresa la dignità estrema del suo lavoro, gli annuncia una nuova nascita, evento singolare in un film che ha come oggetto la morte, ed ancora più singolare perché avviene alla fine. Perché in fondo si tratta della nascita interiore del protagonista, un venire alla luce che lo sguardo immaginifico del cineasta giapponese comunica magistralmente agli spettatori. È come se il mondo interiore stesse fuori: nei paesaggi, negli interni, in ciò che circonda il protagonista. È come se pervadesse tutto e si rendesse così palpabile.
Bellissime le immagini solenni del cerimoniale che si svolge nel silenzio, nel quale gli unici rumori sono quelli della stoffa che scivola. E meravigliose sono le immagini con protagonista la musica, in particolare quella (che sta anche sulla locandina) in cui Daigo suona il suo violoncello sul prato, con le montagne innevate sullo sfondo: come a dire che il freddo, il ghiaccio, la neve delle emozioni è ormai lontana. Frutto di una sceneggiatura equilibrata, lieve e sottile, mai invadente, splendido canovaccio per immagini cariche di quel lirismo capace di farci amare i silenzi e i tempi lunghi e che, senza parole, parlano con intensità e poesia.
TITOLO ORIGINALE: Okuribito; REGIA: Yojiro Takita; SCENEGGIATURA: Kundo Koyama; FOTOGRAFIA: Takeshi Hamada; MONTAGGIO: Akimasa Kawashima; MUSICA: Joe Hisaishi; PRODUZIONE: Giappone; ANNO: 2008; DURATA: 130 min.
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